Da “Quale follia
dem di far tacere i vecchi a prescindere”, intervista di Concita De
Gregorio a Nicola Sartor rettore
dell'università di Verona, pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 27 di marzo
2018: (…). Un parere generale sull’azione politica di Renzi, per cominciare. «Renzi
ha cavalcato il tema generazionale in modo riduttivo. In Università osservo
giovani vecchi e vecchi giovani. Il dato anagrafico è di un semplicismo enorme.
Strumentale al consenso. Mi pare follia far tacere i vecchi a prescindere. La
mancata elezione di Prodi al Quirinale è stata una forte manifestazione di
questa tendenza, declinata mi pare per un tornaconto personale. È stato,
quello, un punto di svolta della politica di questi anni. Accantonare persone
come Prodi e Rodotà in nome della giovinezza non lo trovo un criterio».
A cosa attribuisce la sconfitta del Pd? «Azzardo un’interpretazione. Non si è mai amalgamata la componente ex Dc e ex Pci. Era una miscela di acqua e olio».
Qual è, secondo lei, la funzione della
sinistra? «Quella di garantire diritti e servizi sulla base del criterio di
cittadinanza e non di reddito. Dare opportunità a tutti a prescindere dalla
condizione di appartenenza. Esattamente all’opposto rispetto all’idea di
selezione naturale. Pensi cosa sarebbe questo Paese se non ci fosse stata
l’istruzione pubblica».
La sinistra intera, nel suo complesso, è
uscita sconfitta dal voto. Come mai? «A sinistra è mancato il dibattito non
solo interno, ma coi cittadini elettori. Soprattutto coi soggetti deboli.
Diversi da quelli che tradizionalmente erano soggetti deboli da ricondurre agli
schemi della classe operaia. I soggetti deboli oggi non sono più identificabili
per classi: sono ovunque, in ogni aggregato sociale. Sono i figli della
borghesia che non trovano lavoro, sono le donne sottopagate. Con forme
radicalmente diverse questa è stata la forza della Lega: contatto tradizionale,
presenza fisica. I Cinque stelle hanno usato nuovi mezzi. A me spaventa
l’utilizzo dei social media, lo dico al di là dell’abuso delle informazioni per
finalità illecite. Anche quando sono usati correttamente tendono a favorire una
risposta immediata, di pancia. Non c’è spazio per elaborare il pensiero».
Si parla di democrazia diretta del web. «Sarò
d’antan, ma mi preoccupa molto. Un conto è pretendere competenza, un altro
rinunciarvi. La scomparsa dei corpi intermedi, mediatori dotati di conoscenze,
è rischiosissima. Ci sono temi che richiedono un insieme di saperi
approfondito. Pensi ai vaccini. Cosa trova col fai-da-te? Al meglio
un’informazione superficiale, al peggio fake news. Non posso che dissentire. Se
uno vuol farsi un’opinione di massima, per carità. È lo scopo delle
Enciclopedie. Ma lo spirito critico si forma sulla conoscenza. Non so dire se
denigrare le competenze, le culture, sia stato un disegno razionale di qualche
manovratore o un fenomeno casuale. Le conseguenze tuttavia le abbiamo di
fronte. Il fenomeno dell’incompetenza diffusa è il vero nemico della democrazia
rappresentativa».
Cosa intende? «Le faccio un esempio. Un
parlamentare non esperto di particolari settori potrebbe trovarsi in balia di
funzionari e dirigenti, nominati».
Sa indicare l’origine del processo di
impoverimento di spirito critico? «Temo di essere scontato, ma direi il disegno
della tv commerciale. Derubricare la cultura a evasione e fare dell’evasione un
settore di affari. Ha portato conseguenze enormi. Per carità: anche ai miei
tempi c’era “Il Musichiere”. L’evasione è necessaria, non sono un bacchettone.
Ma poi, in nome della pubblicità e dei suoi proventi, è diventata un obbligo.
Lo scopo unico e supremo. E questo ci porta alle pensioni».
Ci porta alle pensioni? «Nel secondo
dopoguerra i sistemi pensionistici nascono per evitare povertà durante la
vecchiaia. Una prestazione minima di sopravvivenza. Certo, è aumentata
l’aspettativa di vita. Ma prima ancora le pensioni si sono trasformate da
strumento di tutela della povertà a sistema di tutela del mantenimento dei
consumi. Il concetto è stato completamente snaturato, asservito alla società
dei consumi».
Cosa pensa della riforma Fornero? «Credo sia
portatrice di una sostanziale iniquità: il trattamento riservato alle donne. Da
un lato potrebbe anche essere ritenuto affascinante il concetto di parità, ma
avendo in mente la realtà concreta del lavoro di cura inteso anche come
ammortizzatore sociale abbiamo privato le famiglie di un sostegno fondamentale.
Le donne che per assenza di servizi pubblici accudiscono genitori e nipoti non
sono più in grado di farlo. Non c’è stata attenzione ai bisogni, ma solo
emergenza finanziaria».
Mi costringe a dire che esistono anche i
nonni. «Non entro nella questione dei ruoli: osservo che vanno tutti in
pensione a 67 anni».
I servizi sono finanziati dalle tasse.
Parliamo di tasse. «Ormai non è possibile evocare la parola tasse se non
associata al verbo ridurre. Non esiste riforma del prelievo: è un tabù
ideologico, sposato da tutti. Padoa Schioppa diceva le tasse sono belle. Certo:
sono belle se funzionano i servizi. Però bisogna avere contezza della realtà.
Negli ultimi mesi sono andato nelle osterie di Verona per un ciclo che abbiamo
chiamato “Go to science”. Gotu in dialetto è il gotto di vino. Ho parlato di
debito pubblico: la gente ascolta fa domande. Prendiamo la Francia. La nostra
pressione fiscale è ridicolmente inferiore a quella francese. Se guardiamo la
spesa pubblica, quella francese è più alta di quella italiana. Ci si riduce
agli slogan. Il vero nostro problema sono i livelli di inefficienza e
corruzione. L’ammontare delle tasse è superiore ai servizi perché si deve
pagare il debito pubblico, che in larga misura è figlio dell’evasione. Della
furbizia, di un atteggiamento individuale non solidale. Se guarda la cartina
post elettorale lo vede: fatta l’Italia non si sono fatti gli italiani».
Da dove ripartirebbe? «Direi dal contatto
capillare e articolato con le persone. Temo che non sia stata una buona idea
quella di chiudere i luoghi fisici di incontro. Non è immaginabile una Chiesa che
chiude le parrocchie e comunica via Twitter, ci sarà un motivo».
E sul piano delle proposte? «Per far
ripartire il Paese servono istruzione e cultura. Penso al fenomeno epocale,
inevitabile, dell’immigrazione. Un soggetto che risponde alla pancia delle
persone è vincente rispetto a chi cerca di capire, gestire il fenomeno. Per
farlo servono strumenti di conoscenza».
E in economia? «Dalle pensioni. Tornerei ad
abbassare l’età delle donne o troverei meccanismi di flessibilità. Dal
contrasto all’evasione, alla corruzione. Ma un reale contrasto. Migliorerebbe
il prelievo, i servizi. Meno spesa corrente, più investimento. Fare scelte
politiche senza pensare al proprio tornaconto elettorale. Che poi è sempre un
orizzonte limitatissimo. Che cosa si può fare per sé, in un anno, per giunta
con governo di coalizione? Davvero poco. Conviene pensare al Paese. Sul serio:
è giusto, e addirittura conviene».
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