Così ha lasciato scritto nel Suo “Italiopoli” - Chiarelettere editore (2007) nella collana “Reverse”
- l’indimenticato Oliviero Beha: (…). Detto brutalmente, il punto è
semplificare disperatamente ogni concetto già alla fonte, a partire dalla
lingua adoperata per farsi capire, e indurre i telespettatori nella convinzione
d’aver capito. E infatti il metro di misura del successo in termini d’ascolto
nei talk show di sub informazione è quasi sempre quello del litigio, della
rissa, importata come molto altro dalla tv americana.
Lì, nel luogo comune comportamentale di chi si insulta, c’è assai poco da capire. Il pubblico percepisce come forte e semplice la contrapposizione tra due o più interlocutori, drammaturgicamente e infantilmente metabolizzati come il buono e il cattivo. Un classico della comunicazione nella storia del mondo, una sorta di toponimo, di situazione-chiave che la rozzezza apparente del mezzo televisivo diffonde senza sforzo. (…). La semplificazione del linguaggio, ridotto il più delle volte a squallido turpiloquio; la banalizzazione dei problemi, alla cui soluzione saranno chiamati i demiurghi del momento e non tanto pensosi uomini di governo della cosa pubblica; tutto in perfetta coerenza con la concezione del pubblico televisivo come di un fanciullo, non dei più svegli in verità. La semplificazione della democrazia ha una sola via d’uscita: nella morte della democrazia stessa, poiché essa stessa è “sinonimo” di complessità di problemi, è essa stessa complessità di risposte. Non esiste democrazia alcuna solo con la ritualizzazione del voto ancorché segreto: anche nelle peggiori delle democrazie del ventesimo secolo si è votato. La democrazia ha bisogno di ben altro per essere veramente e degnamente compiuta. E se i mezzi della comunicazione - e non della informazione - adottano tutti all’unisono la semplificazione più spinta ed assurda? È la triste anticamera dello “snaturamento” della democrazia. A sostegno di quanto ho cercato di asserire, anche alla opaca luce generata dagli avvenimenti nebulosi ed incerti che interessano la nostra democrazia incompiuta a seguito del voto del 4 di marzo, ri-propongo una parte dell’interessante scritto “La democrazia ha ancora bisogno di maestri” di Gustavo Zagrebelsky presentato nel corso del seminario "Democrazia e laicità: i maestri" curato dall’associazione “Libertà e Giustizia” e riportato sul quotidiano la Repubblica del 26 di maggio dell’anno 2008: In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d´ironia, se non anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile, maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle che noi avremmo definito un tempo esercitazioni, prima di diventare agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser, espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di maestro di vita? Meister, che richiama tempi andati di corti principesche e domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude. Il gran maestro delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente all´aria aperta. I tempi sono cambiati. (…). Il maestro è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo, che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri, non è confacente a questa società. (...). Questa società non ha dunque bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione, maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche. Che c´è di meglio? (...). E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della democrazia, l´una in opposizione all´altra. L´una, la potremmo definire democrazia critica; l´altra, acritica. La democrazia critica pone se stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia, sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. È un sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle capacità ch´esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l´esigenza di colmare questa distanza. La democrazia critica non assume, come sua massima, il detto vox populi, vox dei, per l´implicita supposizione di infallibilità ch´essa comporta. Considera un cedimento a un´inaccettabile ideologia della democrazia anche l´espressione, spesso ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione, e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente, nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione, contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che riguardano tutti siano assunte, se non da tutti, almeno dal maggior numero. È una questione di distribuzione e assunzione di responsabilità, non di ragione o di torto. Questo modo di concepire la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice la lezione dei maestri, si dice innanzitutto distanza tra noi, come soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità vitale. Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello. Non c´è bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s´è detto. Esse non creano tensione, allontanano da noi l´inquietudine del dubbio, ci fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci trasformano da soggetti in oggetti. I maestri non esistono se non ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli, incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora possono comparire i maestri. Questo - porre domande inevase e far valere esigenze insoddisfatte - è il compito di chi crede che valga la pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi l´inquietudine non come un vizio, ma come una virtù. Abbiamo di fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della democrazia, inquietudine senza sbocco per l´avvenire e incapacità generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che, non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la presenza o l´assenza di un magistero civile sarà determinante.
Lì, nel luogo comune comportamentale di chi si insulta, c’è assai poco da capire. Il pubblico percepisce come forte e semplice la contrapposizione tra due o più interlocutori, drammaturgicamente e infantilmente metabolizzati come il buono e il cattivo. Un classico della comunicazione nella storia del mondo, una sorta di toponimo, di situazione-chiave che la rozzezza apparente del mezzo televisivo diffonde senza sforzo. (…). La semplificazione del linguaggio, ridotto il più delle volte a squallido turpiloquio; la banalizzazione dei problemi, alla cui soluzione saranno chiamati i demiurghi del momento e non tanto pensosi uomini di governo della cosa pubblica; tutto in perfetta coerenza con la concezione del pubblico televisivo come di un fanciullo, non dei più svegli in verità. La semplificazione della democrazia ha una sola via d’uscita: nella morte della democrazia stessa, poiché essa stessa è “sinonimo” di complessità di problemi, è essa stessa complessità di risposte. Non esiste democrazia alcuna solo con la ritualizzazione del voto ancorché segreto: anche nelle peggiori delle democrazie del ventesimo secolo si è votato. La democrazia ha bisogno di ben altro per essere veramente e degnamente compiuta. E se i mezzi della comunicazione - e non della informazione - adottano tutti all’unisono la semplificazione più spinta ed assurda? È la triste anticamera dello “snaturamento” della democrazia. A sostegno di quanto ho cercato di asserire, anche alla opaca luce generata dagli avvenimenti nebulosi ed incerti che interessano la nostra democrazia incompiuta a seguito del voto del 4 di marzo, ri-propongo una parte dell’interessante scritto “La democrazia ha ancora bisogno di maestri” di Gustavo Zagrebelsky presentato nel corso del seminario "Democrazia e laicità: i maestri" curato dall’associazione “Libertà e Giustizia” e riportato sul quotidiano la Repubblica del 26 di maggio dell’anno 2008: In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d´ironia, se non anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile, maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle che noi avremmo definito un tempo esercitazioni, prima di diventare agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser, espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di maestro di vita? Meister, che richiama tempi andati di corti principesche e domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude. Il gran maestro delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente all´aria aperta. I tempi sono cambiati. (…). Il maestro è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo, che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri, non è confacente a questa società. (...). Questa società non ha dunque bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione, maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche. Che c´è di meglio? (...). E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della democrazia, l´una in opposizione all´altra. L´una, la potremmo definire democrazia critica; l´altra, acritica. La democrazia critica pone se stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia, sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. È un sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle capacità ch´esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l´esigenza di colmare questa distanza. La democrazia critica non assume, come sua massima, il detto vox populi, vox dei, per l´implicita supposizione di infallibilità ch´essa comporta. Considera un cedimento a un´inaccettabile ideologia della democrazia anche l´espressione, spesso ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione, e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente, nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione, contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che riguardano tutti siano assunte, se non da tutti, almeno dal maggior numero. È una questione di distribuzione e assunzione di responsabilità, non di ragione o di torto. Questo modo di concepire la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice la lezione dei maestri, si dice innanzitutto distanza tra noi, come soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità vitale. Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello. Non c´è bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s´è detto. Esse non creano tensione, allontanano da noi l´inquietudine del dubbio, ci fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci trasformano da soggetti in oggetti. I maestri non esistono se non ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli, incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora possono comparire i maestri. Questo - porre domande inevase e far valere esigenze insoddisfatte - è il compito di chi crede che valga la pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi l´inquietudine non come un vizio, ma come una virtù. Abbiamo di fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della democrazia, inquietudine senza sbocco per l´avvenire e incapacità generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che, non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la presenza o l´assenza di un magistero civile sarà determinante.
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