Ha scritto Marco Travaglio - in “L’autoreggente” -
su “il Fatto Quotidiano” del 14 di marzo 2018: Nessuno poteva ragionevolmente
sperare che il Pd in Direzione trovasse una direzione, impresa improba tentata
invano dai suoi 5 segretari in 10 anni (Veltroni, Franceschini, Bersani,
Epifani, Renzi). Ma c’era almeno da aspettarsi che il politburo pidino
individuasse le ragioni dell’ennesima disfatta elettorale, dopo quelle – mai
analizzate – delle Amministrative 2016, del referendum 2016 e delle
Amministrative 2017.
Invece nessuno s’è nemmeno posto la domanda, per paura di trovare una risposta e di doverne poi trarre le conseguenze: e cioè il ritiro a vita privata di tutto il gruppo dirigente, renziano e non. Meglio continuare a oscillare fra due tentazioni: quella demenziale di farla pagare agli italiani, così imparano a diventare improvvisamente “populisti”, a non capire le grandi riforme dell’ultimo quinquennio e a non apprezzare il boom economico che ne è seguito; e quella infantile di interrompere la partita appena iniziata e portar via il pallone, così se non giocano loro non gioca nessuno. (…). Eppure, se volessero capire perché prendono scoppole ininterrottamente da tre anni, lorsignori non avrebbero che da leggere l’ultimo rapporto non della Terza Internazionale, ma della Banca d’Italia: siamo un Paese sempre più ingiusto e diseguale, col 5% di benestanti che controlla un terzo della ricchezza nazionale, mentre rischiano la povertà un quarto delle famiglie, che salgono a 4 su 10 nel Sud, ma raddoppiano anche al Nord rispetto a 10 anni fa. Che ha fatto il Pd negli ultimi quattro governi? Nulla per migliorare le cose, molto per peggiorarle. Infatti gli esclusi, che un tempo guardavano speranzosi a sinistra, ora votano orgogliosi 5Stelle e persino Lega. Si dirà: tutti i partiti socialdemocratici d’Europa sono in crisi. Vero: hanno contribuito a creare un’Unione europea che somiglia più a un bancomat per ricchi che a una comunità di cittadini e, quando servono soldi per aiutare i più deboli, c’è sempre qualche parametro o qualche trattato che respinge la richiesta. Ma il Pd è socialdemocratico? Mai stato. Né con Veltroni & C., né tantomeno con Renzi, che ha copiato paro paro il programma di B. (infatti è ancora lì che tratta per un “governo di tutti”). Potrebbe diventarlo ora, tanto per cambiare un po’ e vedere l’effetto che fa. Come il Labour britannico che, passata la sbornia blairiana, s’è dato a Corbyn e gode discreta salute. O come i socialisti francesi, spariti dalla scena proprio mentre Mélenchon arrivava a un passo dal ballottaggio. Ma, alla Direzione senza direzione, nessuno ne ha parlato. Eppure è una legge della fisica politica: se la sinistra non fa la sinistra, ci pensa qualcun altro in sua vece. (…). Del rapporto della Banca d’Italia e degli allarmi suscitati dai bollettini periodicamente diramati dall’Istat – nell’indifferenza di #quellichenonsannoquelchefanno - ne ha scritto in un dossier, che ha per titolo “Welfare, un sistema strabico fa guadagnare i più ricchi”, Marco Ruffolo, dossier pubblicato sul settimanale A&F del 12 di marzo 2018: Se "i deboli" devono pagare di tasca propria per il welfare molto più di quanto pagano "gli agiati", se le loro spese per sanità e istruzione pesano sul reddito familiare il doppio di quelle delle classi più fortunate, la conclusione che se ne trae è che in non pochi casi lo stato sociale italiano, invece di ridurre le disuguaglianze, rischia di aumentarle. (…). Che il welfare made in Italy, sia pure con punti di forza notevoli, dia prove di strabismo aiutando in molti casi le famiglie benestanti più di quelle disagiate, non è una novità assoluta. (…). Due classi sociali vengono messe a confronto: i "deboli" a un estremo, gli "agiati" all'estremo opposto. I primi sono poveri o a rischio povertà, hanno un reddito familiare medio di 13.600 euro l'anno e ovviamente non possono risparmiare neppure un centesimo: sono il 30,6 per cento del campione, che trasferito sull'intera popolazione italiana significa 7,7 milioni di famiglie. I secondi hanno un reddito medio netto di 68.700 euro e sono l'8,5 per cento delle famiglie, 2,1 milioni. Quanto spendono queste due classi per il welfare tirando fuori i soldi dai loro portafogli? I più poveri il 19,1 per cento del loro reddito; i più ricchi il 14,7. Insomma, proprio le famiglie più disagiate, del tutto prive di capacità di risparmio, devono dare un quinto dei propri guadagni per accedere a servizi sociali essenziali. (…). Se poi all'interno di quella spesa, andiamo a vedere quanto si paga per salute, istruzione e trasporto casa-lavoro più mensa - tre servizi difficilmente comprimibili - allora lo scarto è ancora più marcato. Per la salute (soprattutto visite specialistiche, servizi paramedici, occhiali da vista e dentista) le famiglie in condizioni di debolezza pagano più del doppio di quelle agiate: il 7,8% del proprio reddito contro il 3,4. Per l'istruzione (tasse, rette, mensa, asili nido e didattica) il 2,7 contro l'1,3. Per il lavoro il 6,3 contro il 3,3%. (…). Le ragioni di questa clamorosa stortura redistributiva sono in gran parte riposte nella differente offerta pubblica di welfare al Centro-Nord, dove è buona o dignitosa, e nel Mezzogiono, dove è spesso precaria, mediocre o addirittura assente. Così al Sud e nelle Isole, cioè proprio lì dove si concentrano le classi più disagiate, il 55 per cento delle famiglie è costretto a sborsare di tasca propria le visite specialistiche (contro il 44,7 del Nord), e quasi la metà paga gli esami diagnostici e i farmaci per malattie croniche (contro il 20-30 delle regioni settentrionali). Questo succede quando molte prestazioni pubbliche sono indisponibili o quando i tempi di attesa sono intollerabili (nonostante i miglioramenti recenti): per una mammografia, ricorda il Censis, si aspettano al Sud in media 142 giorni, per una risonanza magnetica 111. L'assistenza ai non autosufficienti è un altro esempio di welfare al contrario: ad accollarsi interamente il relativo costo sono quasi tutte le famiglie disagiate (l'87,5 per cento), e solo il 63,8 di quelle agiate. Al Sud, in particolare, emerge l'inadeguatezza dell'offerta pubblica, con una qualità dei servizi insufficiente nel 35,7 per cento dei casi, contro il 17,6 della media nazionale. (…). Ma tra i "deboli", accanto a coloro che per sanità, istruzione e lavoro pagano più dei ricchi, c'è un'altra fetta, ancora più numerosa e più bisognosa, che è costretta a rinunciare a quelle prestazioni perché il suo bilancio non glielo consente. (…). …su 100 famiglie della classe "debole", 60 non si possono permettere almeno una parte delle cure sanitarie, 58 non possono offrire ai propri figli asili nido, corsi specifici e gite scolastiche, 50 lasciano perdere le spese per cultura, intrattenimento e sport. Anche nell'istruzione, dunque, la rinuncia alle prestazioni è percentualmente molto pesante tra le famiglie più povere. Ma è soprattutto nella sanità che questo fenomeno assume proporzioni spesso drammatiche. L'ondata di rinunce alle cure nasce dal fatto che il nostro stato sociale chiama più che in passato i cittadini a pagare una parte delle prestazioni di base, per esempio attraverso i ticket. E non tutte le famiglie disagiate sono esenti. (…). Insomma, (…), la struttura del welfare familiare risulta "profondamente squilibrata", e "i due principi su cui poggia il nostro stato sociale - redistributivo e universalistico - sono contraddetti sul piano fattuale, soprattutto in alcune aree del Paese, a causa della prolungata riduzione di risorse", Certo, "il sistema sanitario nazionale italiano mantiene, nel confronto internazionale, livelli riconosciuti di qualità delle prestazioni specialistiche e ospedaliere. Ma le difficoltà di acceso alle cure non di urgenza e agli esami diagnostici ha distribuito tra le famiglie costi maggiori e soprattutto non proporzionali alle capacità di spesa". (…). Si consuma così un'ingiustizia sociale dal doppio volto. Una parte dei più deboli, per avere i servizi essenziali, si trova a dover pagare in rapporto al proprio scarso reddito, la quota più alta di qualunque altra classe sociale. Un'altra parte è costretta addirittura a rinunciare a quelle prestazioni. In entrambi i casi, per ristabilire un minimo di giustizia la prima cosa da fare è salvaguardare il welfare pubblico, preservarlo dai tagli e soprattutto migliorarlo al Sud. Ma servirebbe anche una politica redistributiva molto più incisiva di quella attuale. Finora le risorse destinate dallo Stato alle classi più indifese sono state troppo esigue per invertire lo spaventoso aumento della povertà che si è verificato nel nostro Paese durante gli anni della recessione: i poveri assoluti sono più che raddoppiati arrivando a 4,7 milioni, per poi stabilizzarsi a partire dal 2015. Ma sul versante delle risorse, soltanto adesso cominciano ad arrivare flussi significativi: 2 miliardi nel 2018, 2,5 nel 2019 e 2,7 nel 2020, grazie soprattutto al reddito di inclusione, entrato da poco in funzione e alle altre misure previste. (…). Nel suo ultimo rapporto annuale, l'Istat dice che durante la recessione lo Stato, malgrado abbia cercato di aiutare le categorie più colpite dalla crisi, non lo ha fatto sufficientemente, non è riuscito cioè a "contrapporsi alle forze di mercato". Così alla fine la capacità di redistribuire i redditi è risultata da noi "tra le più basse in Europa". Tra il 2007 e il 2014 ad essere penalizzata è stata proprio la classe più debole e in gran parte giovane, mentre una protezione maggiore è stata data alle classi medie e medio-basse di pensionati. Molto è cambiato dopo il 2014, dice l'Istat. Le politiche di redistribuzione (con il bonus di 80 euro, la quattordicesima ai pensionati e il primo sostegno di inclusione per i poveri), hanno avuto un impatto indubbiamente positivo sull'aumento del reddito disponibile dei più deboli. Ma non basta ancora. Bisognerà vedere se e in che misura il reddito di inserimento contro la povertà assoluta (ammesso che sia conservato dalla futura compagine governativa) riuscirà a rendere il nostro welfare un po' meno strabico.
Invece nessuno s’è nemmeno posto la domanda, per paura di trovare una risposta e di doverne poi trarre le conseguenze: e cioè il ritiro a vita privata di tutto il gruppo dirigente, renziano e non. Meglio continuare a oscillare fra due tentazioni: quella demenziale di farla pagare agli italiani, così imparano a diventare improvvisamente “populisti”, a non capire le grandi riforme dell’ultimo quinquennio e a non apprezzare il boom economico che ne è seguito; e quella infantile di interrompere la partita appena iniziata e portar via il pallone, così se non giocano loro non gioca nessuno. (…). Eppure, se volessero capire perché prendono scoppole ininterrottamente da tre anni, lorsignori non avrebbero che da leggere l’ultimo rapporto non della Terza Internazionale, ma della Banca d’Italia: siamo un Paese sempre più ingiusto e diseguale, col 5% di benestanti che controlla un terzo della ricchezza nazionale, mentre rischiano la povertà un quarto delle famiglie, che salgono a 4 su 10 nel Sud, ma raddoppiano anche al Nord rispetto a 10 anni fa. Che ha fatto il Pd negli ultimi quattro governi? Nulla per migliorare le cose, molto per peggiorarle. Infatti gli esclusi, che un tempo guardavano speranzosi a sinistra, ora votano orgogliosi 5Stelle e persino Lega. Si dirà: tutti i partiti socialdemocratici d’Europa sono in crisi. Vero: hanno contribuito a creare un’Unione europea che somiglia più a un bancomat per ricchi che a una comunità di cittadini e, quando servono soldi per aiutare i più deboli, c’è sempre qualche parametro o qualche trattato che respinge la richiesta. Ma il Pd è socialdemocratico? Mai stato. Né con Veltroni & C., né tantomeno con Renzi, che ha copiato paro paro il programma di B. (infatti è ancora lì che tratta per un “governo di tutti”). Potrebbe diventarlo ora, tanto per cambiare un po’ e vedere l’effetto che fa. Come il Labour britannico che, passata la sbornia blairiana, s’è dato a Corbyn e gode discreta salute. O come i socialisti francesi, spariti dalla scena proprio mentre Mélenchon arrivava a un passo dal ballottaggio. Ma, alla Direzione senza direzione, nessuno ne ha parlato. Eppure è una legge della fisica politica: se la sinistra non fa la sinistra, ci pensa qualcun altro in sua vece. (…). Del rapporto della Banca d’Italia e degli allarmi suscitati dai bollettini periodicamente diramati dall’Istat – nell’indifferenza di #quellichenonsannoquelchefanno - ne ha scritto in un dossier, che ha per titolo “Welfare, un sistema strabico fa guadagnare i più ricchi”, Marco Ruffolo, dossier pubblicato sul settimanale A&F del 12 di marzo 2018: Se "i deboli" devono pagare di tasca propria per il welfare molto più di quanto pagano "gli agiati", se le loro spese per sanità e istruzione pesano sul reddito familiare il doppio di quelle delle classi più fortunate, la conclusione che se ne trae è che in non pochi casi lo stato sociale italiano, invece di ridurre le disuguaglianze, rischia di aumentarle. (…). Che il welfare made in Italy, sia pure con punti di forza notevoli, dia prove di strabismo aiutando in molti casi le famiglie benestanti più di quelle disagiate, non è una novità assoluta. (…). Due classi sociali vengono messe a confronto: i "deboli" a un estremo, gli "agiati" all'estremo opposto. I primi sono poveri o a rischio povertà, hanno un reddito familiare medio di 13.600 euro l'anno e ovviamente non possono risparmiare neppure un centesimo: sono il 30,6 per cento del campione, che trasferito sull'intera popolazione italiana significa 7,7 milioni di famiglie. I secondi hanno un reddito medio netto di 68.700 euro e sono l'8,5 per cento delle famiglie, 2,1 milioni. Quanto spendono queste due classi per il welfare tirando fuori i soldi dai loro portafogli? I più poveri il 19,1 per cento del loro reddito; i più ricchi il 14,7. Insomma, proprio le famiglie più disagiate, del tutto prive di capacità di risparmio, devono dare un quinto dei propri guadagni per accedere a servizi sociali essenziali. (…). Se poi all'interno di quella spesa, andiamo a vedere quanto si paga per salute, istruzione e trasporto casa-lavoro più mensa - tre servizi difficilmente comprimibili - allora lo scarto è ancora più marcato. Per la salute (soprattutto visite specialistiche, servizi paramedici, occhiali da vista e dentista) le famiglie in condizioni di debolezza pagano più del doppio di quelle agiate: il 7,8% del proprio reddito contro il 3,4. Per l'istruzione (tasse, rette, mensa, asili nido e didattica) il 2,7 contro l'1,3. Per il lavoro il 6,3 contro il 3,3%. (…). Le ragioni di questa clamorosa stortura redistributiva sono in gran parte riposte nella differente offerta pubblica di welfare al Centro-Nord, dove è buona o dignitosa, e nel Mezzogiono, dove è spesso precaria, mediocre o addirittura assente. Così al Sud e nelle Isole, cioè proprio lì dove si concentrano le classi più disagiate, il 55 per cento delle famiglie è costretto a sborsare di tasca propria le visite specialistiche (contro il 44,7 del Nord), e quasi la metà paga gli esami diagnostici e i farmaci per malattie croniche (contro il 20-30 delle regioni settentrionali). Questo succede quando molte prestazioni pubbliche sono indisponibili o quando i tempi di attesa sono intollerabili (nonostante i miglioramenti recenti): per una mammografia, ricorda il Censis, si aspettano al Sud in media 142 giorni, per una risonanza magnetica 111. L'assistenza ai non autosufficienti è un altro esempio di welfare al contrario: ad accollarsi interamente il relativo costo sono quasi tutte le famiglie disagiate (l'87,5 per cento), e solo il 63,8 di quelle agiate. Al Sud, in particolare, emerge l'inadeguatezza dell'offerta pubblica, con una qualità dei servizi insufficiente nel 35,7 per cento dei casi, contro il 17,6 della media nazionale. (…). Ma tra i "deboli", accanto a coloro che per sanità, istruzione e lavoro pagano più dei ricchi, c'è un'altra fetta, ancora più numerosa e più bisognosa, che è costretta a rinunciare a quelle prestazioni perché il suo bilancio non glielo consente. (…). …su 100 famiglie della classe "debole", 60 non si possono permettere almeno una parte delle cure sanitarie, 58 non possono offrire ai propri figli asili nido, corsi specifici e gite scolastiche, 50 lasciano perdere le spese per cultura, intrattenimento e sport. Anche nell'istruzione, dunque, la rinuncia alle prestazioni è percentualmente molto pesante tra le famiglie più povere. Ma è soprattutto nella sanità che questo fenomeno assume proporzioni spesso drammatiche. L'ondata di rinunce alle cure nasce dal fatto che il nostro stato sociale chiama più che in passato i cittadini a pagare una parte delle prestazioni di base, per esempio attraverso i ticket. E non tutte le famiglie disagiate sono esenti. (…). Insomma, (…), la struttura del welfare familiare risulta "profondamente squilibrata", e "i due principi su cui poggia il nostro stato sociale - redistributivo e universalistico - sono contraddetti sul piano fattuale, soprattutto in alcune aree del Paese, a causa della prolungata riduzione di risorse", Certo, "il sistema sanitario nazionale italiano mantiene, nel confronto internazionale, livelli riconosciuti di qualità delle prestazioni specialistiche e ospedaliere. Ma le difficoltà di acceso alle cure non di urgenza e agli esami diagnostici ha distribuito tra le famiglie costi maggiori e soprattutto non proporzionali alle capacità di spesa". (…). Si consuma così un'ingiustizia sociale dal doppio volto. Una parte dei più deboli, per avere i servizi essenziali, si trova a dover pagare in rapporto al proprio scarso reddito, la quota più alta di qualunque altra classe sociale. Un'altra parte è costretta addirittura a rinunciare a quelle prestazioni. In entrambi i casi, per ristabilire un minimo di giustizia la prima cosa da fare è salvaguardare il welfare pubblico, preservarlo dai tagli e soprattutto migliorarlo al Sud. Ma servirebbe anche una politica redistributiva molto più incisiva di quella attuale. Finora le risorse destinate dallo Stato alle classi più indifese sono state troppo esigue per invertire lo spaventoso aumento della povertà che si è verificato nel nostro Paese durante gli anni della recessione: i poveri assoluti sono più che raddoppiati arrivando a 4,7 milioni, per poi stabilizzarsi a partire dal 2015. Ma sul versante delle risorse, soltanto adesso cominciano ad arrivare flussi significativi: 2 miliardi nel 2018, 2,5 nel 2019 e 2,7 nel 2020, grazie soprattutto al reddito di inclusione, entrato da poco in funzione e alle altre misure previste. (…). Nel suo ultimo rapporto annuale, l'Istat dice che durante la recessione lo Stato, malgrado abbia cercato di aiutare le categorie più colpite dalla crisi, non lo ha fatto sufficientemente, non è riuscito cioè a "contrapporsi alle forze di mercato". Così alla fine la capacità di redistribuire i redditi è risultata da noi "tra le più basse in Europa". Tra il 2007 e il 2014 ad essere penalizzata è stata proprio la classe più debole e in gran parte giovane, mentre una protezione maggiore è stata data alle classi medie e medio-basse di pensionati. Molto è cambiato dopo il 2014, dice l'Istat. Le politiche di redistribuzione (con il bonus di 80 euro, la quattordicesima ai pensionati e il primo sostegno di inclusione per i poveri), hanno avuto un impatto indubbiamente positivo sull'aumento del reddito disponibile dei più deboli. Ma non basta ancora. Bisognerà vedere se e in che misura il reddito di inserimento contro la povertà assoluta (ammesso che sia conservato dalla futura compagine governativa) riuscirà a rendere il nostro welfare un po' meno strabico.
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