“Carlo
Emilio Gadda, Calcio in costume”, inedito di prossima pubblicazione sulla
rivista del Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux riportato sul
settimanale “Robinson” - del quotidiano “la Repubblica” - del 30 di giugno 2024
con il titolo “L’ingegner Gadda va alla
partita”: Sul colletto di pizzo la rotonda e bonaria testa di Cosimo -
(bonaria è la
testa di bronzo,
lui lo era
forse un po'
meno) - sporge
tra i ferrotubi
delle impalcature a
guardare, come d'un
gigante che arrivi
all'altezza delle tribune:
da cui sono
occupati due lati e mezzo della piazza. La Loggia e il Palazzo Vecchio
son liberi. Arde, il Palazzo, per tutta la metà superiore, nella sera: danno
raggi a rimando, dalle bifore, i vetri del Comune, i più alti. Il faccione
color verderame del duca e granduca s'è piazzato tra i tifosi, nella massa
chiara scura della gente, tra le camicie enfiate e le gonne. Cappelli fatti col
giornale, sotto il sole, fazzoletti, zazzere, voci, limonate in ghiaccio.
Bandiere e damaschi rossi ai davanzali, tutt'attorno la piazza: sulla cui
porzione meno antica e meno illustre un Seicento un po' rattrappito sembrò aver
dimenticato la noia, la polvere, nel riverbero di afosi pomeriggi. La noia è
sparita, oggi: la gente sulle gradinate si stipa. Le finestrate di Palazzo sono
insignite di drappi: la torre, a strapiombo, è coronata di voli. Sul fastigio
della Loggia le bandiere quadre (le divise) dei quattro quartieri cioè rioni di
città: di cui due oggi si battono, con le rispettive squadre, al gioco del
calcio in costume: è «lo storico gioco del calcio fiorentino in livrea». Viene
fatto da due squadre, di ventisette giocatori per parte: «Cinque sconciatori,
sette datori (quattro innanzi e tre addietro) e quindici corridori divisi in
tre gruppi». Si battono qui, ora, in questa piazza occupata dalle impalcature a
ferrotubo, cariche di una scura folla a nervi tesi: tra lo sventolo di mille
fazzoletti, le vendite di diecimila gelati. Il Biancone - (così i fiorentini lo
sogliono chiamare il loro candido, marmoreo Nettuno) - risplende leggermente
pencolando nel sole, tra le naiadi e i satiri di bronzo, come un vecchio
facchino coi reumatismi: «Oh Ammannato», esclamò Michelangiolo al vederlo «che
bel marmo ha' tu sciupato!». I critici e gli esperti, invece, ne fanno gran
conto: dicono che è bellissimo: le ragazze, a chi gli racconta delle frottole,
gli dicono: «Sì, la mi saluti i' Biancone!». Ai due lati (la Loggia e quello
opposto) le due "reti" o "porte" del campo. La porta, in
realtà, è lunga quanto tutto il lato: è una rete tesa che finisce agli angoli,
provveduta d'un antistante corridoio-colabrodo, simile al corridoio delle arene
da corrida. Se la palla vi cade, in questo corridoio, il punto è segnato. Se la
palla scavalca invece la rete, allora è mezzo punto perduto. Nel regolamento
antico i punti, i mezzi punti, si chiamano "caccie", plurale di
caccia: ad ogni caccia fatta, cambia di colore la palla, prendendo il colore
del partito che ha segnato: davanti all'arco della Loggia, nel mezzo, una
bandiera quadra viene issata, a registrare il punto, come una scrittura di
credito in un mastro: fra le urla della gente, gli abbracci, i salti, i moti
browniani dei fazzoletti. Nei due lati-reti, (nel centro, di ognuno), due
garitte tassesche, quasi due tende della Gerusalemme Liberata, tutte bande di
colore: con la bandierulla in vetta, a strisce orizzontali essa pure nei
quattro colori dei quartieri: bianco è Santo Spirito, azzurro è Santa Croce,
verde è San Giovanni, rosso è Santa Maria Novella: uno dei cinque sconciatori
(portieri) vi è di guardia: l'asta in legno è color indaco, il pomo è dorato,
come nel campo di Goffredo di Buglione. Ecco, è l'entrata. Giù dal cielo, dall'azzurro,
una vibrazione profonda: la campana del Comune, dalla torre, con lenti,
dilatati rintocchi: vecchia nonna sull'altalena per tenere in allegrezza i
nipoti. Una trombettata dei trombetti, si potrebbe dire inattesa: crepitante,
quasi dispettosa: giovani galantemente vestiti, usciti a dameggiare, e sul più
bello mobilitati dalla Signoria, radunati per la parata del Comune: vestono,
crudeli, un robboncello damascato, hanno una piuma bianca nel tocchetto nero,
calze di colore disgiunto attillate, una bianca una nera. Ecco il Mazziere, che
ha spada al fianco, oltreché la mazza, dal cospicuo pomo d'argento: ecco i
famigli del Comune (vigili urbani, diremmo) in calze rosse e scarlatte. La
piazza, vuota poco fa, tutta sabbia, cede ora ai colori, si colma a poco a poco
di colore: bleu, rossi, viola, gialli, azzurri: l'indaco, la fastosa porpora,
il verde. Il marchese Pucci a cavallo: non riesco a indovinare se è il Capitano
di Guardia e del Contado, oppure il Generale delle Artiglierie. Le cariche,
cioè balie, della Signoria, cioè del Comune, si sommano in un vocabolario
stupendo, meravigliosamente fiorentino, assolutamente avulso dai secoli e
trasferito per meri elenchi, per mere nomenclature nel gioco. I sergenti degli
Otto di Balia, l'Araldo della Signoria, il Bandieraio dell'Araldo, il Maestro
di campo, i giudici (tre per ogni squadra combattente), i fanti di palazzo, il
general maggiore Sergente: tutti tutti mi sono innanzi, procedono
splendidamente vestiti nei lor colori, lungo il contorno del campo. Immerso nei
colori e nella coreografia, frastornato dai gridi, accecato dalla luce del
Palazzo, ho una tal confusione in testa che non intendo più nulla. Riesco solo
a capire, pervia del numero delle gambe, quali sono i fanti e quali i cavalli:
e che quelli là, colle calze gialle e viola e la penna verde, sono i tamburi: e
questi qua con le calze bianca e nera e la penna azzurra sono i pifferi, dato
lo strumento con cui hanno a che fare, che si annuncia da sé, senza bisogno di
spiegazioni. Ecco il Capitano delle bande a cavallo, e dopo di lui i Colonnelli
(comandanti di colonna) delle medesime: gli staffieri, i bombardieri, i fanti
d'ordinanza e finalmente la vitella: un vitellone bianco, grosso come un bove a
momenti, il garrese e tutta la groppa superbamente addobbato: è un gran drappo
di seta a frangia d'oro, come una coperta, inquartata nei quattro colori dei
quartieri, splendidi: rosso, azzurro, nero, bianco. Vivono i colori nella
festa. Maestoso e lento, intontito dalle trombettate, dalle grida, il mite e bianco
bestione procede a malincuore, assistito dai bovari che in panni
contadineschi-cinquecenteschi lo traggono a quella pompa di dubbio esito: «Non
si sa mai... come vanno a finire certe storie», ha l'aria di filosofare tra sé
e sé. Difatti, a storia perfetta, finirà arrosto nel banchetto dei giocatori e
assistenti. Per il momento procede nella festa. Le due corna d'oro sorreggono,
non si sa se ciuffo o ghirlande, tutti i fiori dei prati e dei giardini, le
dolci rose della primavera. «Salutate!» Il comando è propalato da un rullo di
tamburi. I colonnelli a cavallo salutano (sono signori fiorentini a cavallo)
torcendo il collo in una specie di attenti a dest e levandosi di capo, con un
enfatico gesto a semicerchio, il cappello tutto piume: fronte al Magistrato del
Comune, che siede in tribuna come in un pulvinare, ad accogliere il saluto e
l'omaggio. I fanti, nel campo, a colonne (cioè plotoni), danno in un attenti a
gambe larghe (come un numero di ginnastica da palestra), protesa l'alabarda in
avanti: è il vecchio saluto militare, delle vecchie "bande" e
milizie. L'Araldo scarlatto si rivolge al Magistrato, con un rotoletto che
dispiega, con una breve allocuzione: «Magnifico Messere!», odo: e non più. A
disciplinare il gioco in festa pubblica pare difatti che sia stato il Magnifico
Lorenzo in persona, nella primavera del 1469. Risulta da documenti pubblici che
il gioco fu tatto per la Prima volta in piazza Santo Spirito, poi in piazza
Santa Croce. A un comando del Maestro di campo, nuova tamturata: la piazza si
sgombra, in un baleno: azzurri e rossi ad assistere, bianchi e verdi cioè San
Giovanni e Santo Spirito (di qua e di là d'Arno) si dispongono al gioco. Il
gioco appare subito essere più un rugby che un calcio, nel senso attuale. Dopo
che la palla bianca ha battuto a terra una volta, frotte di uomini dai colori
avversi si lanciano su chi l'ha raccattata, lo stringono, lo schiacciano, lo
atterrano, in una mischia confusa. Gli avversari glie la vogliono portar via,
lui la vuol rilanciare per i suoi. I bei costumi quattrocenteschi vanno a
brani: dieci o quindici demoni nel miglior vigore degli anni sono gli uni sugli
altri a far groppo, a disputarsi la palla stritolandosi le costole. La palla è
colorata: bianca, poi verde, se i verdi hanno fatto punto. Raro il calcio: e
tuttavia qualche volta se ne può ammirare alcuno, di calcio: ma quasi sempre,
nel colmo della zuffa, la palla bianca (o la palla verde) spara via dalle due
mani del detentore momentaneo al disopra delle teste di quei che lo serrano e
avvinghiano: spara via dal più forte, dal più tenace, dal più destro. Robusti
trentenni, alcuni, paonazzi nel sudore e nella rabbia: degli energumeni. Altri,
ventenni, più celeri, più lesti. Gioco duro, pesante: urti e piena corsa,
vortici e avvinghiamenti massicci. Tutte quelle muscolature che un certo
momento sono in dispersione alla corsa, nel campo, tutt'a un tratto poi vengono
a coagularsi in un punto di esso, intorcolandosi a mulinello: si avviticchiano
e si strizzano sul detentore della palla come una tromba d'aria, come un panno
nelle mani d'una lavandaia. Un urlo, dalle tribune che il ferrotubo sostiene:
«Hanno vinto il campo» (Hanno segnato). Una bandieretta quadrata, ecco, sale,
col colore del punteggio, all'arco centrale della Loggia dei Lanzi. La gioia di
tutto il "quartiere" sembra accompagnarne l'ascesa, e l'esecrazione
muta di quegli altri. La rete è una specie di leccarda, è un corridoio lungo,
s'è detto, quanto tutto un lato del campo: (a metà lato, la garitta della
Gerusalemme con la bandierulla.) La palla colorata, bianca o verde, come una
pesante goccia di grasso, vi cade: e il punto è segnato. Cinque portieri, coi
guantoni, a difendere la lunga rete che non aspetta, ma teme. Rapide
distorsioni del gioco: cadute, corse (degli uomini), resurrezioni repentine,
groppi di corpi a terra nel campo, sdruccioli sulla sabbia d'oro, maglie a
pezzi dopo ogni corpo a corpo, giocatori svenuti, portati via con una costola
schiacciata. Uno, a terra, può tenersi la palla sotto: può covarsela, come un
leopardo la preda: o disputarla agi altri con zampate di pantera. Poi, tutt'a
un tratto, la palla si libera, vola via, bianca. Nuova sepoltura sotto un
cumulo di corpi. Il granduca tace, fuor dall'ingabbiatura di ferri: il suo
testone rotondo si direbbe d'un condannato alla berlina: ma no. È lo spettatore
dignitosissimo, al di là d'ogni mischia. La mischia, nel polverone, negli
indescrivibili colori, dà un'idea, quasi, delle antiche battaglie: al Monte
Aperto, ad Anghiari, a Foiano. Maglie a sbrèndoli, nel campo: e torno torno le
cancellate d'alabarde. Strascinato per i piedi come fosse il cadavere di
Ettore, il detentore della palla: strizzato, preso per il collo. Si sente
gridare Valmiro! Angelo! Dino! Sergio!: e tutti i Silvani di Santa Croce e
tutti i Walter di Porta a San Frediano alle dispute, nelle tumultuate tribune.
Nel tramonto caldo il Palagio (così lo chiamano ancora gli ortolani, i
tranvieri, il popolo). Si accende d'una luce dolomitica. Sopra le piombatoie,
sotto i merli di forma guelfa, le finestre dalla guardata romanica sono coi
davanzali neri, pieni di gente. Il grassone tutto sbrèndoli si arrabattava tra
la polvere: «Il bianco perde le cicce!» gridavano gli avversari indemoniati,
sudando con cagnazzi volti, nella crudeltà e nella gioia.
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