“Populismo?”. Ma no! “Popolarismo?”.
Forse che sì! Forse che no! Boh! Se ne potrebbero fare infinite inutili “portaaporta”
sull’insuperabile e soporifero stile del sespide televisivo con la
partecipazione dei tanti disponibilissimi buontemponi. Che goduria per l’inutile
dialogare! Ad un primo approccio, quindi, l'incipit del post potrebbe far pensare ad un
abile gioco di contrapposizione dei due termini o definizioni sociologiche che
dir si voglia, proprio come nei peggiori stilemi dei contemporanei talkshow,
delle inutili infinite chiacchiere. Una perdita di tempo, insomma. O come
direbbe qualcuno, tanto e solo per fare poesia. Leggendo invece l’agile
volumetto del sociologo francese Pierre Musso “Sarkoberlusconismo” (2008), pubblicazione per i tipi “Ponte alle
grazie”, mi sono convinto dell’inevitabilità e della opportunità della
distinzione semantica e della giusta e santa causa di divulgarne l’esistenza. Giuro
di non aver trovato altrove una definizione, ma cosa dico, una rappresentazione
così esaustiva della condizione politica in cui oggigiorno versa il bel paese. A
questo punto mi pare cosa giusta e santa riportare la definizione che lo stesso
sociologo offre del temine “popolarismo” alle pagine 33 e 34 del predetto
volumetto: (…). Il popolarismo, espressione obsoleta che risale all’Illuminismo,
consente di connotare una forma generica dell’azione politica: - Al popolarismo
basta la messa in scena dell’azione. Impressionare, colpire, decidere diventano
prove manifeste di efficienza. La produzione di effetti sostanziali scompare
dinanzi all’imperativo di sedurre… Il popolarismo fa leva sul soddisfacimento a
poco prezzo dell’opinione dei consumatori […]non conosce altro che l’urgenza,
la rapidità e l’immediato. Si spazientisce dinanzi alla prova del tempo: non
può stare ad aspettare le conseguenze durature, a lungo termine, delle proprie
azioni… Il popolarismo rimanda a dopo la verifica dell’azione o tenta abilmente
di farla dimenticare. Il popolarismo è in continuo movimento: salta da un
problema all’altro, solleva sempre nuovi motivi di dibattito […] si prefigge un
unico obiettivo; conquistare il potere e conservarlo. (…). Diciamoci la
verità: come sarebbe possibile ritrovare altrove, in un altro scritto, una più
calzante rappresentazione dell’operosità dell’egoarca di Arcore in quel del bel
paese? Ma a pensarci bene, così come ne scrive l’illustre sociologo francese, i
dettami del popolarismo sembra abbiano una datazione antica: ovvero, risalenti addirittura
all’Illuminismo. Orbene, cosa se ne può concludere alla luce del fatto che in
quel tempo, al tempo dell’Illuminismo intendo dire, dei mezzi di comunicazione
di massa non vi era ombra o traccia alcuna? Vuol semplicemente dire che gira e
rigira è la pancia più profonda e non tanto la ragione della gente a dettare le
regole nel mondo; ed il tutto diviene, di conseguenza, una allarmante tragica
rappresentazione. Una perenne messa in scena insomma, tanto che gli abili
allestitori, e da sempre, riescono bene a mischiare i tratti di illusorietà di
quella con la più sostanziale banalità della quotidiana realtà. Ne coglie
appieno il tragico senso Jean-Luc Porquet che ha pubblicato di recente “Venditori di fumo. Le regole basilari
della demagogia efficace” (2008), in Italia per i tipi di Fazi Editore.
Riporto di seguito una sua breve riflessione pubblicata su di un supplemento
del quotidiano “la Repubblica”:
Come ci seducono i venditori di fumo? Proponendoci utopie. La demagogia è un'arte e le sue regole e astuzie tecniche sono pressoché le stesse da secoli: prendere per il naso la gente intercettando paure, frustrazioni, sogni, bisogni reali o presunti. La regola d'oro poi è semplice quanto efficace: occorre drammatizzare, sempre. Dire tutto e il contrario di tutto, attirare l'attenzione dei media e rovesciarla a proprio favore. Il demagogo afferma e nega senza mai un ripensamento. Nelle sue mani, da Berlusconi a Sarkozy e a ritroso fino a Cleone, Mussolini, Evita Peron, Savonarola, i fatti si eclissano dietro l'ostentazione. Demagogia e democrazia sono nate insieme, nell'antica Grecia. Difficile dire se, da allora, le società siano diventate più o meno ingenue, più o meno capaci di maggior raziocinio e discernimento. D'altronde, sono le persone a rendere possibile ai demagoghi di scalare le vette della politica, lasciandosi sedurre dagli eccessi verbali (o espressioni polemiche, chiosano i consiglieri di Sarkozy) che tramutano i fatti in scatole vuote. Dentro trova spazio solo lo spettacolo. Quando Berlusconi ha spedito drappelli di soldati in giro per l'Italia, ha scritto una sceneggiatura perfetta per le fauci dell'opinione pubblica italiana: qui si combatte il crimine, l'aria è cambiata. A chi importa della stupida realtà, delle sue complesse ramificazioni? Il trucco è semplice: creare un avvenimento. E impacchettarlo in una confezione facilmente vendibile, come il Sarkozy che promette di ‘ripulire il quartiere con un idrante’: ogni demagogo ha il suo stile, ovviamente. È un meccanismo a cortocircuito, la raffinata e limata tecnica di sostenere in pubblico ciò che teoricamente andrebbe detto solo in privato. La televisione fa il resto, imponendo quotidianamente la presenza fisica del demagogo. Attraverso eventi creati per calcolo o per improvvisazione, la circolazione in tv diffonde l'imbonimento in ogni casa. Vie d'uscita? Il web è già adesso un mondo più complesso, più critico, un contropotere reale, come si è visto nelle elezioni americane. Fino a che punto, non saprei. Una cosa è certa: almeno per ora, i demagoghi sono molto più a loro agio in televisione che sulla Rete. Stante ora la vetustà dei testi in precedenza citati e trascritti corre l’obbligo di aggiornare la tematica e per la bisogna mi soccorre il bel testo “In nome del populismo sovrano” di Massimo Giannini pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 25 di febbraio 2018, un testo fresco di idee e di stampa: (…). Ogni volta che penso al populismo mi torna in mente la storiella di Maurizio Crozza. Ci sono un politico populista, un immigrato e un elettore, intorno a un tavolo con dodici biscotti. Il politico ne arraffa undici e urla all'elettore: "occhio, l'immigrato vuole fregarsi il tuo biscotto!". (…). Il populismo sta contaminando gli attori politici che dovrebbero arginarlo. Una talpa pericolosa, che scava nelle fondamenta della democrazia liberale e rappresentativa. (…). Tutti i politici parlano "in nome e per conto del popolo". Non solo Grillo che sul Sacro Blog scrive "sono fieramente populista" o Casaleggio che al V-Day di Genova 2013 grida: "Sono orgoglioso di essere un populista". Ma anche Macron che da candidato d'élite ma anti-sistema ad Angers urla: "Sarà il popolo, non qualcuno in alto, che raccoglierà la sfida francese!". Il primo errore da evitare (…) è quello nel quale incappa spesso l'establishment. Jean Leca lo riassume così: "Quando sono d'accordo con le opinioni ragionevoli del popolo, quelle sono popolari. Quando non sono d'accordo, allora quelle sono populiste". Questo non vuol dire che esista un "populismo buono", come sostiene Thomas Piketty. Ma nemmeno che sia "cattivo populismo" tutto ciò che aspiri a una "democrazia diversa". La domanda è: diversa quanto, e diversa come? (…). Nei populismi vivono istanze ricorrenti. L'attacco ai partiti tradizionali e il rigetto delle élite, la demonizzazione dei nemici e la critica all'Europa, la paura del diverso e dell'invasione straniera. E poi la richiesta di capi carismatici e la critica alle "democrazie inefficaci, traviate dalla classe dirigente". Ma a tutto questo, oggi, si aggiunge altro. È in atto una mutazione ulteriore. La "democrazia del pubblico si trasforma per effetto della globalizzazione, dell'impatto dell'integrazione europea, della riduzione dei margini di manovra dei governi di fronte al capitalismo finanziario, dell'ascesa del potere tecnocratico e del formidabile sviluppo delle tecnologie". Le scorciatoie care al populismo tradizionale sembrano già superate. Saltano tutte le mediazioni conosciute. La "società della sfiducia" diventa "società im-mediata". La "democrazia diretta", imperniata sui referendum, e già sostituita dalla "democrazia in diretta", costruita sui social network. Il Parlamento è superato dalla "agorà digitale", il "populismo televisivo" di Berlusconi dal "populismo tecnologico" di Grillo. Così andiamo verso la "popolocrazia", che non è un "movimento (im)politico" né una "famiglia di leader e di partiti", ma riassume e "istituzionalizza" tutte queste vecchie e nuove tendenze. Fino a snaturare la stessa democrazia liberale e rappresentativa. In che modo? Nella contesa "popolocratica" (…), da una parte ci sono i "nuovi populisti" che puntano a ricomporre la frattura, reagiscono tra "Demos e Kratos" cercando di "superare la rappresentanza come principio e come metodo di governo del popolo". Dall'altra parte ci sono "gli altri attori politici", che per combattere i neo-populisti, pur rimanendo attaccati alla democrazia rappresentativa, "si propongono anche loro di incarnare il popolo". Di per sé non sarebbe un errore. Se non fosse che, nel "combattimento", i primi usano le stesse armi dei secondi. (…). Primo esempio: la personalizzazione delle leadership, che invece di restringere il solco tra Popolo e Governo lo allarga, producendo "partiti senza società" che degradano in "leader senza partiti". Il paradigma di questo mimetismo popolocratico? Renzi, "il rottamatore che sfida Grillo e il M5S sul suo stesso terreno, e personalizza il Pd, lo muta in PdR...". Secondo esempio: i metodi della comunicazione, non più verticali (i Capi che dialogano direttamente con i cittadini, in piazza o in tv) ma orizzontali (i cittadini che in Rete dialogano con tutti riducendo ulteriormente, fin quasi ad azzerarla, ogni forma di mediazione). Terzo esempio: il linguaggio, che vede i riformisti appiattirsi paurosamente sui populisti, assumendo l'anti-politica, o la non-politica, come "bandiere politiche". La prova di questa capitolazione identitaria? La legge sullo ius soli, bandiera ammainata dal governo e dal Pd perché nei sondaggi prevalevano i giudizi negativi degli italiani. Riassumendo. I partiti tradizionali inseguono i populisti per risalire la china dei consensi (Renzi che spiega il referendum costituzionale dicendo "eliminiamo un bel po' di poltrone"). I populisti diventano centrali e cercano a loro volta di "normalizzare la loro immagine per essere accettati" (Di Maio che pensa a un "contratto di governo alla tedesca" o Salvini che va in piazza col rosario e cita il Vangelo degli "ultimi che saranno i primi"). Eccolo, dunque, lo sbocco della "popolocrazia". Siamo ancora in tempo per evitarla? (…). La democrazia liberale e rappresentativa ha ancora una "notevole capacità di resistenza". Ma i "partigiani della democrazia" devono dimostrarsi all'altezza della sfida. Capendo la portata del cambiamento. Offrendo ai cittadini "le tutele che essi attendono". Ripensando i modelli di integrazione dei migranti. Rilanciando il progetto europeo. Ridando "senso e passione alla politica". Mi viene da pensare al solito "Vaste programme" di De Gaulle, (…). Un grande statista "popolare", che in certi casi sapeva anche andare contro gli umori e i rancori del suo popolo. Alzi la mano chi vede in giro un altro De Gaulle.
Come ci seducono i venditori di fumo? Proponendoci utopie. La demagogia è un'arte e le sue regole e astuzie tecniche sono pressoché le stesse da secoli: prendere per il naso la gente intercettando paure, frustrazioni, sogni, bisogni reali o presunti. La regola d'oro poi è semplice quanto efficace: occorre drammatizzare, sempre. Dire tutto e il contrario di tutto, attirare l'attenzione dei media e rovesciarla a proprio favore. Il demagogo afferma e nega senza mai un ripensamento. Nelle sue mani, da Berlusconi a Sarkozy e a ritroso fino a Cleone, Mussolini, Evita Peron, Savonarola, i fatti si eclissano dietro l'ostentazione. Demagogia e democrazia sono nate insieme, nell'antica Grecia. Difficile dire se, da allora, le società siano diventate più o meno ingenue, più o meno capaci di maggior raziocinio e discernimento. D'altronde, sono le persone a rendere possibile ai demagoghi di scalare le vette della politica, lasciandosi sedurre dagli eccessi verbali (o espressioni polemiche, chiosano i consiglieri di Sarkozy) che tramutano i fatti in scatole vuote. Dentro trova spazio solo lo spettacolo. Quando Berlusconi ha spedito drappelli di soldati in giro per l'Italia, ha scritto una sceneggiatura perfetta per le fauci dell'opinione pubblica italiana: qui si combatte il crimine, l'aria è cambiata. A chi importa della stupida realtà, delle sue complesse ramificazioni? Il trucco è semplice: creare un avvenimento. E impacchettarlo in una confezione facilmente vendibile, come il Sarkozy che promette di ‘ripulire il quartiere con un idrante’: ogni demagogo ha il suo stile, ovviamente. È un meccanismo a cortocircuito, la raffinata e limata tecnica di sostenere in pubblico ciò che teoricamente andrebbe detto solo in privato. La televisione fa il resto, imponendo quotidianamente la presenza fisica del demagogo. Attraverso eventi creati per calcolo o per improvvisazione, la circolazione in tv diffonde l'imbonimento in ogni casa. Vie d'uscita? Il web è già adesso un mondo più complesso, più critico, un contropotere reale, come si è visto nelle elezioni americane. Fino a che punto, non saprei. Una cosa è certa: almeno per ora, i demagoghi sono molto più a loro agio in televisione che sulla Rete. Stante ora la vetustà dei testi in precedenza citati e trascritti corre l’obbligo di aggiornare la tematica e per la bisogna mi soccorre il bel testo “In nome del populismo sovrano” di Massimo Giannini pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 25 di febbraio 2018, un testo fresco di idee e di stampa: (…). Ogni volta che penso al populismo mi torna in mente la storiella di Maurizio Crozza. Ci sono un politico populista, un immigrato e un elettore, intorno a un tavolo con dodici biscotti. Il politico ne arraffa undici e urla all'elettore: "occhio, l'immigrato vuole fregarsi il tuo biscotto!". (…). Il populismo sta contaminando gli attori politici che dovrebbero arginarlo. Una talpa pericolosa, che scava nelle fondamenta della democrazia liberale e rappresentativa. (…). Tutti i politici parlano "in nome e per conto del popolo". Non solo Grillo che sul Sacro Blog scrive "sono fieramente populista" o Casaleggio che al V-Day di Genova 2013 grida: "Sono orgoglioso di essere un populista". Ma anche Macron che da candidato d'élite ma anti-sistema ad Angers urla: "Sarà il popolo, non qualcuno in alto, che raccoglierà la sfida francese!". Il primo errore da evitare (…) è quello nel quale incappa spesso l'establishment. Jean Leca lo riassume così: "Quando sono d'accordo con le opinioni ragionevoli del popolo, quelle sono popolari. Quando non sono d'accordo, allora quelle sono populiste". Questo non vuol dire che esista un "populismo buono", come sostiene Thomas Piketty. Ma nemmeno che sia "cattivo populismo" tutto ciò che aspiri a una "democrazia diversa". La domanda è: diversa quanto, e diversa come? (…). Nei populismi vivono istanze ricorrenti. L'attacco ai partiti tradizionali e il rigetto delle élite, la demonizzazione dei nemici e la critica all'Europa, la paura del diverso e dell'invasione straniera. E poi la richiesta di capi carismatici e la critica alle "democrazie inefficaci, traviate dalla classe dirigente". Ma a tutto questo, oggi, si aggiunge altro. È in atto una mutazione ulteriore. La "democrazia del pubblico si trasforma per effetto della globalizzazione, dell'impatto dell'integrazione europea, della riduzione dei margini di manovra dei governi di fronte al capitalismo finanziario, dell'ascesa del potere tecnocratico e del formidabile sviluppo delle tecnologie". Le scorciatoie care al populismo tradizionale sembrano già superate. Saltano tutte le mediazioni conosciute. La "società della sfiducia" diventa "società im-mediata". La "democrazia diretta", imperniata sui referendum, e già sostituita dalla "democrazia in diretta", costruita sui social network. Il Parlamento è superato dalla "agorà digitale", il "populismo televisivo" di Berlusconi dal "populismo tecnologico" di Grillo. Così andiamo verso la "popolocrazia", che non è un "movimento (im)politico" né una "famiglia di leader e di partiti", ma riassume e "istituzionalizza" tutte queste vecchie e nuove tendenze. Fino a snaturare la stessa democrazia liberale e rappresentativa. In che modo? Nella contesa "popolocratica" (…), da una parte ci sono i "nuovi populisti" che puntano a ricomporre la frattura, reagiscono tra "Demos e Kratos" cercando di "superare la rappresentanza come principio e come metodo di governo del popolo". Dall'altra parte ci sono "gli altri attori politici", che per combattere i neo-populisti, pur rimanendo attaccati alla democrazia rappresentativa, "si propongono anche loro di incarnare il popolo". Di per sé non sarebbe un errore. Se non fosse che, nel "combattimento", i primi usano le stesse armi dei secondi. (…). Primo esempio: la personalizzazione delle leadership, che invece di restringere il solco tra Popolo e Governo lo allarga, producendo "partiti senza società" che degradano in "leader senza partiti". Il paradigma di questo mimetismo popolocratico? Renzi, "il rottamatore che sfida Grillo e il M5S sul suo stesso terreno, e personalizza il Pd, lo muta in PdR...". Secondo esempio: i metodi della comunicazione, non più verticali (i Capi che dialogano direttamente con i cittadini, in piazza o in tv) ma orizzontali (i cittadini che in Rete dialogano con tutti riducendo ulteriormente, fin quasi ad azzerarla, ogni forma di mediazione). Terzo esempio: il linguaggio, che vede i riformisti appiattirsi paurosamente sui populisti, assumendo l'anti-politica, o la non-politica, come "bandiere politiche". La prova di questa capitolazione identitaria? La legge sullo ius soli, bandiera ammainata dal governo e dal Pd perché nei sondaggi prevalevano i giudizi negativi degli italiani. Riassumendo. I partiti tradizionali inseguono i populisti per risalire la china dei consensi (Renzi che spiega il referendum costituzionale dicendo "eliminiamo un bel po' di poltrone"). I populisti diventano centrali e cercano a loro volta di "normalizzare la loro immagine per essere accettati" (Di Maio che pensa a un "contratto di governo alla tedesca" o Salvini che va in piazza col rosario e cita il Vangelo degli "ultimi che saranno i primi"). Eccolo, dunque, lo sbocco della "popolocrazia". Siamo ancora in tempo per evitarla? (…). La democrazia liberale e rappresentativa ha ancora una "notevole capacità di resistenza". Ma i "partigiani della democrazia" devono dimostrarsi all'altezza della sfida. Capendo la portata del cambiamento. Offrendo ai cittadini "le tutele che essi attendono". Ripensando i modelli di integrazione dei migranti. Rilanciando il progetto europeo. Ridando "senso e passione alla politica". Mi viene da pensare al solito "Vaste programme" di De Gaulle, (…). Un grande statista "popolare", che in certi casi sapeva anche andare contro gli umori e i rancori del suo popolo. Alzi la mano chi vede in giro un altro De Gaulle.
Nessun commento:
Posta un commento