Da “Il futuro? Una rete piena di energia” di Luca Andò, intervista a
Jeremy Rifkin pubblicata sul quotidiano l’Unità del 26 di ottobre dell’anno
2011: Il petrolio sta finendo, il clima sta peggiorando e anche l’Occidente
non si sente molto bene. Jeremy Rifkin non è WoodyAllen ma il richiamo alla
geniale battuta è inevitabile. «Siamo una civiltà fondata sul paradosso:
abbiamo costruito il nostro futuro sulla riesumazione dei depositi del
Carbonifero. Petrolio, carbone e gas sono regali del passato, con il primo che
costa sempre più ma di cui ne abbiamo sempre meno. Se aggiungiamo i cambiamenti
climatici provocati dalle emissioni prodotte dalla combustione di queste
sostanze il quadro è completo. E un futuro che sa molto di suicidio».
Questa non è una battuta allegra.
«Torniamo ai paradossi. Questa crisi economica è devastante, non v’è dubbio. Ma
volendo vedere il bicchiere mezzo pieno contiene un aspetto positivo che
andrebbe valorizzato. Perché sta facendo capire a tutti, anche ai più cocciuti,
che se non cambiamo strada finiamo nel burrone».
Non le sembra di esagerare? «Sul
burrone non ho dubbi: è l’esito inevitabile di questa impostazione politica ed
economica basata sullo sfruttamento del pianeta e delle sue risorse. Per quanto
riguarda la crisi ho il sospetto che per cambiare direzione dobbiamo prima
sbattere il naso. E triste ma è così».
E dove dovremmo andare? È da
anni, anzi decenni che stiamo parlando della necessità di cambiare strada ma
finora i risultati sono stati deludenti. «Questa volta potrebbe essere
diverso», (…). Oggi siamo agli inizi di un possibile cambiamento, una svolta
epocale di quelle che capitano poche volte nella storia. Il punto è che dipende
da noi decidere se vogliamo coglierla e realizzarla o continuare come adesso:
sfruttando il passato anziché costruire il futuro».
Tradotto cosa significa? «Le
grandi trasformazioni economiche della storia avvengono sempre quando una nuova
tecnologia di comunicazione incontra un nuovo sistema energetico. La
convergenza fra le tecnologie a vapore e i metodi di stampa ha trasformato un
mezzo di comunicazione nel principale strumento di gestione della prima
rivoluzione industriale. Le macchine da stampa azionate a vapore, poi le
rotative e le linotype hanno aumentato la velocità di stampa e ridotto i costi.
Libri, riviste, quotidiani hanno aperto la strada, per la prima volta nella
storia, all’alfabetizzazione di massa. Sarebbe stato impossibile gestire la
prima rivoluzione industriale attraverso la scrittura mano e i codici miniati».
E la seconda? «Ai primi del
Novecento, il convergere della comunicazione elettrica col petrolio e il motore
a scoppio ha spianato la strada alla seconda rivoluzione industriale. Gli
strumenti della prima comunicazione elettrica parlo del telegrafo e del
telefono, sono diventati i meccanismi per gestire, organizzare e portare sul
mercato la seconda rivoluzione industriale».
E adesso? «Oggi abbiamo la
possibilità di unire due tecnologie straordinarie: Internet e le energie
rinnovabili. Sa cosa hanno in comune queste tecnologie? Che sono diffuse. Sono
dappertutto».
Per Internet è chiaro, per le
rinnovabili un po’ meno. «Alla fine di questo secolo centinaia di milioni di
esseri umani trasformeranno i propri edifici in piccole centrali elettriche
capaci di raccogliere le energie rinnovabili: pannelli solari ma non solo».
Che c’entra col concetto di
diffusione? «C’entra. Perché anziché utilizzare l’energia prodotta solo per le
proprie necessità, i singoli cittadini la metteranno a disposizione degli
altri. Ci saranno reti intelligenti in grado di distribuire l’energia ovunque
ce ne sarà bisogno. E qui che entra in ballo la tecnologia diffusa di Internet:
una gigantesca rete che invece di bit distribuirà elettroni. Ma non basta».
Che altro? «Le energie
rinnovabili, come è noto, non sono costanti ma variabili. Bisogna trovare
sistemi efficienti per immagazzinare l’energia in eccesso da rilasciare quando
non c’è il sole o non soffia il vento. Al momento la strada più convincente è
quella dell’idrogeno. In pratica, si utilizza energia per produrre idrogeno e,
quando serve, si sfrutta l’idrogeno per produrre energia. Col vantaggio che, a
differenza del petrolio, l’idrogeno è un elemento naturale che non inquina».
Detto così sembra semplice.
Quanto ci vorrà per completare questa Terza rivoluzione? «Una ventina d’anni da
quando si parte. Ma con un vantaggio: che costruire la Terza rivoluzione
aiuterebbe a uscire dalla crisi economica».
In che senso? «Per realizzare il
cambiamento bisogna trasformare le case in piccole centrali elettriche
rinnovabili, montare pannelli solari, costruire impianti eolici, sfruttare le
biomasse. E questo vuol dire nuovi posti di lavoro. Con un vantaggio».
Quale? «La ricetta, quando sei in
crisi, è sempre la solita: tagli, tagli, tagli. È un errore: perché se usi solo
le forbici, finisce che ti tagli anche le gambe per camminare. Assieme ai tagli
devi investire. E per farlo hai bisogno di un progetto convincente, un piano su
cui tutti si sentano pronti a investire anche in tempo di crisi».
Chi si sta muovendo più
rapidamente in questa direzione? «Sicuramente la Germania, che è il Paese che
più di tutti crede nelle rinnovabili. Ma direi l’Europa nel suo insieme:
l’Unione Europea Ue è stata la prima a imporre il 20 per cento di rinnovabili
entro il 2020. Questo vuol dire avere una visione del futuro. Il vostro
problema piuttosto è un altro: vi manca una narrazione convincente».
Anche lei come Vendola... «Gli americani sono stati sempre dei grandi narratori. Pensi ai discorsi di Kennedy, a quelli di Martin Luther King. E il “grande sogno” americano è stato una formidabile modo per comunicare un concetto e un progetto a milioni di persone. Quello che vi manca è una capacità narrativa di quel tipo: avete tante parole, tanti concetti ma non riuscite a tradurli in un racconto unico».
Obama è un bravo narratore? «In
campagna elettorale è stato formidabile: era l’uomo di Internet, del
Black-berry, della Green-economy. Ora si è perso nel linguaggio frammentato e
noioso della politica quotidiana: elenca una serie di problemi ma non indica
una convincente via d’uscita. Non è più un narratore. Ed è un peccato, perché
la Terza rivoluzione industriale è un bellissimo racconto. Una volta che l’hai
ascoltato non pensi ad altro».
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