"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 15 luglio 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 89 Pino Corrias: «AR-15, il migliore fucile mitragliatore venduto in milioni di copie per l’amatissimo arsenale americano, il vero monumento nazionale al trumpismo».


(…): …l’omaccione di 1 metro e 90 per almeno 110 chili che si lancia agilmente a terra, poi si libera della morsa dei servizi segreti per rialzarsi col volto rigato di sangue, il pugno chiuso e il triplice urlo “Fight!” (combattete), come un moderno Capaneo dantesco, pare il figlio di Biden. Che ha solo tre anni di più, ma ora tutti lo immaginano su quel palco, immobile e inebetito, che si fa crivellare di colpi mentre cerca di capire che sta succedendo e magari tenta di andare incontro ai proiettili. Difficile che Biden o l’eventuale rimpiazzo, sempreché i Dem riescano ad accordarsi su uno solo, possa bilanciare la forza di quei fotogrammi. Che accreditano nell’immaginario collettivo The Donald come l’unico presidente possibile nelle condizioni date. E ribaltano spettacolarmente la narrazione dominante: il bullaccio plurimputato, eversore e golpista che fomenta la violenza politica e minaccia la democrazia; e il nonnetto mite e un po’ rinco che difende gli antichi valori. L’aggressore Trump diventa l’aggredito dalla violenza politica e il famigerato Deep State che telecomanda il presidente è sospettato di non aver protetto l’avversario, lasciando che uno svalvolato armato di fucile e bombe armeggiasse indisturbato su un tetto a 150 metri dal palco e gli sparasse, mancando d’un soffio l’obiettivo di fargli esplodere il capoccione in mondovisione. Ammesso che, nell’èra dei social, le elezioni abbiano qualcosa di razionale, non ci sarà più un barlume di razionalità nella campagna presidenziale. Solo percezioni, emozioni, passioni, umori, malumori. E immagini, quelle immagini, a cui difficilmente Biden o chi per lui riuscirà a contrapporne altre di pari efficacia. Il cielo azzurro di Pennsylvania, la bandiera a stelle e strisce, il rigagnolo di sangue dall’orecchio destro alla guancia del candidato, il pugno alzato del combattente, fisicamente prestante, pronto di riflessi, saldo di nervi e soprattutto fortunatissimo potrebbero cancellare tutti i processi, le accuse di golpe a Capitol Hill, le menzogne elettorali, persino il contrappasso tragicomico del fautore delle armi a tutti ferito da un pazzo armato fino ai denti. Soprattutto se il furbacchione manterrà la postura degli ultimi giorni, ovviamente finta come tutto: quella del magnanimo pacificatore che tiene uniti gli americani, senza più soffiare sul fuoco. Che gli serve quando perde, non quando sta per vincere. (Tratto da “Tutto in un centimetro” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, lunedì 15 di luglio 2024).

Il(mis)FattodelGiorno” 1. “Donald, il fuoriclasse, pronto a masticare Biden”, testo di Pino Corrias pubblicato sulla stessa edizione de’ “il Fatto Quotidiano”: Colpo di biliardo hollywoodiano della Storia. Lo sparo che ha scalfito l’orecchio di Donald Trump sul palco di Butler, Pennsylvania, ha centrato al cuore la candidatura di Joe Biden che se ne stava seduto, a 265 miglia di distanza, a sonnecchiare nella Stanza Ovale della Casa Bianca a Washington. Da ieri la ricandidatura del vecchio presidente è definitivamente finita tra gli Oggetti smarriti. Sostituita da quella sola istantanea di Donald Trump in primissimo piano con il pugno alzato, il volto rigato da una goccia di sangue, circondato dalle giacche blu del Secret Service, la bandiera americana alle loro spalle. Una inquadratura che da ieri entra per sempre negli schermi del pianeta per restarci e che riassume l’intera biografia di The Donald, sempre per metà drammatica e per l’altra metà pura finzione da commedia - con musica dell’inno nazionale “God Bless America” in sottofondo - dove verità e fiction, ma soprattutto aggressività e vittimismo si intrecciano a disegnare la sua storia di miliardario autoritario, mai compassionevole, il diavolo per i democratici, il santo per gli evangelici, in un susseguirsi di colpi di scena, compreso quello che ancora gli mancava, il colpo di pistola. Anzi di un AR-15, il migliore fucile mitragliatore venduto in milioni di copie per l’amatissimo arsenale americano, il vero monumento nazionale al trumpismo. Fallito sei volte, risorto altrettante, il premiato Donald Trump, fuoriclasse dei fuorilegge, si prepara a essere incoronato oggi a Milwaukee, Wisconsin, dalla Convention Repubblicana per le prossime elezioni presidenziali. E ci arriverà volando, tutti i sondaggi in erezione, tutti i dubbi legalitari spazzati via. Del resto in questi mesi The Donald, come lo chiamava Ivana, la prima moglie, è ringiovanito di un giorno ogni volta che Sleepy Joe invecchiava di un anno in diretta tv. Due settimane fa su Cnn, si è masticato Bu-bu Biden come fosse un chewingum. E altrettanto ha fatto, per quattro anni, sfidando da imputato i quattro processi che lo riguardano, compreso quello con la condanna per avere pagato il silenzio di Stormy Daniels, la porno-bionda, che invece si cantò quella relazione clandestina e quel pagamento in nero, mettendolo in guai che sono poco più di un po’ di forfora dorata sulla giacca. Turbo-Trump ha la Corte Suprema dalla sua parte. Ha i finanziamenti a pioggia. Ha la Russia di Putin che non vede l’ora di incoronarlo. E la Cina che lo odia, ricambiata. Quattro chances che fanno curriculum. La quinta è la maggioranza degli americani che sembra di nuovo caduta dentro al suo incantesimo lisergico, assediata a tal punto dalla paura del futuro, da credere a tutte le sue fanfaronate da Gran Moghul del cemento, dei soldi e della psiche. Passato il Covid e la sconfitta elettorale, Trump non si è più mosso da dove l’avevamo lasciato quattro anni fa, sulla scalinata di Capitol Hill, 6 gennaio 2021, a aizzare la sua folla di sciamani e poveri disgraziati sempre più convinti che il più prepotente tra i miliardari d’America, patrimonio di 5,3 miliardi di dollari, salirà in cima al mondo anche stavolta per proteggerli, e non per continuare a farsi i fatti suoi. La sua faccia rosa, la sua capigliatura arancione sono l’icona della nuova era “America First!”, fondata sulle crescenti diseguaglianze sociali, l’isolazionismo armato, l’irritazione per l’Europa che vive alle sue spalle, l’insofferenza per i limiti dello sviluppo energetico, che segna la sua clamorosa parabola di grande potenza in declino, proprio nel punto in cui Trump vuole convincerla del contrario, sventolando l’eterno slogan dell’“America Great Again”, il fuoco d’artificio che ancora funziona a illuminare questo lunghissimo stordimento post 11 settembre. Gli credono quando strilla: “Biden, sei un corrotto, pagato dalla Cina!”; “Biden, i tuoi immigrati uccidono gli americani per strada!”; “Biden, li fai arrivare direttamente dai manicomi, dalle carceri e li metti negli alberghi di lusso!”; “Biden, le tue tasse hanno aumentato il prezzo del bacon per rovinare la colazione degli americani!”. Gli credono quando li consola e quando li aizza. E persino quando asseconda le teorie cospirazioniste del suo braccio destro Steve Bannon (oggi detenuto) secondo il quale un gruppo di satanisti governa il mondo dai tempi dell’omicidio Kennedy, e trama contro il popolo americano. La storia di Donald Trump è pura realtà americana virata dalla fiction del suo protagonista. Nasce ricco nel Queens, anno 1946, villone stile Tudor, con il parco, le colonne bianche nel patio, la servitù rigorosamente nera. Viene addestrato alla prepotenza: il padre lo spedisce all’Accademia militare, avvertendolo che “il mondo è un posto feroce”. Lui memorizza. Cresce grande, grosso e duro. Se la cava nello sport, meno nello studio. A 24 anni passe le notti allo Studio 54 di New York, disprezza “i pacifisti rammolliti”, ma quando tocca a lui partire per il Vietnam si fa riformare. E mentre gli studenti manifestano contro il potere della grande finanza, lui comincia a scalarla. Siccome il padre costruiva case popolari, punta al lusso. In cima a tutto quello che costruisce - alberghi, palazzi, campi da golf - risplende il suo nome in effige. La sua filosofia è sbrigativa e portatile: l’America è il regno del business. Il business è il parco giochi dei maschi alfa che devono agguantare “il successo per le palle” e “le donne per la fica”. Leggere non serve. Picchiare gli avversari, sì. Lo ha imparato praticando il wrestling sui ring veri e lo ha insegnato nel reality “The Apprentice”, l’apprendista, dove maltrattava gli aspiranti manager (“Vattene, sei licenziato!”) trasmissione campione di ascolti per 14 anni. Come Ronald Reagan, un giorno del 2015, ha deciso di recitare anche lui la parte del politico dell’antipolitica. All’inizio i repubblicani non gli credono, lo chiamano “il candidato marginale”. Ma quando, tra i marmi rosa della Trump Tower, è apparso in cima al cielo luminoso della sua scala mobile, si sono dovuti ricredere. Il gioco di prestigio della sua propaganda lo ha trasformato da Tycoon a paladino dei losers, i perdenti, da re della finanza a fustigatore della “gentaglia di Wall Street”. È l’anti Obama, simbolo dell’America meticcia. È il combattente che oggi resiste alla ferita infliggendo quella mortale a Biden, “l’intruso”, “il traditore”, “il corrotto”. È il comandante in capo che promette: “Fermerò le guerre in 24 ore”. Che ci vuole? Gli crede più di mezza America. L’altra - che neanche crede alla casualità dell’attentato - trema.

Nessun commento:

Posta un commento