“Storiedell’Estate”. 2 “Si era presa una vacanza” di Gabriele Romagnoli pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 20 di luglio 2024: “Una madre non dovrebbe mai scappare di casa in estate". Questa affermazione perentoria viene da un amico, ex compagno di liceo. La cosa gli accadde a quel tempo e i segni rimasero per il resto della sua esistenza. Non smise di amare la madre, ma odiò l'estate. Per sempre. I genitori del mio compagno avevano un banco di frutta e verdura nel mercato centrale della città in cui abitavamo. Si trovava in un vicolo piuttosto stretto, incastonato tra le altre variopinte bancarelle che alzavano al cielo chiacchiere e odori. Ogni giorno, durante l'intervallo, estraeva un cestino di frutta con cui faceva merenda, offrendo a tutti quel che gli sarebbe avanzato. Spiegava che si trattava di esemplari "un po' in là", intendendo che erano assai maturi, quasi marci. A fornirglieli era il padre, molto attento all'economia domestica e non. La madre era più generosa e svagata e almeno una volta a settimana gli confezionava clandestinamente un panino contenete un lingotto di stracchino. Veniva lei ai ricevimenti dei professori e una volta, aspettando nell'atrio, la vidi: indossava un vestito primaverile con un disegno di ciliegie e teneva i capelli raccolti da un foulard che ospitava una macedonia. Sembrava allegra benché immersa in quel "mondo di frutta candita", come avrebbe cantato Gianni Morandi (che poi si sarebbe concesso pure "banane e lamponi"). La scuola stava finendo, sia io che il figlio dei fruttivendoli saremmo stati promossi, le vacanze erano alle porte. Sulla soglia, la madre del mio amico sparì. Avevano abbassato la serranda con il cartello "Chiuso per ferie" la sera prima. Al mattino padre e figlio trovarono tra le tazze della colazione regolarmente preparata un biglietto che annunciava soltanto: "Mi prendo una vacanza". Mancavano una valigia e alcuni suoi vestiti. Avevano prenotato un appartamento a Rimini, il padre decise che sarebbero comunque partiti, raccontando a tutti che la madre aveva avuto un lutto in famiglia ed era dovuta restare al paese suo, nell'Appennino. Cominciò un incubo. Il padre non sapeva cucinare, non l'aveva mai fatto. Rifiutava tuttavia di investire in ristoranti o pizzerie. Non sapeva neppure come affrontare la vita di spiaggia, si scottò la schiena al terzo giorno. Era disperato e non consentiva al mio amico di uscire. Restavano sull'altalena nella corte davanti a casa pregando, letteralmente, perché la madre tornasse. Non accadde. Lo fecero loro, tagliando le settimane di vacanza da tre a una. La città non migliorò le cose, di certo non l'umore del padre. Decise di riaprire bottega, facendosi aiutare dal figlio. La clientela scarseggiava, erano tutti in ferie. Curiosamente riaprì anche la macelleria di fronte, ma invece del macellaio c'era sua moglie, aiutata dal fratello minore. Giornate lunghe, affari magri. Gli occhi al telefono a muro che non squillava. Chiamare la polizia? Sarebbe stato un modo per innescare lo scandalo. Meglio aspettare e sperare. Al mio amico, che si era immaginato il debutto in discoteca, toccò maneggiare albicocche, vederle intenerirsi e marcire perché nessuno le comprava e finì per fame scorpacciate forzate. Era sempre merenda, come a scuola. Tanto valeva tornarci. L'estate sfiorì. Era andata così. Tornarono a casa una sera di fine agosto e ci trovarono la madre, perfettamente abbronzata. La valigia era aperta e vuota sul letto, la cena in tavola, come niente fosse accaduto. Si era presa una vacanza. Tutto lì. L'indomani riapparve anche il macellaio di fronte. Al mercato la vita riprese.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 25 luglio 2024
Piccolegrandistorie. 85 Ennio Flaiano: «Non c'è che una stagione: l'estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L'autunno la ricorda, l'inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla».
“Storiedell’Estate”. 1 “L’estate non esiste”
di Malcom Pagani pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica”
del 13 di luglio 2024: Sono tornati i venditori d'anguria, le code in
autostrada, i notiziari sull'allarme climatico.
Sono tornati i soliti consigli alimentari, le città vuote nei fine
settimana, le distese di sabbia con i bagnini vestiti di rosso. Sono tornati
gli incendi e le domande. L'estate infiamma la propria indefinibilità e sfugge
dalle dita come un ricordo in controluce. L'estate non si fa afferrare perché
in realtà non esiste. L'estate è un'astrazione che ci illudiamo di controllare.
L'estate è sudore, ghiaccio e docce. L'estate è acqua che scorre senza generare
un fiume. L'estate è silenzio, cicale e istinto in lotta con la pigrizia. I
finestrini delle macchine sono chiusi, i movimenti appaiono più lenti, la notte
sostituisce il giorno e l'orologio smarrisce qualsiasi importanza. Da bambini
trionfava l'abitudine. Ci preparavamo a non vedere più la nostra stanza per mesi,
inseguiti dalle raccomandazioni dei parenti: «Ti sei ricordato Molly?». Non
sapevamo ancora si chiamasse oggetto transizionale, ma senza saper dare un nome
alle parole qualcosa ci suggeriva che l'estate rappresentava comunque una
transizione. Saremmo cresciuti almeno un po' dopo aver rivisto i parenti
dimenticati, scovato grilli e serpenti, sperimentato che il sole può far male
fino a rendere impossibile il dormire. Avremmo cambiato volto, lineamenti,
pensieri. Ciò che era certo diventava ora incerto e gli amici incontrati giocando
a biglie o aspettando il nostro turno in una sala giochi erano facce che
avrebbero ballato, come in quel vecchio libro scandinavo, per una sola estate. Che
tempo era quel tempo? Ennio Flaiano, che al mare scriveva i suoi libri più
belli e i suoi film migliori concentrando il lavoro nelle ore in cui l'umanità
è dedita al riposo, teorizzava che nessun periodo dell'anno potesse azzardare
il paragone con la regina del quartetto: «Non c'è che una stagione: l'estate.
Tanto bella che le altre le girano attorno. L'autunno la ricorda, l'inverno la
invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla». Aveva
ragione, ma si era dimenticato di osservare che nessuna parentesi temporale
lascia la stessa scia di rimpianto dell'estate perché impegni e dovere si
annunciano con grande anticipo e macchiano la tela che dovremmo dipingere. È
una sensazione, il rimpianto, che da bambini si avverte con forza ancora maggiore
che da adulti. Non conosci il senso del limite e il limite ti viene imposto. Si
parte, si torna. Non decidi nulla. Sei un passeggero del viaggio, ma non hai
deciso la destinazione né i tempi del ritorno. Sai che a un certo punto un
temporale incresperà il cielo e sarà il momento di fare le valige. Tra i lampi
visivi della mia infanzia che non ho scordato ci sono le quattro lettere della
mia città impresse su un cartello stradale in bianco e blu. Attraverso i vetri
vedevamo il ritorno come Ulisse vede Itaca. Con lo stesso sentimento grato che
ci riporta alle certezze, il sottile dispiacere per bagni che di lì a qualche
mese avrebbero confinato il mare in una vasca e un vago senso di colpa per non
aver riempito neanche una pagina dei nostri quaderni. I compiti delle vacanze
erano il nostro unico impegno, ma a forza di rimandarlo con tutte le
giustificazioni di cui la fantasia può farsi scudo non restavano che pochi
giorni, a settembre, per non precipitare nel baratro. In tristezza, settembre
rivaleggia con gennaio. Tanto brevi le giornate del secondo, tanto rapida la
scomparsa del sogno nel primo dei due mesi. C'è ancora tempo per scacciare il
pensiero come si allontana una mosca che ti impedisce di prendere sonno. Non
siamo più bambini, ma sappiamo ancora aspettare. Le serrande si chiudono, sulla
casa si fa buio. Il cane ha capito tutto e ha abbassato la coda. Sente le
stagioni e se potesse, a Flaiano, abbaierebbe nemico.
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