"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 26 luglio 2024

Uominiedio. 51 Umberto Galimberti: «Per incontrare il prossimo è necessario un decentramento dal proprio io, così da offrire all'altro quel soccorso che desidereremmo ricevere nelle sue condizioni».


Racconta il Vangelo di Luca (10, 30-37) che un uomo, scendendo da Gerusalemme a Gerico cadde nelle mani dei banditi che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per la medesima strada e, avendolo visto, passò oltre dalla parte opposta, lo stesso fece un levita che passò qualche tempo dopo, mentre un samaritano (che apparteneva alla tribù di Samaria, che i sacerdoti e i leviti consideravano eretica e di frequente fu da loro combattuta) "si fece prossimo" all'uomo che giaceva in terra e, senza neppure conoscerlo, gli fasciò le ferite, lo caricò sul proprio giumento e lo portò in una locanda, pregando l'albergatore di prendersi cura di lui e, dopo averlo compensato con due danari, gli disse che, se non fossero bastati, sarebbe stato rimborsato al suo ritorno. Al termine della parabola, al Dottore della Legge che gli aveva chiesto "Chi è il mio prossimo?", Gesù risponde: "Chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è caduto nelle mani dei banditi?". Quello rispose: "Chi ha fatto misericordia a lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' lo stesso". Il prossimo, come ci suggerisce Enzo Bianchi in “Raccontare l'amore. Parabole di uomini e donne” (Rizzoli), non è chi ci sta davanti e magari neppure ci chiede soccorso. Il prossimo siamo noi quando "ci facciamo prossimi" alle condizioni di indigenza che sulla via possiamo incontrare. Ma allora, per incontrare il prossimo è necessario un decentramento dal proprio io, così da offrire all'altro quel soccorso che desidereremmo ricevere nelle sue condizioni. Apprendiamo così che il prossimo non è definito da una condizione o da una appartenenza, ma dalla nostra decisione di "renderci prossimi" all'altro, perché noi e l'altro abbiamo in comune quell'elemento essenziale che è l'appartenenza alla stessa umanità. Per questo, come vuole la narrazione cristiana, nel giorno del Giudizio, come ci ricorda Paolo di Tarso nella Lettera ai Galati (3, 28): "Non c'è più ne giudeo né greco" e noi potremmo aggiungere: né ebreo, né musulmano, né buddista, né taoista, né laico, né cristiano, né agnostico, né ateo, perché saremo giudicati solo se ci "ci saremo fatti prossimo" dando da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, se avremo accolto gli stranieri, vestito gli ignudi, visitato i malati e i carcerati (Vangelo di Matteo 25, 35-36). Se ne deduce che la salvezza, che magari non è nell'altro mondo, ma nell'accoglienza che noi riserviamo al prossimo in questo mondo, è per tutti a prescindere dalla diversità di religione e di cultura, di etnia, come lo è per il samaritano considerato "infedele" dal giudeo. Questo è il messaggio cardine dell'insegnamento di Gesù che non parla "ex cathedra", ma per "parabole" che, come ci ricorda Enzo Bianchi, è una forma discorsiva che vuol dire "parlare accanto (para-ballo)", parlare vicino, parlare nella prossimità, "facendoci prossimo" alla comune umanità che ci affratella. (Tratto da “Chi è il prossimo?” di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 30 di luglio dell’anno 2022).

“Da 60 anni faccio screzi da prete”, testo dell’intervista di Mirko Toniolo ad Alex Zanotelli pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 19 di luglio 2024: (…). Che bambino era? «Vivace, un po’ discolo».

La religione? «Avevo 8 anni. Sono stato l’unico ad alzare la mano quando un padre comboniano, parlando dell’Africa in classe, chiese se ci fosse qualcuno che volesse impegnarsi per i poveri».

Che pensavano i suoi genitori della scelta di andare in seminario? «Papà Sandro – uno dei pochi antifascisti del paese – non era per niente d’accordo che lasciassi Livo, il piccolo paese della Valle di Non, in Trentino, dove sono nato. Mi aveva programmato ben altra carriera: mi voleva in falegnameria. Mentre mamma Antonietta mi ha sostenuto fin dall’inizio. In famiglia eravamo sette fratelli e che uno diventasse prete era anche un suo desiderio».

Uscito dal seminario prende la strada degli Stati Uniti. «Studi di teologia e filosofia all’università dei Gesuiti nel Connecticut. Nel 1964, vengo ordinato sacerdote».

E parte come missionario comboniano per il Sudan, restandovi dal 1965 al 1978. «A 25 anni arrivò la prima missione pastorale in Africa. Il mondo che avevo conosciuto solo attraverso i libri e le aule universitarie là fuori era un’altra cosa. Ciò non minò la fede ma rafforzò il bisogno di conoscere. Di uscire dalla casa che mi ospitava e di andare a vivere in una baracca. Come gli altri, assieme agli altri con i quali avrei svolto la mia missione».

Il suo lavoro non piaceva a tutti. «Ricordo gli anni di insegnamento a Khartoum. Un Paese musulmano poco disponibile per un missionario bianco e cattolico. Difatti mi hanno cacciato via, non rinnovandomi il visto».

Torna in Italia e che cosa trova? «Quando nel 1979 sono rientrato mi proposero di dirigere Nigrizia, il settimanale dei padri comboniani. Solo che non pensavano che mi mettessi a scrivere contro “i regimi che hanno affamato l’Africa”».

Che giornale faceva? «Davo spazio alla Teologia della liberazione; numero dopo numero, ospitavo articoli che ricordavano l’impegno di monsignor Óscar Romero (l’arcivescovo ucciso in Salvador, nell’80, dai sicari del governo militare ndr). E ho pubblicato quelli dello storico Angelo Del Boca sui crimini commessi dagli italiani durante l’occupazione dell’Etiopia».

I suoi editoriali non passano inosservati. «C’è chi chiede la mia testa, come quando con un articolo metto sotto accusa una proposta di legge di socialisti e radicali contro la fame nel mondo. Criticavo questo improvviso interesse dei politici italiani, suggerendo che fosse mosso dalla fame di soldi destinati all’Africa».

Arriva il momento di lasciare Nigrizia. «Era il 1987 e l’ho fatto su pressione sia del governo Spadolini che dei vertici della Chiesa, con in testa Joseph Ratzinger, allora era capo della dottrina della fede».

1989, torna in Africa, stavolta in Kenia. «Un’esperienza che mi ha sconvolto. A Korogocho, baraccopoli di Nairobi,a poca distanza dai quartieri ricchi vivono ammassate migliaia di persone. Una sera incontro una donna. Si chiamava Florence ed era malata di Aids. Mi chiede di starle vicino e di pregare insieme. Dov’è Dio?, mi sono chiesto in quel momento. “Mimi ni uso wa mungo”, sono io il volto di Dio, mi ha risposto Florence».

Su quell’esperienza ha scritto un libro. «Lettera alla tribù bianca è frutto della vita a Korogocho. Ho scelto di andare in mezzo ai poveri, di vivere e di crescere con loro perché quella era la missione che mi ero dato. Sono stati anni intensi e molto belli, dove ho capito quanto i bianchi devono ai neri. Aspetti che le leggo un passo...».

Prego. «Sono i fratelli neri di Nairobi, delle baraccopoli che mi hanno detto di ritornare in Italia a “convertire la tribù bianca che è indifferente alla guerra, al razzismo”. In quel Paese ci ho lasciato il cuore. Anni che non scordo. Anche oggi quando leggo delle proteste dei giovani di Nairobi contro il governo che ha approvato (e poi ritirato) una legge finanziaria che avrebbe aumentato il costo della vita. Vorrei essere lì accanto a quei ragazzi».

Dal 2002 vive a Napoli. «Per me è sempre un nuovo inizio. Non c’è mai una fine. Anche adesso che sono qui da vent’anni».

I primi tempi come sono stati? «Cercavo una casa che stesse in mezzo al popolare quartiere della Sanità. Alla fine ne ho ricavata una nel campanile della chiesa. Pensi che si racconta che lì dentro qualcuno sia stato impiccato. Ho sistemato i ballatoi rendendoli abitabili e ci sono andato a stare. Le scale? Sono l’ultimo dei miei pensieri».

Di chi si occupa? «Dei rom, degli extracomunitari,ma anche dei giovani della Sanità».

Con quali risultati? «Il Comune, con fatica, ha messo a disposizione 1.500 metri quadrati di un vecchio palazzo borbonico, dove i senza casa si possono lavare, trovare riparo. Nel quartiere con la suora laica Felicetta Parisi ci occupiamo degli emarginati come dei ragazzi che abbandonano la scuola e vivono sulle strade. È un impegno che non termina mai».

Il 18 maggio era sul palco dell’Arena di Verona insieme a papa Francesco per l’evento con le associazioni pacifiste. «Mai avrei immaginato di sedere alla sinistra del Pontefice, dopo un lungo periodo in cui il mio nome dava fastidio. È stata come una rivalutazione del mio lavoro dopo decenni di ostilità delle gerarchie».

La croce che ha al collo da dove viene? «L’Africa è un amore infinito che porto sempre con me. Questa croce è fatta a mano dalle ragazze dell’associazione Bega Kwa Bega in Kenia, così come la maglietta azzurra e la sciarpa Huipalas, che non lascio mai, con i colori della pace intrecciati da un filo rosso: rappresenta l’incontro delle diverse culture, regalo di una ragazza ecuadoregna».

Come vede il futuro? «La mia generazione sarà tra le più maledette della storia. Nessuna generazione ha tanto violentato il pianeta Terra come la mia. Ai giovani chiedo perdono. Perché vi consegniamo un mondo gravemente malato». (…).

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