“Io, ossessionato dal signor B. il Faust italiano”, intervista di Antonio Gnoli a Filippo Ceccarelli pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di oggi, domenica 21 di luglio 2024: (…). Sei un uomo felice? «Preferisco la parola fortunato. Mi piace quello che faccio, non è poco». Ma non ti annoi ad assecondare tutti i giorni questa arte del ritaglio. «No, però a volte mi chiedo perché. Perché da più di trent'anni sono qui, che piova o ci sia il sole, a maneggiare i fogli dei giornali».
Ti sei dato una risposta? «Forse la paura che il passato svanisca, che non resti più niente. So che alla fine è così. Ma non me la sento di non tentare almeno una difesa. Documentare, dal mio punto di vista, cosa mi piacerebbe che venisse conservato. Nel bene e nel male. E poi c'è un altro motivo».
Quale? «Un motivo di ordine genetico. La mania di accumulazione documentaria l'ho ereditata da mio nonno Giuseppe».
Giuseppe Ceccarelli, in arte "Ceccarius". «Un uomo nato alla fine dell'Ottocento con un amore sconfinato per Roma, tanto che divenne oggetto dei suoi studi. Era un intellettuale e un giornalista. Amico di Trilussa. Lo ricordo ormai molto vecchio ancora dedito al suo archivio di ritagli. Ho preso tanto da lui. Anche una certa bonomia».
L'ho notato. I tuoi libri come i tuoi articoli non sprizzano cattiveria. «Ho imparato che ci sono poche cose al mondo che vale la pena sapere. Parlo di cose che servono a orientarmi. Una di queste è che ciò che ci accomuna sono le imperfezioni, gli errori che commettiamo. Allora che senso ha infierire?».
Meglio l'indulgenza. «Sono per giunta un credente».
Ma non un bacchettone. «Oddio, direi proprio di no»,
Hai scelto il sesso per raccontare il potere in Italia. «Cos'è questo Paese, se ci pensi bene? Sesso, cibo e spettacolo».
Ne hai fatto il filo rosso. «Fin dal 1994, un anno cruciale. Mi sono detto: è possibile lavorare su una materia storica così vischiosa e contraddittoria prescindendo dalle crude idealità del Novecento?».
Intendi destra e sinistra? «Provare a star fuori dallo spirito di parte e allo stesso tempo cercare di capire qual è la specialità di casa Italia».
Temo sia un menù molto ricco. «Ma riconducibile alle due grandi arti italiane: la commedia e il melodramma. Dopo averle affinate le abbiamo regalate al mondo».
Perché proprio qui, intendo da noi? «Bisogna entrare nei meandri dell'antropologia. Mi limito a segnalare un bellissimo libro di Barzini Jr. sugli italiani. Diceva che il nostro popolo scambia facilmente la realtà con la rappresentazione».
Amiamo il teatro. «Direi soprattutto l'opera lirica».
Dove ogni dramma è un falso. «Dove il vero non trova un fondamento. Abbiamo perso ogni capacità di dire la verità. Ridotto le nostre vite a un puro romanzo verbale».
In cima a questo romanzo, protagonista assoluto, si scorge il tuo B, Silvione come lo chiami familiarmente. «Berlusconi è interamente dentro il nostro immaginario. Ha occupato ogni spazio».
Gli hai dato più di 600 pagine, ha occupato anche la tua mente. «Ne sono stato ossessionato, me lo sognavo la notte. Mia madre era preoccupata che fossi troppo severo con lui. Sai qual è la verità?».
Dimmi. «Berlusconi è stato un dono per noi giornalisti. Capita si e no una volta ogni due o tre generazioni che si presenti un'occasione simile: poter raccontare di qualcuno che sale e si afferma, cade, rinasce e ricade e poi ancora di nuovo in sella e poi giù e ancora su. È una storia di potere unica. Perfino da morto è come se continuasse ad esercitare le sue prerogative».
L'ultimo round, poi i tempi supplementari. Sotto il segno della superstizione. «Era molto superstizioso. Tutto quello che Silvione ha cercato di fare in vita è provare a ingannare la morte».
Eros e Thanatos. «Combattere Thanatos con Eros».
Tu dici? «Puoi leggere la sfilza di "vergini" che sono passate dai suoi lettoni come un antidoto alla morte. Ma ti ricordi i compiacenti dottori che dicevano che sarebbe giunto alla sobria età di 120 anni?».
Vuoi che l'abbia dimenticato, per un attimo ho sperato… «Ha fatto scuola. Tutta l'erotica sociale ruota attorno all'idea di vitalità».
E B. voleva essere vitale. «Perfino da morto è entrato nella ristretta schiera di coloro che esercitano il potere sui vivi. La sua morte non è stata tragica come quella di Moro o epica come quella di Berlinguer. È stata pop. Che è un modo per non morire, rendendosi invincibili».
Non ne fai un personaggio un po' troppo simpatico? «Ci faceva ridere, dice mia moglie Elena. Entrava nelle case come un vecchio zio».
Più che un politico un parente. «Direi più che uno statista un politico imparentato ai desideri del presente».
Traduci. «Lo statista è il politico che si dedica all'etica del bene comune; Berlusconi ha sempre pensato in chiave di estetica del consumo. Non a caso veniva dal mondo della pubblicità, l'aveva studiata, amata, perfezionata. Ha imposto agli italiani l'ideologia del sogno».
Ha preteso di dargli la felicità. «Più che la felicità, nozione ambigua e piena di trappole, gli ha promesso il divertimento. Gli ha promesso il paese dei balocchi. Un'illusione fantasmagorica ma efficace. Non gli bastava aver inventato la televisione del divertimento e del consumo a oltranza, ha perfino comprato una squadra di calcio. E questo senza ancora scendere in politica».
Lo paragoni al Faust. Non è un po' troppo? «Ti sembrerà eccessivo e perfino improprio, ma nelle pagine di Goethe - senza impancarmi a critico - ho trovato numerose rispondenze. A cominciare dal mito dell'eterna giovinezza, riempito da avide cortigiane, congiure di palazzo, donne da sedurre, ruffiane e ruffiani da utilizzare, la goffa libidine esercitata nel nome dei piaceri della carne, le promesse mai mantenute, le lodi servili, lo spirito della menzogna e l'assoluta mancanza del senso della misura. Tutto questo fa di B. un modello che vedrà molti imitatori nel mondo».
Direi un romanzetto. «Con il Cavaliere vestito in Armani blu e Marta Fascina in bianco, entrambi a giurarsi fedeltà eterna davanti a una torta di tre piani. Che altro resta?».
Gli acciacchi, la decadenza, il corpo che lo abbandona, starei per dire lo tradisce suo malgrado. «Le terapie intensive e le pietose menzogne sul suo stato di salute finale, ormai gonfio e con lo sguardo vitreo è questo che resta, un'immagine tra il penoso e il commovente».
Torna la tua indulgenza. «Te l'ho detto sono un credente».
Cosa vuol dire per te? «Provare a riconoscere i limiti dei nostri giudizi. A quelli ci penserà la storia. Forse. Per quanto mi riguarda preferisco il buon uso della misericordia. Un al di là dove verremo giudicati con un occhio più benevolo di quello che noi stessi in questo viaggio terreno esercitiamo. Ti sembro rincoglionito?».
Niente affatto. Mi sembra che nel tuo racconto trovi posto anche la fede. «Non nel senso religioso. Non la mia fede contro la tua. Una fede temperata dal dubbio. Consapevole che siamo su questo mondo a vivere un'esperienza comune e ciò che abbiamo in comune sono soprattutto i fallimenti più che le riuscite. Anche questa consapevolezza la devo a mio nonno che molti, dopo la sua morte nel 1971, ricordarono come un uomo indulgente».
Anche tuo padre era dotato di questa virtù? «Ne era totalmente privo. Mio padre aveva lavorato a lungo nel cinema come direttore di produzione prima di entrare alla Finsider. Il cinema, con la sua eterna commedia, lo aveva forgiato. Non era abitato dai dubbi, né preda di tormenti. Quand'ero bambino capitava che mi portasse alla Stazione Termini. Pensavo che volesse farmi assistere alla partenza dei treni. Ma non gliene fregava niente di chi partiva o tornava. Gli interessavano le facce dei viaggiatori».
Cosa avevano di così speciale? «Mi diceva: scrutale bene Filippo e impara a capire quello che ti dicono e che loro non ti diranno mai. Tanto mio nonno era legato all'erudizione ottocentesca, all'idea di rileggere il passato con una certa comprensione quanto mio padre lo era alla vita, ai suoi risvolti beffardi e cinici».
Forse sono proprio questi risvolti che hai cercato di interpretare con una certa bonomia. «Non pensare che io sia un angelo, ho una bella riserva di malizia senza la quale non avrei potuto raccontare quel sistema di potere tutto italiano, diciamo tra Machiavelli e il conte Tacchia. (…). …ho raccontato il potere dell'opinione attraverso i social. Starei per dire un nuovo capitolo della storia italiana se non fosse che anche in questo caso siamo sempre agli elementi basici del gioco al massacro. E io mi sono immerso per mesi tra le cose peggiori che si possono trovare nel web, un mondo ai limiti del cannibalesco».
Hai scoperto il potere collettivo. «Ho scoperto la forza perversa dell'opinione. Anche estrema: i personaggi, le macchiette, i mostri. Ritrovando in questa mia esperienza modalità espressive che fanno parte della storia d'Italia».
C'è un dato che contraddistingue questa lunga storia? «Direi la convinzione diffusa che la catastrofe anche per oggi è rinviata. Perché alla fine siamo sempre gli stessi: perché gli stili sono sempre quelli. La commedia, il melodramma, il barocco».
Con i tuoi libri hai sempre in qualche modo raccontato il potere dal punto di vista della vanità più che dalla forza. «È molto consolante quello che dici. Sul terreno dei vizi, non so quanto capitali, la nostra generazione ha subìto soprattutto la vanità che come sai al massimo può farci ridere. Mentre la generazione dei nostri padri ha avuto dal potere le guerre, la fame, i genocidi. Noi abbiamo dovuto combattere con dei farfalloni, degli egocentrici volgari. Appartengo a una generazione risparmiata dagli eventi estremi. Ma non so quanto questo si è trasmesso anche alle nuove generazioni. Eviterei però di entrare nella spirale della divinazione a sfondo pessimistico».
Più che un cacciatore di notizie sei un cacciatore di comportamenti. «È un bel privilegio. Sai, a volte so di essere un orecchiante, uno che è come la carta assorbente, che prende tanto dal mondo ma non va mai veramente a fondo. Una volta qualcuno in redazione mi parlò di Leo Strauss e della scrittura che dissimula come difesa dal potere. Ecco, ho avuto la fortuna di non dover mai dissimulare, di poter scrivere tutto quello che ho voluto. Mi sono censurato? Magari mi sarà accaduto. Ma senza quelle piccole vigliaccherie volte al quieto vivere. E poi, di giudici supremi ne basta uno».
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