(…). È ancora comunista? Che cosa significa essere comunista? «Certo. Sono ancora comunista per una ragione, penso che le rivoluzioni fatte fino ad ora non hanno realizzato quello che si poteva volere. La rivoluzione francese ha dato certamente libertà, ma nessuna uguaglianza; la rivoluzione sovietica per dare l'uguaglianza ha tolto la libertà. E allora? Vogliamo rinunciare? Io credo che valga la pena continuare a porsi l'obiettivo di costruire una società in cui ci siano libertà e uguaglianza e quindi essere comunisti, lo ripeto sempre, significa continuare a provarci invece di mettere la testa dentro un buco in terra e dire non si può fare niente».
(…). …racconta delle sue partite a tennis con Anna Maria Mussolini, quintogenita del duce. Come si diventa Luciana Castellina da quel campo da tennis in poi? «Anna Maria Mussolini mi ha insegnato molte cose, sembra strano ma è così. Sono stata sua compagna di classe alle elementari e alle medie. Erano gli anni in cui è scoppiata la guerra, e proprio per questo alla fine delle lezioni ascoltavamo il bollettino alla radio, tutti in piedi. Anna Maria era molto simpatica, spigliata e spregiudicata, ascoltava e poi ripeteva: "Papà dice sempre che il re è un cretino". Dava giudizi totalmente - diciamolo - illegali, e questo mi ha fatto capire che sulle stesse cose si potevano avere pareri diversi: è il principio del dibattito politico, è ciò che rende la politica una cosa viva, no?».
E il tennis? «Con tutta la classe andavamo a giocare a Villa Torlonia. Casualmente, nell'estate del '43, ci siamo trovate in vacanza a Riccione. Un giorno, sarà stato il 24 o 25 di luglio, arrivarono le guardie del corpo - i figli di Mussolini non avevano governanti, avevano poliziotti, - e interruppero la partita: Anna Maria doveva assolutamente partire. Né io né lei abbiamo capito perché. Poi, quella sera alla radio abbiamo saputo che avevano arrestato Mussolini dopo la riunione del Gran Consiglio».
E lei che ha fatto? «La mattina dopo presi la bicicletta e corsi al centro di Riccione, c'era un assalto alla Casa del Fascio, non era una sinistra organizzata, erano moti antifascisti naturali, cercavano di togliere le insegne, ma poi arrivò la polizia perché l'editto di Badoglio vietava ogni manifestazione. Tornai a casa, recuperai un quaderno - era difficile a quell'epoca - e iniziai quello che ora posso definire il mio diario politico. La prima riga: "Oggi è caduto il fascismo". La sera, al ristorante, ci hanno servito tagliatelle in bianco e la cameriera ha detto "Oggi festeggiamo": quel colore è stato per me il passaggio all'antifascismo».
L'ha più rincontrata? «Anni dopo a casa di una nostra compagna, la madre era fascista e infatti era stata anche nel campo di Coltano. Ridendo mi ha detto: "Papà lo ha sempre detto che il re era un cretino". Ho capito che questa era l'idea che le era rimasta impressa».
Ha mai pensato che quella partita di tennis somigliava a quelle ne Il giardino dei Finzi-Contini, che quella rete segnasse un discrimine tra due parti opposte della storia? «Non so mica se ero dalla parte opposta della storia, non capivo niente, era il '43, non era ancora cominciata la Resistenza, a casa mia erano lievemente antifascisti, nel senso che arrivavano i libri proibiti da Parigi e si raccontavano le barzellette, un pezzo della mia famiglia era ebreo, ma non posso dire che al tempo avessi capito la portata delle leggi razziali. Certo, mi ricordo di mia madre preoccupata perché, a differenza sua, la sorella aveva sposato un ebreo. Poi, dopo il '43 tutto si è fatto più chiaro, anzi, più livido. In casa mia erano nascoste due zie triestine e due cugini ebrei, e anche loro non avevano la consapevolezza di cosa stesse succedendo. Solo quando Roma è stata liberata abbiamo cominciato a capire».
Le zie triestine? «Sì, e in effetti io sono diventata comunista per via di Trieste. Il 4 maggio, nove giorni dopo il 25 Aprile, era stata indetta una manifestazione di tutti gli studenti delle scuole di Roma per Trieste italiana e io ovviamente ero andata. Piazza Esedra era piena di operai comunisti che giustamente ci picchiarono di santa ragione perché noi non lo sapevamo ma la manifestazione era stata organizzata da un gruppo neo-fascista che, nel corso del 1944, si era formato dietro a un certo capitano Pennabianca che, insieme ai suoi, diede l'assalto alla sede del Partito comunista che stava all'angolo di Via Nazionale. Botte da orbi da una parte e dall'altra, mi ruppero l'asta di una bandiera sulla spalla, ore di trambusto fino a che dalla sede del Partito comunista non uscì un triestino, Iacchia, e fece un comizio volante, raccontando quello che noi italiani, fascisti, avevamo fatto dal 1921 al 1923 agli sloveni: esattamente la pulizia etnica che stanno subendo i palestinesi e che allora non conoscevamo. Il giorno dopo, tornata nella mia scuola, il liceo Tasso, andai a cercare i comunisti».
E chi erano? «Il primo che ho incontrato è stato Citto Maselli, aveva messo su un circolo culturale, cercò subito di reclutarmi. Visto che volevo diventare pittore, la prima cosa che ho fatto per il Partito comunista è stata una conferenza sul cubismo. Ero terrorizzata perché i ragazzini comunisti erano tutti molto più colti, io ero una bestia non sapevo niente, non capivo niente. Ricordo la preparazione di questa conferenza come la cosa più impegnativa della mia vita. Mi hanno reso alfabeta, nel senso che mi hanno aperto il cervello: Roma non era solo il quartiere Parioli, dove vivevo, ma la periferia, che era stata bombardata. Era successa l'ira di Dio in un'epoca in cui io c'ero, ma non avevo visto niente. È stato un processo di coinvolgimento profondo, mi sono sentita un'imbecille, mi sono sentita in colpa per aver vissuto fuori dal dramma della mia città».
Cosa pensa quando sente parlare di fascismo e antifascismo? «Non mi piace il modo in cui si parla del fascismo oggi perché rischia di diventare una copertura pericolosa. Nella sostanza, se vogliamo dirla brutalmente, la Meloni fa esattamente la politica di Draghi: pro Nato, pro armi, pro guerra, una politica economica uguale, in più una dipendenza dal peggio dell'Europa. Poi, certo, ha un gruppo di ministri imbecilli intorno a sé che servono per il suo elettorato, sono folclore. L'attacco al fascismo nasconde questa similitudine delle politiche, preferirei che gli attacchi si facessero nel merito della politica, ma significherebbe farsi un'autocritica profonda che, infatti, non viene fatta. Certo che bisogna combattere contro il fascismo, per carità di Dio, in tutti i modi possibili e immaginabili, però non fino al punto di farne una copertura per evitare l'autocritica».
Perché voleva fare il pittore? «Intanto perché ero brava, lo facevo seriamente, prendevo lezioni eccetera, poi perché il mio nonno ebreo, ma molto filo-italiano, era pittore. La mia ammirazione per il nonno è stata infinita, compagno di armi di Oberdan, coraggioso. Mia nonna era figlia di una famiglia di agrari di Tarquinia, 10 fratelli orfani affidati a due zii arcipreti. Quando disse di volerlo sposare, gli zii glielo proibirono: era ebreo. Nonno per disperazione partì per l'Argentina e la nonna rifiutò di sposare altri. Dopo 8 anni, lei incontrò a Roma un amico di lui, l'avvocato Barzilai, e gli chiese che fine avesse fatto Adolfo. Le rispose che era a Buenos Aires e la pensava sempre. Gli scrisse e lui le risponde: "Ti aspetto", così nonna trovò il coraggio di imbarcarsi da sola su un bastimento, da Genova, senza sapere cosa avrebbe trovato. Durante il viaggio fu invitata al tavolo del comandante, vide dei quadri alle pareti e chiese di chi fossero. Il comandante rispose: "Del mio grande amico Adolfo Liebman". Arrivati a Buenos Aires, il capitano li ha sposati sulla nave. È stata una grandissima storia d'amore, il nonno è stato un eroe della mia immaginazione».
Le sue grandissime storie d'amore? «Sono state svariate. Prima mi sono sposata con un uomo a cui ho voluto molto bene perché era intelligente e un bravo comunista. All'inizio, molto diffidente, perché io appartenevo alla Federazione romana, che era un po' plebea e diffidente verso gli intellettuali. I giornalisti de L'Unità si consideravano la Marina del partito, noi la fanteria, quindi c'è voluto un po'. Come sappiamo l'amore non dura tutta la vita e quindi sì, abbiamo fatto due figli belli bravi buoni e ci siamo separati. Non mi sono mai risposata, cosa di cui resto soddisfatta non fosse altro perché la sera se voglio tenere la finestra aperta lo faccio e se domani voglio partire per l'Himalaya, vado. Però nella vita ho avuto molti fidanzati».
Luciana Castellina, femminista? «Il nostro rapporto col femminismo è stato complesso. Molte di noi rifiutavano di andare nelle cellule femminili perché era un po' come dichiarare di essere un'altra cosa. Eri un po' meno degli uomini. Essere donna significava essere un po' meno degli uomini. Avrei fatto di tutto per non far capire che ero donna, mi sarei tagliata le tette pur di non far vedere che ero una donna. Ho diretto la sezione universitaria giovanile, e poi la rivista: essere diretti da una donna, per di più con le gambe dritte, per gli uomini era peggio. Ci ho messo moltissimo a capire che diventare come gli uomini non era un obiettivo interessante: il problema non era diventare come loro, ma far valere la nostra differenza. La frase di Simone de Beauvoir è ancora una grande verità: "Le donne non sanno che cosa vuol dire essere donna". Siamo state colonizzate dallo sguardo degli uomini, ci hanno cucito addosso un'identità che non è la nostra, dalla Costituzione meravigliosa che abbiamo a qualsiasi regolamento comunale tutto è fatto avendo in testa un essere neutro. Ma poiché bambini neutri non ne nascono, il neutro è stato disegnato sull'identità maschile e questa identità è stata cucita anche addosso a noi. Io non capivo cos'erano questi famosi gruppi di autocoscienza. Le donne nei partiti di sinistra, da Lotta continua a il manifesto, si riunivano da sole per parlare. Non ho capito per molto tempo e poi sì. Le donne avevano bisogno di fare un'inchiesta su se stesse per capire che cosa erano».
Differenza di genere sì o no? «Io non considero irrilevante la differenza sessuale, come il femminismo di oggi, mi pare una posizione balorda e penso che il problema sia serio: bisogna denunciare l'imbroglio del neutro e quindi l'imbroglio di tutte le leggi, le regole, le abitudini, i costumi del sistema esistente perché sono tutte fatte sulla base di un personaggio che si spaccia per neutro ma che in realtà è un maschio, punto e basta. Altrimenti significa che ti adatti. Mi è venuta quasi la nostalgia dell'Udi (Unione Donne in Italia, ndr) che si batteva per gli asili nido. E infatti il 95% degli uomini manager hanno figli, mentre solo il 30% delle donne manager hanno figli. Le donne devono avere il diritto di farli o di non farli, e quelle che li fanno devono avere il diritto di vivere in una società che si strutturi in modo da rendere questa cosa possibile. Io odio le quote rosa: simbolicamente è positivo parlarne, ma è anche molto fuorviante, non vorrei ci si fermasse lì». Prima citava Simone de Beauvoir, come sono arrivati lei e Sartre nel comunismo italiano? «Jean-Paul Sartre era curioso dell'Italia, era in pessimi rapporti col suo partito e quindi ha cominciato a frequentare molto Rossanda e Togliatti. Quando c'è stata la rottura de il manifesto, Sartre ha pubblicato su Les Temps Modernes molti articoli, uno mio lunghissimo sulla Fiat».
Togliatti parlava francese? «Certo, come tutti gli esuli. L'inglese è un'invenzione successiva alla Seconda guerra mondiale. Si studiava il francese, la cultura francese, la pittura francese, ci abbiamo messo un bel pezzo per scoprire l'America».
E quando l'ha scoperta cosa è successo? «Abbiamo scoperto la modernità, però c'era la Guerra fredda e l'America è diventata subito un nemico».
Cosa direbbe a un ragazzo che oggi occupa l'università? Che copre di vernice un'opera d'arte? «Io gli porto solidarietà. Prima di tutto sono contenta che si occupino di un grande problema. Lo faranno in maniera rozza ma mi pare un segno di vitalità, interesse e coinvolgimento importantissimo, piuttosto che la fase in cui non si occupavano di niente. Non capisco perché non dovrei appoggiare chi protesta. Non ne condivido la forma perché non credo sia efficace, ma non penso che loro siano cattivi. Sono sotto l'influenza di una cultura tutta mediatica e dunque hanno qualche ragione. Se vogliamo gridare che la catastrofe energetica è grave e nessuno se ne occupa, bisogna gridarlo in modo che i media se ne occupino. Non c'è nulla di cui scandalizzarsi. Il mio punto di vista non sconfessa quello che stanno facendo e non giustifica le cariche della polizia. Cerco di fare di tutto per diffondere cultura, con la casa editrice della Cgil stiamo pubblicando un libro di Han Pappé per distribuirlo a due euro fuori dalle scuole perché conoscano meglio le vicende di Gaza».
Avrebbe mai preferito essere uomo? «Dirò la verità: francamente no. Trovo più interessante essere donna. Anche perché c'è una liberazione in corso. I maschi sono destinati a doversi ridimensionare e, poveretti, vanno pure aiutati perché credo passino una fase di grande turbamento psichico. Si piange perché ci sono i femminicidi, ma è evidente che tutte le donne che vengono ammazzate, vengono ammazzate perché volevano liberarsi. Gli uomini non reggono le donne che si ribellano. E come diceva Lenin non c'è rivoluzione senza spargimento di sangue, bisogna saperlo. Non è un pranzo di gala per noi. Anche gli uomini devono capire la loro differenza e ridimensionare il loro ruolo nel mondo. Non sono un nemico, sono uno sbaglio della storia».
Nessun commento:
Posta un commento