Da “Il
popolo puzza” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27
di marzo 2018: (…). Servo encomio. Sabato Roberto Fico era stato appena eletto
presidente del Senato e già il Tg1 aveva la lingua di fuori, pronta alla
leccata: “Napoletano, classe ’74, laurea con lode in Scienza della
comunicazione”. Anzi, cum laude: fino al giorno prima era un buzzurro populista
arruffapopolo incompetente, ora è già uno scienziato. Uno che “rinuncia subito
all’indennità di funzione e all’auto blu” e “non manca di mettere in guardia
dagli eccessi di personalismo ed egocentrismo”. Come San Francesco. Uno che “in
campagna elettorale sceglie di andare casa per casa”. Come Gesù. “Ora per lui
inizia quella che ha definito ‘un’avventura meravigliosa’…”. È un bel
Presidente! Un apostolo! Un santo! Il Tg2 è il secondo, ma solo in ordine
numerico, non certo affettivo: “Da presidente della Vigilanza Rai, Fico è
apprezzato in modo bipartisan per il suo equilibrio e il suo rigore
professionale”. Però lo diciamo solo ora, prima del 4 marzo era meglio di no. E
poi, udite udite, “risulta il più votato del Movimento nella sua Campania”. Non
è vero, i 5Stelle più votati in Campania sono Di Maio, De Lorenzo e Spadafora,
ma fa niente: i voti mancanti glieli regala il Tg2, alla carriera, perché “a
lui è riconosciuta quell’esperienza di gestione dell’aula che era stata
richiesta dal centrodestra come qualità prioritaria del candidato a
Montecitorio”. Per la verità era Di Maio, come vicepresidente della Camera, che
dirigeva l’aula, ma fa lo stesso. Uno vale uno, anzi uno vale l’altro. E
attenzione: il Corriere.it svela che “Fico non lascia le vecchie abitudini: va
alla Camera prendendo l’autobus. Ha preso la metropolitana fino alla Stazione
di Napoli e poi il treno fino a Roma. Poi l’autobus fino a via del Corso”
(Corriere.it). Roba forte. Segue un imperdibile reportage “Nel bar dove Fico
prende il caffè”. Pare, per bocca. Codardo oltraggio. Era già toccato a Renzi
dopo la sconfitta al referendum, spiegata da tutti i giornaloni schierati per
il Sì alla sua riforma costituzionale come la giusta punizione per
quell’orrenda riforma costituzionale e per una lunga serie di altri errori
marchiani che curiosamente nessuno gli aveva mai rinfacciato mentre li
commetteva e quando ancora poteva correggerli. Ora il codardo oltraggio si posa
pure su B., dipinto come un vecchio rincitrullito da chi fino al 4 marzo lo
trovava molto tonico e in palla, artefice di una campagna elettorale geniale e
magistrale, in grande ascesa nei sondaggi, ben sopra quel cavernicolo di
Salvini, anche quando ricordava di aver “alzato le pensioni a mille lire” e
raccontava degli immigrati clandestini che “entrano nelle nostre case e si
fiondano subito al frigo per bere l’olio dalla bottiglia”. Alla vigilia del
voto, Libero titolava: “Silvio non si ferma più” (26.2). “Sul web Berlusconi ha
già vinto: Internet parla solo di lui” (1.3). Ora Vittorio Feltri dice: “È già
tanto che sia vivo. Uno che candida Tajani e pensa di vincere le elezioni è
pronto per l’ospizio”. Amen. Bilioso rosicamento. Francesco Merlo è
inconsolabile. Ancora una volta gli elettori non hanno seguito gli amorevoli
consigli di Repubblica (anche perché non li hanno capiti). E lui se lo spiega
con argomenti a metà fra il colonnello in pensione e la beghina anni 50: i
vertici delle due Camere sono finiti in mano “agli “estremisti, agli
squinternati d’assalto, ai campioni delle insolenze, dello sberleffo e dello
sbeffeggiamento”, insomma alla “diarchia del populismo che governerà l’Italia”.
Già grande fan dei governi Monti e Letta, nati dal patto fra B. e il Pd, Merlo
si riscopre improvvisamente antiberlusconiano e lacrima come una vite tagliata
per l’elezione della Casellati, “la più berlusconiana dei presidenti che abbia
mai avuto il Senato” (invece Schifani, eletto nel 2008 con l’astensione del Pd,
era un noto nemico del Caimano, infatti Repubblica lo difese amorevolmente dal
sottoscritto). Ma soprattutto il Merlo è affranto per “il fallimento di
quell’Italia che aveva sognato le mediazioni culturali e i libri, quell’Italia
di sinistra che si era illusa di tirarsi fuori dal pantano attraverso i grandi
riferimenti internazionali, da Camus all’America di Obama, da Tocqueville a
Marx a Bobbio ad Habermas. E invece – unico Paese dell’Europa avanzata – qui il
Castello è stato espugnato dai populismi senza incontrare resistenza”. D’ora in
poi, niente più libri: li stanno bruciando tutti i 5Stelle, che vincono per “i
rutti e i vaffa insieme con le scie chimiche, i microchip sotto la pelle, la
guerra ai ‘vaccini inutili’, le ignorantissime lezioni sul tumore da curare
‘con il limone e la cacca di capra’ e su “l’Aids che è la più grande bufala del
secolo”; e i leghisti, cioè “la destra dei forconi e delle ruspe, della
castrazione chimica, dello sparare a vista, di Salvini che indossava la
cravatta solo da nudo”.
Ecco: diamo l’addio ai libri, e pure alle cravatte: “Torna al potere la vecchissima provincia italiana”. Dove andremo a finire, signora mia: ma l’ha visto quel terrone di Di Maio, “che fu commesso allo stadio di Napoli” anziché starsene comodamente a Parigi (che è sempre Parigi) con un mega-contratto con Repubblica e poi, una volta in pensione, tornare nell’attico a Roma a sudare come consulente Rai su non si sa bene cosa per la miseria di 240 mila euro l’anno? Pensi, signora mia, che quel cafone di Pomigliano d’Arco osa persino vincere le elezioni senza chiedere il permesso alla sinistra e al suo Merlo, che lo schifano perché fino a 25 anni aveva un lavoro precario. E niente, povera Italia, è tutto finito. Addio Renzi e Boschi, ultimi baluardi della civiltà urbana di Rignano sull’Arno e Laterina contro la maleodorante provincia; addio Alfano e Castiglione, con le loro leggendarie mediazioni culturali; addio Lorenzin, purissima liberale di scuola tocquevilliana; addio Madia, che stava ad Habermas come Ciaone Carbone stava a Camus; addio Verdini, marxiano della prima ora; addio Lotti, Poletti, Pinotti e Galletti, ultimi epigoni del pensiero bobbiano. Ora ci toccano quei tamarri di Di Maio e Salvini, che “governeranno senza dover fare i conti con niente, né con Lenin né con Moro”, diversamente da Gennaro Migliore e Mario Lavia, “né con Gramsci né con Gentile”, diversamente da Alessia Rotta e Alessia Morani, “né con la grammatica né con l’italiano”, diversamente dalla Fedeli e da Faraone, perché “sono l’espressione asintattica del profondo Nord e del profondo Sud” (che, fra l’altro, non si capisce bene che ci facciano ancora in Italia), “della provincia che è all’arrabbiata, come le penne” e puzza terribilmente di sugo. O la sinistra si decide a ritrovare le sue radici e ad abolire il suffragio universale, o la schiuma di questa plebaglia incolta screanzata mi arriva fin sulla terrazza ai Parioli.
Ecco: diamo l’addio ai libri, e pure alle cravatte: “Torna al potere la vecchissima provincia italiana”. Dove andremo a finire, signora mia: ma l’ha visto quel terrone di Di Maio, “che fu commesso allo stadio di Napoli” anziché starsene comodamente a Parigi (che è sempre Parigi) con un mega-contratto con Repubblica e poi, una volta in pensione, tornare nell’attico a Roma a sudare come consulente Rai su non si sa bene cosa per la miseria di 240 mila euro l’anno? Pensi, signora mia, che quel cafone di Pomigliano d’Arco osa persino vincere le elezioni senza chiedere il permesso alla sinistra e al suo Merlo, che lo schifano perché fino a 25 anni aveva un lavoro precario. E niente, povera Italia, è tutto finito. Addio Renzi e Boschi, ultimi baluardi della civiltà urbana di Rignano sull’Arno e Laterina contro la maleodorante provincia; addio Alfano e Castiglione, con le loro leggendarie mediazioni culturali; addio Lorenzin, purissima liberale di scuola tocquevilliana; addio Madia, che stava ad Habermas come Ciaone Carbone stava a Camus; addio Verdini, marxiano della prima ora; addio Lotti, Poletti, Pinotti e Galletti, ultimi epigoni del pensiero bobbiano. Ora ci toccano quei tamarri di Di Maio e Salvini, che “governeranno senza dover fare i conti con niente, né con Lenin né con Moro”, diversamente da Gennaro Migliore e Mario Lavia, “né con Gramsci né con Gentile”, diversamente da Alessia Rotta e Alessia Morani, “né con la grammatica né con l’italiano”, diversamente dalla Fedeli e da Faraone, perché “sono l’espressione asintattica del profondo Nord e del profondo Sud” (che, fra l’altro, non si capisce bene che ci facciano ancora in Italia), “della provincia che è all’arrabbiata, come le penne” e puzza terribilmente di sugo. O la sinistra si decide a ritrovare le sue radici e ad abolire il suffragio universale, o la schiuma di questa plebaglia incolta screanzata mi arriva fin sulla terrazza ai Parioli.
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