Da “L’ascensore
sociale è bloccato perché non abbiamo fiducia” di Stefano Feltri,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 5 di febbraio 2018: Altro
che “populismo”. La parola che spiega la politica di questi anni è “elefante”.
Nel senso del grafico che prima o poi frutterà il Nobel all’economista Branko
Milanovic: una curva che indica quali individui hanno beneficiato della
crescita tra il 1988 e il 2008. È andato tutto ai già ricchi, il top 1 per
cento, e alla nascente classe media asiatica. Zero alla classe media
occidentale, quella che oggi vota Donald Trump, Lega, Cinque Stelle, o si
astiene. Si è ridotta la disuguaglianza tra Paesi, è aumentata quella
all’interno di ciascun Stato.
Molti economisti hanno analizzato questo fenomeno, pochi hanno spiegato quali sono le conseguenze e perché dobbiamo preoccuparci di vivere in quello che l’economista Thomas Piketty definisce un “capitalismo patrimoniale”, dove a fare la differenza sono le ricchezze ereditate più che le competenze. Federico Fubini, vice direttore del Corriere della Sera, ha scritto un singolare libro, La maestra e la camorrista (Mondadori), per indagare la persistenza della disuguaglianza e le sue conseguenze, con esperimenti di economia comportamentale e inchieste sul campo per spiegare “perché in Italia resti quello che nasci”. Le conclusioni a cui arriva offrono una griglia utile a valutare le proposte dei partiti in queste settimane. Fubini parte da un lavoro di Guglielmo Barone e Sauro Mocetti per la Banca d’Italia: i due economisti hanno trovato i dati per confrontare i redditi dei fiorentini del 2011 con i loro antenati del 1427 che avevano comunicato molte informazioni in un censimento, incrociando i cognomi. La letteratura accademica sul tema prevede che vantaggi e svantaggi derivanti dalla famiglia di appartenenza svaniscono nel giro di qualche generazione. I ricercatori della Banca d’Italia scoprono invece che a Firenze resistono per sei secoli e che un “pavimento di cristallo” impedisce a chi discende da famiglie benestanti del Quattrocento di cadere troppo in basso, mentre chi era artigiano nel 1427 ha generato una dinastia di artigiani. Fubini scova un certo Fabio Mannucci, restauratore, che pare discendere da Manno Mannucci, artigiano del legno: entrambi, a 600 anni di distanza, stanno nel quarantottesimo percentile, nella parte bassa del ceto medio. Capire le cause e gli effetti di questa palude sociale è complesso. Fubini offre una sua chiave di interpretazione: quello che differisce tra chi sta sopra e chi sta sotto è la fiducia, la disponibilità alla cooperazione. Fubini sottopone dei questionari a studenti tra i 16 e i 18 anni di Mondragone, a Caserta, il Comune con più omicidi di mafia. Chiede di rispondere alle stesse domande a studenti d’eccellenza del collegio Ghisleri di Pavia e ai soci junior dell’Aspen Institute. I giovani campani danno un punteggio di 8,1 al principio “non fidarsi mai degli altri”. Al Ghisleri 4,3, idem all’Aspen. Le differenze si vedono anche nelle aspettative: i ragazzi di Mondragone pensano di essere “più forti degli altri” in percentuali maggiori dei loro coetanei d’élite, ma hanno meno fiducia nelle loro possibilità di realizzare le proprie ambizioni. Questa diffidenza si sviluppa quasi subito: Fubini la riscontra anche in bambini piccoli, sotto i cinque anni. Chi ha famiglie ai margini dell’illegalità o viene da contesti criminali non riesce a fidarsi, di fronte al dilemma se avere oggi cinque carte dei Pokemon da un altro bambino o dieci domani preferisce sempre l’uovo alla gallina. E di fronte a un ovetto Kinder non riesce a trattenersi dall’aprirlo anche se gliene sono stati promessi due se resiste per 15 minuti. Chi non si fida non rischia tempo, energie e denaro su investimenti di cui dovrebbe incassare il risultato dal resto della comunità negli anni a venire. Perché prendere una laurea se tanto il destino è già segnato? Se pensi che l’ascensore sociale sia fuori servizio, neppure premi il bottone di chiamata. Il risultato di questa inchiesta può spingere a rassegnarsi alle conclusioni di Piketty: la disuguaglianza si auto-alimenta per le dinamiche strutturali del capitalismo, si è ridotta solo grazie a eventi traumatici come la seconda guerra mondiale, grande livella. Fubini suggerisce alcuni rimedi meno sanguinosi: investire molto sull’istruzione, soprattutto nelle politiche che riguardano chi è ai margini: alzare l’obbligo scolastico da 16 a 18 anni, portare (come ha fatto lo stesso Fubini) persone con storie di emancipazione e successo a raccontare le proprie vite agli studenti di aree disagiate, dare borse di studio per l’università. Rimettere una vera imposta di successione e cancellare il valore del titolo di studio per togliere illusioni pericolose (e successive frustrazioni) sul valore intrinseco del “pezzo di carta”. Invece che dare una risposta a queste questioni, un po’ tutti i partiti chiedono il voto con una logica novecentesca: più spesa pubblica per quasi tutti (Pd, M5S, Liberi e Uguali) o meno tasse per tutti ma soprattutto per i ricchi (centrodestra). Il tratto comune tra i programmi è che tendono ad aspettarsi da tutti gli italiani le stesse reazioni di fronte ai medesimi stimoli: dai più soldi o più servizi all’elettore e quello starà meglio. L’inchiesta di Fubini dimostra che non è così semplice. E che distribuire risorse, anche con le migliori intenzioni, senza considerare le radici profonde dei problemi che si vogliono affrontare rischia di essere soltanto una pericolosa forma di spreco.
Molti economisti hanno analizzato questo fenomeno, pochi hanno spiegato quali sono le conseguenze e perché dobbiamo preoccuparci di vivere in quello che l’economista Thomas Piketty definisce un “capitalismo patrimoniale”, dove a fare la differenza sono le ricchezze ereditate più che le competenze. Federico Fubini, vice direttore del Corriere della Sera, ha scritto un singolare libro, La maestra e la camorrista (Mondadori), per indagare la persistenza della disuguaglianza e le sue conseguenze, con esperimenti di economia comportamentale e inchieste sul campo per spiegare “perché in Italia resti quello che nasci”. Le conclusioni a cui arriva offrono una griglia utile a valutare le proposte dei partiti in queste settimane. Fubini parte da un lavoro di Guglielmo Barone e Sauro Mocetti per la Banca d’Italia: i due economisti hanno trovato i dati per confrontare i redditi dei fiorentini del 2011 con i loro antenati del 1427 che avevano comunicato molte informazioni in un censimento, incrociando i cognomi. La letteratura accademica sul tema prevede che vantaggi e svantaggi derivanti dalla famiglia di appartenenza svaniscono nel giro di qualche generazione. I ricercatori della Banca d’Italia scoprono invece che a Firenze resistono per sei secoli e che un “pavimento di cristallo” impedisce a chi discende da famiglie benestanti del Quattrocento di cadere troppo in basso, mentre chi era artigiano nel 1427 ha generato una dinastia di artigiani. Fubini scova un certo Fabio Mannucci, restauratore, che pare discendere da Manno Mannucci, artigiano del legno: entrambi, a 600 anni di distanza, stanno nel quarantottesimo percentile, nella parte bassa del ceto medio. Capire le cause e gli effetti di questa palude sociale è complesso. Fubini offre una sua chiave di interpretazione: quello che differisce tra chi sta sopra e chi sta sotto è la fiducia, la disponibilità alla cooperazione. Fubini sottopone dei questionari a studenti tra i 16 e i 18 anni di Mondragone, a Caserta, il Comune con più omicidi di mafia. Chiede di rispondere alle stesse domande a studenti d’eccellenza del collegio Ghisleri di Pavia e ai soci junior dell’Aspen Institute. I giovani campani danno un punteggio di 8,1 al principio “non fidarsi mai degli altri”. Al Ghisleri 4,3, idem all’Aspen. Le differenze si vedono anche nelle aspettative: i ragazzi di Mondragone pensano di essere “più forti degli altri” in percentuali maggiori dei loro coetanei d’élite, ma hanno meno fiducia nelle loro possibilità di realizzare le proprie ambizioni. Questa diffidenza si sviluppa quasi subito: Fubini la riscontra anche in bambini piccoli, sotto i cinque anni. Chi ha famiglie ai margini dell’illegalità o viene da contesti criminali non riesce a fidarsi, di fronte al dilemma se avere oggi cinque carte dei Pokemon da un altro bambino o dieci domani preferisce sempre l’uovo alla gallina. E di fronte a un ovetto Kinder non riesce a trattenersi dall’aprirlo anche se gliene sono stati promessi due se resiste per 15 minuti. Chi non si fida non rischia tempo, energie e denaro su investimenti di cui dovrebbe incassare il risultato dal resto della comunità negli anni a venire. Perché prendere una laurea se tanto il destino è già segnato? Se pensi che l’ascensore sociale sia fuori servizio, neppure premi il bottone di chiamata. Il risultato di questa inchiesta può spingere a rassegnarsi alle conclusioni di Piketty: la disuguaglianza si auto-alimenta per le dinamiche strutturali del capitalismo, si è ridotta solo grazie a eventi traumatici come la seconda guerra mondiale, grande livella. Fubini suggerisce alcuni rimedi meno sanguinosi: investire molto sull’istruzione, soprattutto nelle politiche che riguardano chi è ai margini: alzare l’obbligo scolastico da 16 a 18 anni, portare (come ha fatto lo stesso Fubini) persone con storie di emancipazione e successo a raccontare le proprie vite agli studenti di aree disagiate, dare borse di studio per l’università. Rimettere una vera imposta di successione e cancellare il valore del titolo di studio per togliere illusioni pericolose (e successive frustrazioni) sul valore intrinseco del “pezzo di carta”. Invece che dare una risposta a queste questioni, un po’ tutti i partiti chiedono il voto con una logica novecentesca: più spesa pubblica per quasi tutti (Pd, M5S, Liberi e Uguali) o meno tasse per tutti ma soprattutto per i ricchi (centrodestra). Il tratto comune tra i programmi è che tendono ad aspettarsi da tutti gli italiani le stesse reazioni di fronte ai medesimi stimoli: dai più soldi o più servizi all’elettore e quello starà meglio. L’inchiesta di Fubini dimostra che non è così semplice. E che distribuire risorse, anche con le migliori intenzioni, senza considerare le radici profonde dei problemi che si vogliono affrontare rischia di essere soltanto una pericolosa forma di spreco.
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