(…). Le prefazioni della SBE (“Silvio Berlusconi editore” n.d.r.) sono più avvincenti dei libri. Soprattutto quella firmata dallo stesso B. a una preziosa edizione numerata dell’Utopia di Tommaso Moro. Un giorno del 1985 il massimo esperto italiano dell’autore, Luigi Firpo, vide su Canale 5 una signorina intervistare il padrone di casa: “Lei ha pubblicato la traduzione dal latino dell’Utopia con una sua bellissima prefazione…”. Di cui declamò alcuni brani, casualmente identici a quelli scritti da Firpo per introdurre la sua traduzione all’Utopia, appena edita da Guida. L’austero intellettuale torinese – racconta la moglie Laura – si procurò il libro e scoprì che B. non aveva solo copiato interi paragrafi della sua prefazione, ma anche la sua traduzione integrale. Così gli scrisse per intimargli di ritirare tutte le copie e annunciargli querela per plagio. B., terrorizzato, iniziò a tempestarlo di telefonate, spiegando che aveva fatto tutto una segretaria a sua insaputa e implorandolo di lasciar perdere. Capito il personaggio, Firpo iniziò a giocare al gatto col topo per un annetto. Canale 5 lo invitò a un dibattito e B. spuntò da dietro le quinte dello studio porgendogli una busta “per il suo disturbo e l’onore che ci fa”. Il prof la rifiutò. A Natale del 1986 un corriere da Segrate recapitò a casa Firpo un bouquet di orchidee che non entrava dalla porta e un pacco con una valigetta in coccodrillo cifrata LF in oro e un biglietto: “Molti cordiali auguri ed a presto… Spero! Per carità non mi rovini!!! Silvio Berlusconi”. Ma Firpo continuò il suo perfido gioco e rispedì la borsa al mittente con un biglietto beffardo: “Gentile dottore, la ringrazio della sua generosità, ma sono un vecchio professore affezionato alla sua borsa sdrucita. Quanto ai fiori, la prego di non inviarcene più: per me e per mia moglie, i fiori tagliati sono organi sessuali recisi”. Non lo sentì mai più. (Tratto da “Premio Bancarotta” di Marco Travaglio pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 26 di giugno 2024).
«L’uomo che spaccò l’Italia diventa “padre della patria”. Per la destra nazione è fazione», testo di Michele Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di luglio 2024: (…). … “patriottismo”, qui e ora, significa precisamente il contrario. Significa costruire una nuova identità nazionale escludente, che considera intrusi, o disfattisti, o antipatriottici (appunto) gli italiani non di destra. Definizione molto vaga e anche impropria, ma è per capirsi. La beatificazione di Berlusconi è parte integrante di questo progetto. È la consacrazione a Padre della Patria del Padre della Destra. È la fazione che si autoproclama Nazione, un banale cambio di consonante, dopotutto. Non ripeteremo, per quanto è ormai stucchevole, la geremiade di rimostranze che non solamente questo vecchio quotidiano, ma una buona metà del Paese – non dunque una trincea di irriducibili – ha mosso, nei decenni, a Silvio Berlusconi. Tentiamo così il riassunto: i guai giudiziari, per puro sfinimento, possono anche passare in prescrizione, non senza che si mantenga acceso, e lampeggiante, almeno un asterisco che ricordi la corruzione di un magistrato. Ma la spaccatura del Paese in due tronconi sempre meno ricucibili, divisi su quasi tutto, a partire dalla sua persona ben prima che da contrapposizioni ideologiche, quella non potrà mai essere dimenticata. L’uomo che scese in campo “per impedire ai comunisti di governare”, avendo i comunisti governato praticamente mai, e al contrario avendo quasi sempre governato i suoi amici e i partiti votati da lui e dai suoi elettori, sembrò da subito il lupo che accusava l’agnello di intorbidargli l’acqua, e guastargli gli affari. Non uno solo dei suoi comportamenti pubblici e privati si ispirarono al concetto di limite, che del Dna della democrazia è forse il tratto determinante. Nessuno spirito di servizio, nessuna umiltà civile nel suo leaderismo, solo la vanteria del riccone che insegna al mondo come si fa. Non un suo solo gesto internazionale, o parola spesa, consentì anche ai suoi oppositori di dire: però, almeno questo possiamo farlo nostro. Almeno questo, appartiene anche a me. E vale aggiungere, a imperitura memoria, che non solamente l’ostilità politica, ma anche un vivo senso di imbarazzo, di avvilimento, di vergogna ha funestato per lunghi anni i pensieri della famosa “altra metà”. Un vero e proprio patimento personale, moltiplicabile per milioni di persone. Il cui solo torto fu, ed è ancora, se non di resistere, di esistere. Ovviamente, sono capitate e capiteranno cose ben peggiori, dispute ben più laceranti che intitolare un aeroporto all’uomo che spaccò in due l’Italia. (…). Ma anche il nome di un aeroporto può dire della determinazione di un governo non a governare, ma ad aggravare, se non a manomettere, le condizioni di una convivenza fin qui difficile ma tutto sommato decente (tranne negli anni orrendi del tritolo e del piombo). Comunque Malpensa, per i milanesi, è l’aeroporto di Varese, se non di Sesto Calende, trasformato soprattutto per volontà leghista, e con ottime ragioni clientelari, in uno scalo internazionale sempre meno gradito – nonché assai meno raggiungibile – della beneamata Linate. Questo lede almeno in parte lo spirito offeso dei tantissimi milanesi non di destra: in fondo è stata espugnata solo una landa prealpina, è solo l’ennesima pagina del conflitto città/campagna. Inespugnabile da questa destra, Milano potrebbe insorgere solo il giorno che Linate, il suo vero aeroporto, fosse intitolato a Umberto Bossi.
Nessun commento:
Posta un commento