Da “La politica e il lessico dell´accordo” di Nadia Urbinati,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 20 di marzo dell’anno 2012: (…).
Il linguaggio della politica è efficace quando riesce a far sentire tutti
partecipi, anche se ideologicamente (o per appartenenza di classe) distanti tra
loro. Diversamente si tratta di linguaggio privato, che non consente di attuare
mediazioni perché prospetta soluzioni che sono a somma zero, a vantaggio cioè
di una sola parte. Ecco perché il linguaggio della politica non dovrebbe essere
né solo preoccupato di vincere né avere il carattere dell´intransigenza; la
prudenza non è mollezza ma saggia fermezza. (…). Il linguaggio politico serve a
incanalare le idee diverse verso uno scopo che è comune; le parole contengono
quindi il senso della possibilità e della fallibilità: poiché se solo una parte
è nel vero (o nel falso), non c´è proprio nulla da mediare. La verità non vuole
compromessi. L´arte del linguaggio politico non è solo una questione di stile.
Il senso delle parole è altrettanto importante perché può avvicinare o
allontanare gli interlocutori. Prendiamo per esemplificare tre parole in uso
costante (…): “dogma”, “privilegio” e “merito”. Tre parole che sembrano neutre
e innocui, ma che hanno un bagaglio ideologico pesante. (…).
Il dogma, quando non si riferisce al mistero della divinità, è uno stigma. La persona dogmatica assume che quel che pensa sia una verità insindacabile. Il dogma è indice di stupidità e irragionevolezza. Ora, il diritto di chiedere conto (e l´obbligo di rendere conto) viene dipinto come una pretesa irrazionale, anacronistica. In quanto dogma, non è più “diritto”, ma un “privilegio”. L´uso del termine privilegio è anch´esso molto indicativo. Infatti, se c´è una cosa che in una società democratica tutti detestano è che qualcuno sia più uguale degli altri, che goda cioè di privilegi. Ovviamente ci sono molti privilegiati di fatto, ma nessuno per diritto. Per esempio, i politici godono di straordinari privilegi ma sono comunque sottoposti al giudizio dell´elettore e quindi mai inamovibili. Nemmeno il profitto è un privilegio perché sottomesso comunque ai rischi del mercato. In questa fase della storia delle democrazie occidentali, gli unici a godere di un privilegio sembrano essere i più deboli – il repubblicano americano Newt Gingrich nei suoi comizi inveisce contro il popolo della “tessera di povertà”, privilegiati assistiti che non meritano l´interesse della politica poiché sono un peso per tutti. Questo è il rovesciamento della realtà di cui la retorica è capace. Chi gode di un privilegio non ha bisogno di diritti. Perché il diritto è uno scudo che protegge il debole (perché ha meno potere) dal forte (che avendo potere non ha bisogno di diritti, mentre dovrebbe essere soggetto a obblighi). (…). A coronamento della strategia linguistica viene infine il “merito”, che sta sia contro il privilegio che contro il dogma. John Rawls aveva tenuto fuori il merito dalle ragioni di giustizia distributiva perché condizionato dal contesto familiare, economico, scolastico, eccetera, e non traducibile in procedura imparziale. Solo un´identica (e irrealistica) condizione di partenza e identiche condizioni familiari, educative e socio-econimiche potrebbero fare del merito un criterio di giustizia distributiva. Ma le società sono dense di contingenze che sporcano questo ideale. Essere nati in un quartiere invece di un altro è condizione sufficiente per rendere il giudizio sul merito nullo, anzi ingiusto, quando si tratta di decidere come distribuire beni o oneri. Certo che le carriere devono seguire il merito! Ma questa dovrebbe essere la norma operante – senza di che c´è corruzione. La norma del merito dovrebbe semplicemente funzionare, e se non funziona il torto deve essere punito. Ma se se ne fa un ideale da perseguire è perché c´è ingiustizia e corruzione. Però, se così è, invocare il “privilegio” degli occupati come causa della disoccupazione di chi “meriterebbe” un posto di lavoro diventa davvero irrazionale. Dogma, privilegio, merito: queste parole danno un´idea di quale direzione possa prendere il mutamento della nostra società. Non si può fare come se si tratti solo di parole. Decostruirle, riflettere sul loro significato e le loro implicazioni è una condizione preliminare importante per discutere in maniera prudente sulle decisioni da prendere, e soprattutto per prendere decisioni che siano giuste.
Il dogma, quando non si riferisce al mistero della divinità, è uno stigma. La persona dogmatica assume che quel che pensa sia una verità insindacabile. Il dogma è indice di stupidità e irragionevolezza. Ora, il diritto di chiedere conto (e l´obbligo di rendere conto) viene dipinto come una pretesa irrazionale, anacronistica. In quanto dogma, non è più “diritto”, ma un “privilegio”. L´uso del termine privilegio è anch´esso molto indicativo. Infatti, se c´è una cosa che in una società democratica tutti detestano è che qualcuno sia più uguale degli altri, che goda cioè di privilegi. Ovviamente ci sono molti privilegiati di fatto, ma nessuno per diritto. Per esempio, i politici godono di straordinari privilegi ma sono comunque sottoposti al giudizio dell´elettore e quindi mai inamovibili. Nemmeno il profitto è un privilegio perché sottomesso comunque ai rischi del mercato. In questa fase della storia delle democrazie occidentali, gli unici a godere di un privilegio sembrano essere i più deboli – il repubblicano americano Newt Gingrich nei suoi comizi inveisce contro il popolo della “tessera di povertà”, privilegiati assistiti che non meritano l´interesse della politica poiché sono un peso per tutti. Questo è il rovesciamento della realtà di cui la retorica è capace. Chi gode di un privilegio non ha bisogno di diritti. Perché il diritto è uno scudo che protegge il debole (perché ha meno potere) dal forte (che avendo potere non ha bisogno di diritti, mentre dovrebbe essere soggetto a obblighi). (…). A coronamento della strategia linguistica viene infine il “merito”, che sta sia contro il privilegio che contro il dogma. John Rawls aveva tenuto fuori il merito dalle ragioni di giustizia distributiva perché condizionato dal contesto familiare, economico, scolastico, eccetera, e non traducibile in procedura imparziale. Solo un´identica (e irrealistica) condizione di partenza e identiche condizioni familiari, educative e socio-econimiche potrebbero fare del merito un criterio di giustizia distributiva. Ma le società sono dense di contingenze che sporcano questo ideale. Essere nati in un quartiere invece di un altro è condizione sufficiente per rendere il giudizio sul merito nullo, anzi ingiusto, quando si tratta di decidere come distribuire beni o oneri. Certo che le carriere devono seguire il merito! Ma questa dovrebbe essere la norma operante – senza di che c´è corruzione. La norma del merito dovrebbe semplicemente funzionare, e se non funziona il torto deve essere punito. Ma se se ne fa un ideale da perseguire è perché c´è ingiustizia e corruzione. Però, se così è, invocare il “privilegio” degli occupati come causa della disoccupazione di chi “meriterebbe” un posto di lavoro diventa davvero irrazionale. Dogma, privilegio, merito: queste parole danno un´idea di quale direzione possa prendere il mutamento della nostra società. Non si può fare come se si tratti solo di parole. Decostruirle, riflettere sul loro significato e le loro implicazioni è una condizione preliminare importante per discutere in maniera prudente sulle decisioni da prendere, e soprattutto per prendere decisioni che siano giuste.
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