“La mia
patria si chiama letteratura”, testo inedito di Luis Sepulveda pubblicato
sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 7 di luglio 2024:
(…).
Sono uno scrittore latinoamericano, cioè un uomo del Sud, con caratteristiche
particolari, eppure c'è qualcosa che mi unisce ai miei colleghi di ogni
latitudine, ed è l'impossibilità di definire in poche parole che cosa significa
essere uno scrittore. Questa brama di affabulare, di nominare le cose come se
temessimo l'esaurirsi dei sostantivi, di conservare certi fatti come se fossimo
i sacerdoti della memoria, ci porta alla pratica di un mestiere antico quanto
l'uomo, perché nelle prime comunità umane esistevano già i raccontatori di
storie. Che mestiere strano il nostro! Quando, nel Cinquecento, gli spagnoli
arrivano in quella regione del mondo che si chiama Cile, hanno fra loro uno
scrittore, il poeta Alonso de Ercilla y Zùniga. Gli indios del Nord del Cile
avevano raccontatori di storie che tramandavano di generazione in generazione
la memoria sacra dei Diaguita e degli Atacameno. Dovevano ascoltare incantati
le storie narrate dai curacas, una specie di atleti narratori che giravano di
corsa regioni vaste come l'Europa raccontando i portenti e le tragedie del
sanguinario impero degli Inca, ma non avevano mai assistito al miracolo di custodire,
registrare, racchiudere la memoria in un pezzo di carta. Anche i Mapuche
avevano raccontatori di storie, ma di nuovo non conoscevano la scrittura. Non
deve quindi stupirci che vedessero in Ercilla una sorta di mago che possedeva
il segreto per custodire le parole, e anche per ordinarle in modo tale da
trasformarle in musica pura, la musica della poesia. «L'uomo che sa conservare
i sogni» così i Mapuche, chiamarono Ercilla e così lo ricordano ancora oggi.
Nessun altro conquistatore ha un posto nella loro memoria, eppure tuttora,
quasi cinquecento anni dopo, intorno al fuoco di una casa di Carahue o
Futaleufù, i vecchi Mapuche incaricati di tramandare la Storia ai più giovani
continuano a parlare con rispetto dell'uomo che sa conservare i sogni. Che strano
mestiere il nostro. Borges ha detto che non conosciamo le leggi del caso, e mi
fa piacere che sia una di queste inesplicabili casualità a portarmi in Olanda
per provare a parlare dello scrittore e dei suoi mondi, perché ho sempre
creduto che il nostro mestiere abbia molto a che vedere con il nastro di
Moebius disegnato da Escher. Nessuno può dire con certezza dove inizi o dove
finisca. Nel nastro di Moebius, le formiche a volte sembrano camminare sulla
parte superiore e a volte sembrano attaccate alla parte inferiore. Allo stesso
modo, lo scrittore a volte sembra muoversi in una determinata regione, città o
quartiere, ma poiché la letteratura si nutre delle passioni umane, gli sforzi
per trasferire sulla carta le forze propulsive di tutti gli uomini di tutti i
tempi fanno sì che lo scrittore si muova - anche senza averlo prestabilito - in
città o regioni che forse non ha mai visitato. (…). Racconta il tuo villaggio e
racconterai il mondo, diceva Tolstoj. Il grande scrittore slavo non è mai stato
a Leticia, città isolata nel cuore dell'Amazzonia, né a Maria Elena, paesino
perso nel deserto di Atacama, ma i lettori di queste due città riconoscono in
Tolstoj le stesse antiche domande sulla fragilità dell'esistenza e sulla natura
schiva della felicità a cui né gli slavi né noi abbiamo ancora trovato
risposta. L'odiosa ragione non riposa, e così dirà alla lettrice, al lettore
olandese, tedesco o bulgaro che la tormentosa attesa del personaggio di Nessuno
scrive al colonnello è una cosa che accade molto lontano, nel mondo personale
di Gabriel Garcia Màrquez, in territori bagnati dal fiume Magdalena, e che non
c'entra nulla con lei o con lui. Sono nato in un certo luogo del pianeta che si
chiama Cile, ma i miei lari sono la mia lingua. Il mio grande mondo è la mia
lingua. Il duro castigliano dei conquistatori si è mischiato con la dolcezza
dell' aymara e del tzotzil, con il rigore del quechua e la poesia del guarani,
con la precisione del mapuche e l'originalità del parriken, si è mischiato con
le novantanove lingue americane conosciute, e come se non fosse una sufficiente
fortuna, si è arricchita con le difficoltà fonetiche di italiani, ebrei,
bretoni, libanesi, gallesi, siriani, tedeschi, croati, cinesi giunti laggiù in
cerca di una sorte migliore, e queste difficoltà hanno generato nuove parole
che, nonostante l'orrore suscitato nella Real Academia de la Lengua Espanola,
noi latinoamericani abbiamo accolto con piacere nel nostro parlato e nella
nostra letteratura. Che bella la passeggiata di un ragazzino nel mondo della
mia lingua. A seconda di dove passa lo chiameranno pibe, guri, zipote, huambra,
chiporrito, escuincle, chavito. È un mondo vasto, senza frontiere, che ci
consente di capirci senza equivoci e allo stesso tempo ci permette di
conservare l'incalcolabile ricchezza delle nostre diversità culturali. La mia
lingua è l'unità delle differenze senza alcuna rinuncia alle particolarità.
Qualche anno fa ho cominciato un viaggio in America Latina, un viaggio che non
si ferma, che non può fermarsi, per conoscere il modo di parlare delle genti
della Terra del Fuoco e di Cartagena de Indias, di Santiago de Cuba e delle
isole Juan Fernàndez, di Lima e di San Salvador, di Puerto Orellana e di
Ushuaia. Mi sono riempito di parole e solo allora mi sono sentito in grado di
scrivere il mio primo romanzo. Un romanzo che parla di un angolo
dell'Amazzonia, del cuore verde del continente. E l'ho scritto servendomi di
parole ascoltate in tutti i paesi dell'America Latina. La mia lingua è un mondo
aperto, senza frontiere, ecco perché appare paradossale che in Europa,
traducendo le nostre opere, gli editori insistano odiosamente a precisare
«tradotto dallo spagnolo della Colombia, del Cile, dell'Argentina»; forse un
giorno impareranno che l'unica indicazione valida recita: «tradotto dallo
spagnolo dell'America Latina». Un altro mondo intimo e irrinunciabile è il
mondo delle letture che ci hanno formato, che ci hanno innegabilmente
influenzato. A volte ho sentito alcuni colleghi affermare che non hanno subito
alcuna influenza. Mi sono allontanato da loro con tristezza, compatendoli per
quella povertà. Io sbandiero con orgoglio i nomi degli autori che mi hanno
influenzato. Sono cresciuto leggendo Jules Verne, Emilio Salgari (la parte
finale del mio primo romanzo è un omaggio esplicito a Sandokan, la Tigre della
Malesia), Jack London, Robert Louis Stevenson (a quarantasei anni Long John
Silver continua a farmi visita in sogno), Francisco Coloane (dopo averlo letto,
ho cercato di imitarlo a tal punto da arruolarmi nell'equipaggio di una baleniera)
e Karl May. E ancora oggi continuano a influenzarmi. In seguito sono arrivato a
Hemingway, Dos Passos, Julio Cortàzar, Ring Lardner, Novalis, Holderlin, E.T.A.
Hofmann, Carlos Fuentes, Jorge Amado, Cla-rin, Pezoa Véliz, Chandler, Orwell,
Joyce, Borges, Cervantes, Cuìmaràes Rosa, Derek Walcott, Pepetela; come potete
vedere la mia formazione non è, per così dire, molto ortodossa. Oggi ho
l'immenso piacere di leggere i miei amici, che si chiamano Osvaldo Soriano,
Paul Auster, Mario Delgado Aparain, Jerome Charyn, Bruno Arpaia, Bernardo
Atxaga, Luìs Landero, Laura Esquivel, Pino Cacucci, William Ospina, Rolo Diez,
Myriam Laurini, e non solo sono influenzato da tutti loro ma ci influenziamo
reciprocamente. Il mondo delle letture che ci segnano è irrinunciabile e
inevitabile perché, come dice un vallenato che si canta sulle rive del fiume
César, in Colombia, «Non entri in acqua chi non vuol bagnarsi». Un altro mondo
degno di nota è quello che indica, se non un'idea di appartenenza a un
determinato posto, almeno un'affinità culturale nel senso più ampio del
termine, cosa che purtroppo tende a confondersi con la simpatia artistica. Da
mio nonno, illustre anarchico andaluso, ho imparato che uno è del luogo dove si
sente meglio, e questa grandissima verità applicata al mio essere scrittore mi
fa allontanare da tutto ciò che sa di patria. Credo che non ci sia parola più
oscena. Patria, deprecabili fonemi colpevoli di tante atrocità passate e
presenti. Nel corso della mia accidentata esistenza sono stato, e sono, latinoamericano
con tutte le varianti del caso, ma sono stato anche Shuar in Amazzonia e
allegramente apatride nell'immensità del mare. Sono stato un cittadino di
Amburgo e un abitante dell'isola di Lussinpiccolo. Beduino nella Repubblica
Democratica dei Sahrawi. E asturiano fra i miei amici di Gijon. Ho vissuto
intensamente in molti luoghi e ho potuto scrivere alcune storie che parlano di
loro e delle loro genti solo quando ho sentito che anche io ero di lì. Credo
quindi che un altro dei paesi dello scrittore sia quel mappamondo che porta
sulle spalle, non come la condanna del gigante Atlante, ma di buon grado. Quasi
in conclusione, voglio far riferimento anche al mondo più personale e intimo
dello scrittore, cioè al mondo della storia che sta scrivendo. Non potremo mai
spiegarci il momento esatto in cui, dopo la scintilla di riconoscimento fra lo
scrittore e la storia che gli toglie il sonno, un mondo sconosciuto ci apre le
sue porte e noi entriamo come gli esploratori nei libri della nostra infanzia.
In quel mondo si entra solo quando si comprende che non si è altro che un
cronista dei fatti, delle situazioni e della condotta dei personaggi. Uno non
crea una tempesta e nemmeno una forte mareggiata. Non fa tremare una valle, né
la nasconde sotto la bruma. È la storia che detta le sue leggi meteorologiche
aldilà del volere di chi firma il manoscritto, e i personaggi, con le loro
virtù e vigliaccherie, non obbediscono ai presupposti morali dell'autore ma si
muovono seguendo gli ordini impartiti dalle loro passioni, che lo scrittore
deve capire per poterle registrare e per poi far intendere al lettore quello
che i personaggi hanno già inteso. Il mondo della storia che stiamo scrivendo
ci appartiene quando la storia va avanti da sola, e da questo mondo per cui ci siamo
messi completamente in gioco non usciamo mai come siamo entrati. A volte lo
lasciamo oppressi dal peso di rivelazioni che avremmo preferito continuare a
ignorare. Mi domando come sia uscito Melville dal mondo di Billy Budd. Quanto
gli sia costato immergersi nella mediocrità puritana che lo aspettava dopo il
punto finale. Quanto abbia desiderato restare lassù, in cima all'albero di
mezzana, senza altra compagnia che il vento e il suono delle gabbie, mentre
sotto di lui gli uomini strisciavano pur di non guardare verso l'alto. Non
usciamo mai uguali da quel mondo, e a volte addirittura lo temiamo, ma qualcosa
ci chiama e ci riporta di nuovo lì. Allora impariamo a essere umili e ci
rendiamo conto che l'erudizione con cui stupiamo le persone nei salotti, la
prosa elegante che fa apprezzare le nostre lettere, l'agilità mentale che ci
fornisce le risposte più opportune, i trucchi drammaturgici che abbiamo
imparato strada facendo, la cultura che ci permette di risolvere ogni
cruciverba e la ricchezza della lingua in cui ci muoviamo non sono altro che
elementi funzionali alla storia che vogliamo raccontare, elementi al servizio
della storia che stiamo scrivendo. La storia comanda. Sono le sue regole a
dettare gli ordini e non c'è modo di imporre le nostre. Borges ha spiegato che
è una sciocchezza cercare le storie. Sono loro che ci trovano, ci seducono e ci
conducono nel loro
mondo. Il piacere
di scrivere consiste
nel lasciarsi condurre
dalla storia, non
come ciechi ma
con tutti i
sensi all'erta e
pronti all'uso. Per concludere
voglio fare riferimento
a certi mondi che lo scrittore
deve evitare come la peste. Uno è il mondo dell'arroganza, che ci invita a
riempire pagine e pagine senza aver nulla da raccontare. La descrizione dei grammi
di lanugine che si raccolgono nell'ombelico, per quanto brillantemente scritta,
può riuscire solo ad allontanare i lettori. Non dobbiamo lasciarci tentare
nemmeno dal mondo dei predicatori o dei falsi profeti. I nostri mondi di
finzione non vogliono essere un'alternativa alla realtà. Abbiamo il diritto di
alimentarci della realtà e il dovere di migliorarla, e soprattutto dobbiamo
considerare che non esiste il lettore incompetente o passivo. Lichtenstein ha
scritto che le peggiori bugie sono le verità leggermente deformate. Da parte
mia mi azzardo modestamente a suggerire che se lo sciroppo per la tosse ha un
cattivo sapore, va preso a occhi chiusi, ma non facciamo chiudere gli occhi al
lettore per infilargli di contrabbando in bocca le odiose cucchiaiate
dell'impegno. L'atteggiamento etico davanti alla vita è una questione personale
dello scrittore, che deve risolverla come membro della società nelle strade o
nel sindacato. Il mondo della finzione non può essere uno spazio per esercitare
un coraggio che non si ha nel mondo di tutti gli uomini, di tutti i giorni. E
soprattutto dobbiamo evitare il mondo del potere. La mia piccola esperienza di
uomo e di scrittore che ha conosciuto il carcere e l'esilio mi ha insegnato che
la parola scritta non conosce né sottomissione né conformismo. È possibile che
i nostri mondi siano diversi, che nei vostri giardini regni l'ordinato caos
della selva o l'ordine caotico dei labirinti, ma l'aroma dei fiori sarà sempre
l'aroma della libertà.
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