Da “Questo
voto è una rivolta contro la politica oligarchica”, intervista di Silva
Truzzi al professor Gustavo Zagrebelsky pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del
9 di marzo 2018: Professor Zagrebelsky, che lettura dà del voto del 4 marzo? - Non una
rivoluzione, piuttosto una ribellione o, se preferisce, una rivolta. Mi baso
non su dati di demoscopia elettorale, ma su personali diffuse percezioni -.
Rivolta contro chi o contro cosa? - La psicologia politica democratica è ciclica. Le democrazie, all’inizio, sono sistemi aperti alla larga partecipazione popolare; poi, più o meno rapidamente si rattrappiscono in oligarchie. Le forme possono restare tali, ma i cittadini iniziano a sentirsi estranei in casa propria. Della trasformazione delle democrazie in oligarchie è testimone la storia. La ribellione non è una malattia dello spirito, ma la reazione a un sentimento di spossessamento, tanto più forte quanto più la classe politica è stata sorda e si è costituita in casta. Non appena si toglie il coperchio, arrivano le sorprese -.
Se questo è “populismo”, allora equivale
alla ribellione delle masse contro le élite? - La parola è carica di valenze
negative. Che cosa davvero significhi è difficile dirlo. Di sicuro, chi la
rivolge a un altro non vuole fargli un complimento. Senza risalire più
indietro, populisti sono stati detti Perón e la moglie Evita in Argentina; papa
Giovanni XXIII e papa Francesco; Obama, Trump e Sarah Palin negli Usa; Di
Pietro, Berlusconi e Renzi da noi. Insomma, populisti sono sempre gli altri,
quando li si teme. Salvo poi, quando serve, scambiare le vesti; così, per
esempio, Berlusconi e Renzi, all’inizio esempi di populismo, diventano a un
certo punto magicamente gli alfieri dell’anti-populismo. Chi parla di
populismo, insomma, parla per frasi fatte e si esonera dal guardare dentro la
complessità delle cose. Proporrei di abbandonare la parola tra gli scarti del
lessico politico -.
Se “guardiamo dentro”, come dice lei, che
cosa vediamo? - Possiamo vedere tante cose, ma c’è una costante: si dice
populista al leader, al movimento, al partito che, con l’appoggio del popolo,
contesta i poteri costituiti. Oggi diremmo: contesta “la casta”. La parola
populismo, non ha a che vedere con il conflitto tra idee politiche: si può
essere populisti o anti-populisti di destra e di sinistra. Ha a che vedere,
invece, con la competizione per il nudo potere. Nella contesa politica, chi più
frequentemente la pronuncia appartiene (così rivelando di appartenere) al giro
di coloro che si ritengono superiori e perciò pretendono d’impersonare il
“buon-governo”. Pochi che sanno contro i tanti che non sanno: oligarchia, per
l’appunto. Salvo poi constatare che il bene di tutti finisce presto per
coincidere con gli interessi più forti -.
E ora? - Mi pare di vedere che siamo pienamente
in una fase di diffusa insofferenza nei confronti di questo modo di concepire
la vita politica come affare di circoli riservati. Come dicevamo, ribellione di
massa contro la cristallizzazione e l’autoreferenzialità di un potere chiuso,
lontano, incapace di avvertire le tante ragioni di sofferenza della nostra
società. (…).
Che succede, quindi? - Nessuna struttura di
potere è immune dal rischio oligarchico. Nemmeno chi ha avuto successo in nome
della lotta contro le oligarchie. Vedremo se e come ci si renderà conto del
rischio sempre presente d’essere fagocitati -.
Si è interrotta la connessione sentimentale
con gli elettori? - Miopia politica del ceto politico, direi piuttosto. O forse
arrendevolezza, impotenza di fronte agli effetti sociali di un sistema di
relazioni dominato dalla libertà della speculazione finanziaria. I diritti
sociali conquistati nel secolo scorso si sono progressivamente erosi. I più
deboli sono in difficoltà. Il numero dei poveri e degli emarginati cresce -.
Facciamo qualche esempio? - Si rinuncia a
fare studiare i propri figli; si rinuncia a cure mediche pur essenziali; si
cerca altrove la prospettiva d’un futuro; si vive di carità o di espedienti. A
fronte di ciò stanno i garantiti, anzi i super-garantiti. Andare all’estero per
cercare un proprio futuro non è per tutti la stessa cosa. Per alcuni è
questione di sopravvivenza; per altri, è status symbol della upper class. Non
sono la stessa cosa il cameriere o il barista, e lo studente del college
esclusivo che si prepara a entrare nell’agognato cerchio della finanza
internazionale. Lei parla di connessione sentimentale. Come può esserci
qualcosa di questo genere quando si fronteggiano precarietà e sicurezza,
fragilità e immunità, ingiustizia e privilegio. Sono patetiche illusioni, vuote
parole quelle di chi si propone il recupero della fiducia tacendo delle
responsabilità maggiori che gravano su chi sta più in alto nella scala sociale.
Anche gli atti simbolici sarebbero importanti. Non si risolvono i problemi
della finanza pubblica riducendo indennità, emolumenti, regalie varie, ma certo
si darebbe un segno importante. È un segno negativo la difesa a testuggine
“fino alla sentenza definitiva” dei politici e degli amministratori che
incappano in incidenti giudiziari, anche se non è solo su questo terreno che si
sconfigge la corruzione dilagata nel nostro Paese -.
Tutto questo genera frustrazione? - Certo.
Al fondo della piramide c’è una massa di cittadini con difficoltà a vivere il
presente e a immaginare il futuro. È irritante sentir dire, per esempio, che il
Jobs Act ha creato migliaia di nuovi posti di lavoro: parli con i giovani e
scopri che sono lavori sottopagati, a tempo limitato, senza garanzie e spesso
aggravati dalla minaccia del licenziamento facile. Spesso non è diritto al
lavoro ma sfruttamento -.
La democrazia si basa sul consenso: come non
capire i rischi di questa cecità? - Le oligarchie si considerano depositarie
del verbo. Se dovessimo definire “oligarchia” non solo da un punto di vista
numerico, potremmo dire questo: pochi che si sentono tutti. Ma siamo in
democrazia e almeno ogni cinque anni si dà voce agli elettori: si può tenere la
rabbia sociale sotto un coperchio per un po’, ma arriva il momento in cui il
coperchio salta. Ed è esattamente il tempo che stiamo vivendo -.
Vuol dire che il coperchio peraltro è
saltato nella forma giusta, con la protesta nelle urne. - È saltato
democraticamente. Chi ha a cuore la democrazia deve sempre temere che
l’insofferenza prenda altre strade, il ricorso all’uomo forte, all’uomo della
provvidenza. Per questo è pericoloso soffocare oltre misura l’espressione per
vie democratiche di quel sentimento -.
Sta dicendo che si sarebbe dovuto andare a
elezioni anticipate? - Dico solo che anche a questo riguardo l’impressione che
si è avuta è che si sia voluto posticipare il redde rationem elettorale, pur
quando ci sarebbe stato più d’un motivo per ridare la parola agli elettori. Se
si fosse potuto, le elezioni si sarebbero rinviate a non si sa quando -.
Si potrebbe obiettare che sono stati sempre
rispettati i meccanismi della democrazia parlamentare. - Certamente. La forma è
salva, la sostanza ha scricchiolato -.
Nel sentimento di autosufficienza della
“casta” quanto pesa la legittimazione dei media? - L’informazione viene
considerata o un’alleata o una nemica. Ma chi governa dovrebbe sapere che una
stampa indipendente e vigile, né alleata né ostile per principio, alla lunga fa
il suo bene, non il suo male. L’aiuta a non cadere nell’autoreferenzialità e a
evitare d’essere vittima di “populismo” -.
Alla base forse c’è un equivoco che nasce
dal desiderio di alcuni giornalisti di far parte del mondo che si deve raccontare.
- In un passo di La politica come professione, il celebre saggio di Max Weber,
un grande capitano d’industria invita a cena alcuni suoi colleghi e anche un
giornalista, lusingato di essere associato a questa cerchia di ottimati. Quando
se ne va, il padrone di casa si scusa con gli ospiti per la presenza
dell’intruso: “Ho dovuto invitare quello zotico perché prossimamente si
occuperà delle nostre cose” -.
(…). C’è, secondo lei, un rapporto di
continuità tra il 4 dicembre 2016 e il 4 marzo 2018? - Mi pare di sì. Nel
referendum costituzionale è prevalso il rigetto della prospettiva della
politica privatizzata a vantaggio d’un certo “giro di potere”. È stato la
premessa, l’introduzione al secondo atto, l’atto finale. Non avere intravisto
lo svolgimento e non essersi messo da parte allora hanno portato al disastro
attuale del partito democratico. Ogni cosa ha il suo tempo giusto e i suoi
tempi sbagliati -.
Molti hanno detto che era materia troppo
complicata per il popolo: poteva votare chi ci capiva qualcosa, non l’uomo
della strada. - Nei Quaderni Gramsci risponde così a chi gli chiede come possa
la democrazia equiparare il voto di Benedetto Croce a quello del pastore della
Barbagia: è vero, è ingiusto. Ma la colpa non è del pastore sardo, la colpa è
di chi non ha saputo informarlo, creargli una coscienza e una cultura politica.
Quanto alla riforma costituzionale, non si è trattato tanto di bicameralismo
perfetto, di competenze regionali concorrenti, o di altre delizie di questo
genere. Si è trattato d’una operazione di potere tentata con mezzi costituzionali.
Per capirlo, non c’era bisogno d’essere professori di diritto costituzionale e,
infatti, lo si è capito benissimo. (...). -.
(…). Si evoca un possibile governo di scopo
per modificare l’ennesima legge elettorale, probabilmente incostituzionale. (…).
- (…). Leggendo ciascun comma di queste leggi - Porcellum, Italicum, Rosatellum
- è subito chiaro a favore o contro chi è stato scritto. Il ceto politico pensa
le norme elettorali come strumenti per fare i conti al proprio interno. Ma le
leggi elettorali - sarò ingenuo a pensarlo - devono essere soprattutto
nell’interesse dei cittadini. L’elettore non esiste in natura, ciascuno diventa
elettore dopo che la legge gli ha dato o negato certi poteri. Tutte le altre
leggi non hanno questa intensa caratteristica “definitoria” dei soggetti cui si
riferiscono. Le nostre ultime leggi elettorali non sono leggi (solo) mal
scritte; sono leggi mal tournées, leggi che guardano cioè dalla parte
sbagliata. (…) -.
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