“Donne&Potere”. «Kamala, la
“poliziotta” che sale di corsa le scale del potere Usa» di
Pino Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, 23 di luglio 2024: (…). Kamala,
nella bella lingua del Tamil Nadu, significa “fiore di loto”. Galleggia per
natura. Ma ha anche massima resilienza, quando occorre. Proprio come la sua
titolare cresciuta nella California democratica, dove si è nutrita di cultura
liberal, frequentando i movimenti studenteschi, fino all’Hastings College,
laurea in Giurisprudenza. E poi lungo una controversa carriera di procuratore,
sempre illuminata da battaglie sul campo – inflessibile con il crimine, dura con
le gang, severa con i colletti bianchi, ma anche con i clandestini – e da
controversie nel cielo dei media dove era rinominata “la procuratrice
poliziotta”. Salvo precipitare dentro l’ombra di Joe Biden, in questi quattro
anni di vicepresidenza, che sarebbero dovuti essere i più visibili. La verità è
che Biden, veterano della politica, l’ha usata per guadagnare consensi tra gli
elettori delle minoranze, poi l’ha silenziata su quasi tutti i temi importanti
– economia, ambiente, sanità, istruzione – tranne su quello spinosissimo
dell’immigrazione, dove l’ha guardata deragliare, senza mai chinarsi per darle
una mano. L’inciampo peggiore Kamala Harris l’ha fatto alla fine del suo primo
viaggio in Centroamerica, un anno dopo l’elezione, quando a consuntivo degli
incontri avuti in Messico, Guatemala e Honduras, ha pronunciato in pubblico
quel “Non venite!” che le è costato il sarcasmo dei Repubblicani e insieme
l’incazzatura di tutti e cento i popoli che aspirano all’America e al suo sogno
di sola andata. La sua storia lo incarna alla perfezione. La madre, Shyamala
Gopalan, è arrivata dall’India a 19 anni, diventerà biologa di fama, mentre il
padre Donald Harris, arrivato dalla Jamaica, diventerà docente di Economia a
Stanford. Si incrociano a Berkeley, condividono le battaglie sui diritti civili
della Bay Area Californiana negli anni cinematografici di Fragole e sangue, che
vuol dire raduni, musica, marce contro la guerra in Vietnam. Si sposano. Fanno
due figlie, Kamala è la primogenita, nasce il 24 ottobre 1964 a Oakland. I
genitori divorziano l’anno successivo. Cresciuta con madre single e origini
bi-razziali, proprio come Barack Obama, sviluppa una sua determinazione che
applica al carattere, allo studio, alla carriera. Dirà: “Vivendo in mezzo alle
comunità di neri, ebrei, asiatici, chicanos, ho imparato che esiste la
disuguaglianza”. Per un quarto di secolo passato nelle aule di giustizia, si
incaricherà di porvi rimedio alla sua maniera. Diventa procuratore a San
Francisco, poi capo della Career Criminal Division che coordina cinque procure.
Si occupa di crimini violenti, omicidi, rapine, reati sessuali. Verifica quanto
e come i delitti crescano nelle zone dove è più alto l’abbandono scolastico e
insufficienti i servizi sociali. Chiede interventi a tutela dei più deboli.
Contemporaneamente, davanti al potere del crimine organizzato, pretende la
massima severità nella repressione. Il che non le impedisce di battersi contro
la pena di morte e insieme di difendere quella dell’ergastolo senza sconti per
i colpevoli più pericolosi. I media la illuminano non solo per le ricorrenti
controversie nei tribunali, ma anche quando si lega sentimentalmente a Wllie
Brown, politico afroamericano di spicco, futuro sindaco di San Francisco che i
giornali definiscono “il playboy che ama le auto e le donne di lusso”. Siamo
nel 1993: Kamala ha 29 anni, lui 60, sposato con figli. Tutto miele e fiele per
i media che scrivono di Brown: “È capace di andare a una festa con sua moglie a
un braccio e l’amante all’altro”. Sarà lui a lasciarla nel 1996, quando si
insedierà sindaco, presentandosi alla cerimonia con moglie, i tre figli e la
bibbia in mano. Ma intanto Kamala ha incassato due nomine in altrettante
commissioni statali e, dicono le malelingue, la spinta finale per diventare il
procuratore capo, prima di San Francisco, poi della California. Circostanze che
Kamala ha sempre minimizzato, togliendosi la soddisfazione, una decina di anni
più tardi, di mettere il suo mentore sotto inchiesta con l’accusa di
clientelismo, di definirlo “un albatro appeso al collo” in una intervista tv e
di non nominarlo affatto nella sua autobiografia Le nostre verità. Da
procuratrice capo ripete: “Non è mai progressista essere morbidi con il
crimine” e poi: “Nessuno in America è al di sopra della legge”. Due convinzioni
che imbraccia per mettere sotto inchiesta non solo i narcotrafficanti
internazionali, ma anche lo strapotere delle Big Tech della Silicon Valley, le
multinazionali del petrolio, i colossi della finanza. Allo stesso tempo difende
i diritti civili, la comunità gay, il diritto all’aborto delle donne contro le
offensive della nuova onda ultraconservatrice. Dopo varie turbolenze
sentimentali, incontra l’anima gemella, l’avvocato newyorchese Doug Emhoff, a
un blind date, un “appuntamento alla cieca”, e nel 2013 si sposa. Dalla procura
al Senato, anno 2016, è un salto che le moltiplica i nemici e le durezze del carattere.
Trasuda insofferenza quando gli intervistatori le chiedono delle sue origini
indiane, giamaicane e nere: “Non siamo un vetro piatto, ma un prisma, una somma
di tanti fattori”. E quindi? “Sono americana e basta”. Veterana delle molte
commissioni di inchiesta del Senato si è occupata di Donald Trump, senza la
minima timidezza. Nel 2018 lo attacca quando ordina di separare le famiglie dei
clandestini, imprigionando i bambini. E l’anno dopo, quando Trump viene
accusato di ostacolare la giustizia che indaga sulla sua condotta
presidenziale, votando per l’impeachment. Ora Trump fa lo spaccone: “Sarà
ancora più facile batterla”. Ma è la paura a dettare la nuova bugia, visto che
Kamala ha 59 anni, sprizza energia. Può salire di corsa le scale del potere,
lasciandosi indietro l’uomo che a 78 anni si credeva giovane e all’improvviso
si ritrova vecchio.
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