"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 19 marzo 2018

Quodlibet. 66 “#quellidellabuonascuola”.


Da “La licenza da bullo del preside d’Italia” di Daniela Ranieri, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 19 di marzo dell’anno 2015: Se gli imperatori del passato riversavano tutto il loro ego nella guerra, i nostri governanti amano gingillarsi con la riforma della scuola, disegnata a loro immagine e somiglianza e ogni volta venduta come una “rivoluzione” del modo di formare i virgulti della Patria, cioè la classe dirigente di domani. Così dopo la scuola-Media-set voluta da B. e amministrata dalla prestigiosa Gelmini (quella convinta dell’esistenza di un tunnel sotterraneo in cui transitavano neutrini da Ginevra al Gran Sasso), ecco la “Buona Scuola” di Renzi, una Leopolda della formazione ricalcata sulla personalità del suo inventore. Un nome-hashtag fragrante come un tegolino, sul genere di Volta buona, Sblocca Italia, Cambio Verso, al cui centro, tra deleghe al governo e strizzatine d’occhio alle scuole private, emerge la figura del preside talent-scout. Nella scuola ideale di Renzi, una specie di sintesi tra il Mulino Bianco e la Repubblica di Platone, questo super-dirigente scolastico sceglie di persona – mettendoci la faccia, direbbe egli – i talenti più rinomati assumendoli nella sua “squadra” (sic), a beneficio dei discenti e dei loro genitori non gufi. Ciò succede perché l’auto-proclamatosi Sindaco d’Italia alle prese col Risiko della scuola si improvvisa Preside d’Italia, capo-scuola nazionale di tanti presidi-renzi in miniatura, figure che ricordano l’Italia degli oratorî e dei boy-scout, un po’ commissari tecnici della Nazionale insegnanti un po’ startupper di grido. Non è del tutto esatto parlare di un modello di scuola aziendale, più berlusconiano che donmilaniano. A B. della scuola importava relativamente: sapeva che i nuovi italiani li aveva forgiati con la Tv. Al Paese del maestro Manzi, della Dc e della censura aveva dato scandalo, superficie, spensieratezza e una specie di sub-formazione tuttora vigente. Alla scuola riservò gli aspetti tecnici di un piano di rinascita democratica tarato sulla sua personale estetica. La sua scuola era il suo ritratto: aziendalista, sgraziata, futile, e con la trovata delle tre “i” (inglese, internet, impresa) della Moratti irradierà il proprio nulla fino alla mai abbastanza vituperata riforma Gelmini, tutta tagli e nefandezze, come quella di cancellare la Storia dell’arte dai piani di studio di istituti tecnici e professionali. Ora lo stesso disprezzo per gli intellettuali che era di Craxi e di B. si reincarna nei modi sbrigativi di Matteo, per il quale la critica è “chiacchiera”, la riflessione iettatura, i “professoroni” un freno alle riforme. Ma lui, che alla dialettica preferisce i retweet, dopo un anno di annunci, visite-spot a classi di bambini ammaestrati e solenni notifiche di qualche tetto riparato, disegna una scuola informata a tutte le sue fissazioni bullistiche, dalla rottamazione al narcisismo personalistico. I super-poteri concessi al preside che, come un piccolo Renzi, nomina i propri insegnanti come fossero suoi dipendenti, sono tecnicamente licenze di abuso, ma il governo le chiama “leve gestionali indispensabili” per far funzionare la riforma stessa. Così Renzi: “Il preside sceglie dentro l'albo dei docenti e individua la persona più adatta senza automatismi”. Più adatta a cosa? Diciamo che laddove l’automatismo gli imporrebbe di scegliere sulla base del punteggio ovvero di non scegliere affatto, il non-automatismo renzista consiglia al preside, a naso, volta per volta, dove puntare il ditino. Ah che meraviglia la meritocrazia, che generazione di ottimati tireranno su i presidi delle meglio scuole d’Italia. E le peggio? Che ne sarà, degli insegnanti con poche stelle sul Trip Advisor della scuola? Che fine faranno, in questo X Factor dell’Istruzione, gli scarsi, i medi, i non eccellenti, gli onesti professori di provincia, quelli che non conoscono nessuno e che nessuno conosce? Si ridurranno alla fame? Li buttiamo dal palco della Leopolda? E i ragazzi che, per insipienza del proprio preside a scegliere il meglio, si troveranno professori scadenti, sottomarche di professori, che colpa hanno? E, ammesso che una simile graduatoria tra destrezze sia possibile, ci sarà una competizione spietata tra presidi per fare della propria scuola quella con più appeal? Si verserà del sangue davanti ai provveditorati? Non sarà, invece, che i presidi sceglieranno a simpatia o secondo logiche di prossimità, acquiescenza, favori, raccomandazioni, potere, che col merito non hanno nulla a che fare? Non varranno per i presidi le stesse regole che hanno guidato la mano di Renzi nello scegliere ministri e figure chiave delle partecipate? E chi sarà il preside fortunello che si aggiudicherà l’assunzione della moglie di Renzi, insegnante precaria? “Perché per fare la Buona Scuola non basta solo un governo. Ci vuole un Paese intero”, recita lo slogan sfornato ad hoc. Per farne una cattiva, invece, un governo basta eccome.

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