"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 29 luglio 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 93 Primo Levi: «Bisogna che il baricentro dell'ebraismo si rovesci, torni fuori d'Israele, torni fra noi ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani il filone ebraico della tolleranza».


(…). Chi intende denunciare il genocidio che Israele sta perpetrando, dovrebbe vedere in Anna Frank - come in tutte le altre vittime della Shoah - non certo un'avversaria, ma al contrario una potentissima alleata: che con la sua morte infinitamente ingiusta denuncia la criminosità non solo del nazismo, ma di ogni persecuzione collettiva contro un intero popolo. Se, invece, Anna Frank diventa un bersaglio è perché, in quanto ebrea, viene follemente ritenuta corresponsabile delle scelte criminali dello Stato di Israele. E così si varca il confine fatale che separa l'antisionismo (inteso come dura opposizione all'ultra-nazionalismo di Israele, al suo violento colonialismo espansivo) dall'antisemitismo (inteso come odio verso gli ebrei). È una linea attraversata sempre più spesso: da una parte perché l'antisemitismo (per secoli alimentato dalla Chiesa cattolica e dai poteri occidentali, e poi esploso con i fascismi) non è mai morto; dall'altra perché, specularmente, l'identificazione tra ebraismo e Israele è stata teorizzata e perseguita dalle politiche sempre più integraliste praticate in quello che si definisce appunto "Stato ebraico". Nel 1984, in una meravigliosa intervista a Gad Lerner, Primo Levi diceva che «bisogna che il baricentro dell'ebraismo si rovesci, torni fuori d'Israele, torni fra noi ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani il filone ebraico della tolleranza»: proprio questo rovesciamento sarebbe oggi il modo più efficace per togliere ogni alibi al recrudescente antisemitismo. Ma intendiamoci: se anche le comunità ebraiche di tutto il mondo si identificassero oggi perfettamente nello sterminio di Gaza (e non è affatto così: il mondo ebraico ribolle di radicali contestazioni a quello scempio), nemmeno questo giustificherebbe l'affronto a una ragazza uccisa perché ebrea, a sedici anni, nel 1945. Non si può invocare giustizia praticando "giustizia" sommaria contro la memoria delle vittime della Shoah; non si può chiedere di distinguere i civili palestinesi dai terroristi confondendo Benjamin Netanyahu con Anna Frank: perché non si può rivendicare umanità diventando disumani. (Tratto da “Nessuno tocchi Anna Frank” di Tomaso Montanari pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 26 di luglio 2024).

«Il secolo di Goti. “Io, mai uscita da Auschwitz”», testo della “memoria” di Marcello Pezzetti pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, 28 di luglio 2024: “Ogni volta che penso ai luoghi in cui ho vissuto, Berechovo, Fiume, L’Asmara, Milano, il primo posto che mi viene in mente è Auschwitz. È il posto in cui mi sento più a casa mia. Penso che la mia casa sia questa. Lì ho perso i miei genitori, mio fratello…”. Queste le parole di Agata (Goti) Herskovits Bauer, pronunciate in piena lucidità pochi giorni fa a Milano, a pochi giorni dal suo centesimo compleanno. Goti è una dei pochissimi sopravvissuti ad Auschwitz-Birkenau ad essere ancora con noi. Nasce il 29 luglio del 1924 a Berechovo, in Cecoslovacchia, al confine con l’Ungheria, ma quattro anni dopo la sua famiglia, composta da papà, mamma e un fratello minore, Tibor, si trasferisce a Fiume. La sua è una famiglia di ebrei osservanti e il padre, commerciante, per un periodo è anche Presidente della Comunità ebraica della città. Trascorre l’adolescenza con gioiosa serenità, contrassegnata da un brillante percorso scolastico, fino alla tragica promulgazione delle leggi antiebraiche. Il padre perde il lavoro, lei e il fratello devono studiare privatamente, in casa o presso conoscenti, ma cercano di aiutare i genitori lavorando: Tibor lavora come orologiaio e Goti, per arrivare alla maturità del liceo scientifico, dà lezioni private a ragazzi più giovani: “Una grande lezione di vita che, giovanissima, ho ricevuto”. Ancor oggi ritorna spesso a questo periodo della sua vita, riflettendo sulle reazioni duplici e contrastanti, da parte della società “civile”, alle ingiustizie, ieri come oggi. Lei racconta di aver ricevuto una telefonata, alcuni anni fa a Milano, dalla sua vecchia compagna di banco a Fiume, di cui non aveva più notizie: “Non speravo più di risentirti… t’ho pensato tanto nella vita”. Ma Goti, rimanendo di ghiaccio, perdendo la sua naturale dolcezza: “Ma com’è possibile che tu mi dica questo! Io di quel periodo ho un ricordo molto sofferto, l’ho vissuto con grande dolore perché voi compagni, tu soprattutto, non mi avete nemmeno più salutato”. E la compagna: “Ma come, se ho sofferto tanto quando ci siamo dovute separare…”. Goti non l’ha più rivista, anche se, nonostante il male ricevuto, non ama mantenere rancori: “Non l’ho mai fatto nella vita, non mi appartiene. E poi è così difficile giudicare il comportamento”. Mai una punta d’odio, ma nemmeno di naturale e legittimo risentimento. Fino a tutto il 1943 per gli ebrei sono anni di “stato cronico di preoccupazione, di ansia, di disperazione, di vendita a valori ridicoli di beni preziosi per cercare una via di fuga, di vigliacco sciacallaggio collettivo”. Ora, proprio quando sembra che non ci sia più via d’uscita, ecco che agli Herskovits arriva in soccorso una famiglia di meravigliosi vicini di casa, la famiglia Braida, oggi residente a Gorizia, che propongono questa soluzione: “Voi non dovete assolutamente rischiare la vostra vita qui. Vi diamo noi l’oro per poter andare via”. E questo è un avvenimento che mostra a Goti il lato migliore dell’uomo: “È stata una cosa di cui, finché vivrò, conserverò un ricordo molto, molto dolce”. Agli inizi del 1944, la situazione in casa diventa insostenibile quando il padre si ammala ed è costretto a rimanere a letto; a questo punto Goti prende una decisione coraggiosa, se non incosciente: cerca una via di scampo lontano da Fiume, a Viserba, vicino a Rimini, dove gira voce che un impiegato comunale fornisce, dietro un rilevante compenso, documenti falsi. L’operazione riesce e, di ritorno a casa, non trova più i famigliari, che si sono rifugiati in una stanza di un alberghetto a Trieste, con il padre a letto assistito dal figlio, perché è giunta notizia che a Fiume i tedeschi in quei giorni avrebbero arrestato ebrei nei pressi di via Goldoni, proprio quella dell’abitazione degli Herskovits. A questo punto è chiaro che bisogna abbandonare l’intero territorio del Litorale Adriatico, ma mancano i soldi per farlo. L’unica salvezza può venire da beni nascosti a casa dei Braida. Pur essendo estremamente pericoloso, Goti arriva fino all’abitazione degli amici, vede casa sua con i sigilli, dunque già “visitata” dalle SS, prende le cose più preziose, oltre ad altri beni donati dalla signora Braida, quindi ritorna a Trieste. Goti non è più la timida e ingenua ragazzina del periodo delle Leggi, ma è diventata una giovane donna coraggiosa, determinata, animata da incoscienza resistenziale. Il padre viene ricoverato a Trieste dal Professor Ravasini, altro personaggio perbene, mentre il resto della famiglia si rifugia a Viserba, anche se Goti periodicamente continua a raggiungere Trieste per visitare il padre. Un giorno, tuttavia, anche Ravasini non è più in grado di nascondere il suo paziente, che viene portato con grande fatica da Goti a Viserba. Lì si rendono conto, però, di correre gli stessi pericoli che in Friuli, perché l’impiegato comunale che ha procurato loro i documenti falsi, per avidità ne ha realizzati troppi e la notizia è diventata di pubblico dominio. Una soluzione che sembra definitiva sembra essere quella che porta all’organizzazione del Cardinal Schuster, a Milano. Con altre famiglie di ebrei fiumani, sono indirizzati a una drogheria in via Lulli, e accolti dai coniugi Cucchi. “Questa coppia provvedeva a trasferire gli ebrei al di là del confine svizzero per una cifra molto alta a testa che ti dissanguava (sembra almeno ventimila lire). E noi eravamo molto tranquilli perché loro dimostravano che ogni giorno portavano un gruppo che attestava di essere arrivato in salvo con la restituzione di una mezza figurina che era stata data alla partenza, in modo che questa mezza figurina combaciasse con un’altra mezza che loro si erano trattenuti qui per dimostrare al gruppo del giorno dopo che tutto era andato a buon fine”. Una sera il gruppo, di circa 12-15 persone, viene accompagnato a prendere il treno per Varese e consegnato a delle “guide”, due fratelli e un cugino. Tibor e il padre partono subito, Goti e la mamma il giorno dopo. “Le guide, questi mascalzoni, erano estremamente gentili e servizievoli. Davano la mano a chi era più in difficoltà per aiutarli. E continuavano a dire: “Ancora un piccolo sforzo che siete arrivati al sicuro”. Uno di questi mi ha detto: “E lei cosa direbbe se io fossi una spia dei tedeschi?” Così, in tono scherzoso, e ci abbiamo fatto su anche una risata”. Poi questi dicono in tono serio: “Avete da fare solo due passi, quel ponticello sul fiume, e siete in Svizzera. Noi di là non ci possiamo andare, per cui ci salutiamo qua. Dateci la mezza figurina che noi ce ne torniamo a casa. Vi auguriamo buona fortuna”. “Tutto nella maniera più tranquilla, più amichevole possibile. Si giravano e, una volta andati, emettevano un fischio; alla nostra destra si accendevano le luci di una casermetta, uscivano i finanzieri, al comando del maresciallo Vincenzo Rossi, e ci davano l’altolà. Eravamo a Cremenaga, nella notte tra l’1 e il 2 di maggio”. Poi, a Pontetresa, sono consegnati ai tedeschi, trasferiti nel carcere di Como, quindi in quello di Varese; in questo trasporto Goti e la mamma incontrano papà e Tibor, che ci si illudeva fossero al sicuro in Svizzera. Si rendono conto di essere stati selvaggiamente venduti (in un processo-farsa che ha luogo nel 1947, quei “mascalzoni” vengono tutti assolti). Infine, su un camion sono trasportati nel carcere milanese di San Vittore e alcuni giorni dopo sono inviati nel campo di transito di Fossoli, dove rimangono pochissimo, perché il 16 di maggio sono caricati su un treno per Auschwitz. “Di quel viaggio io ho il preminente ricordo del desiderio di tenerezza che c’era tra tutti noi. Questi genitori nei confronti dei figli; questi figli, che magari a casa erano stati discoli, che cercavano in tutte le maniere di rasserenare i genitori, di consolarli. Noi giovani ci chiedevamo se mai più saremmo più tornati... e di quel vagone sono tornati molto pochi”. Goti, non si fa molte illusioni, e questa sua preventiva diffidenza, caratteristica che non ha perso nemmeno oggi, l’avrebbe aiutata a sopravvivere. All’arrivo a Birkenau, come tutti gli ebrei lì deportati, gli Herzkovits subiscono la cosiddetta “selezione”: lei e Tibor entrano in campo, i genitori sono condotti alle camere a gas. Durante l’immatricolazione, Goti chiede dove siano finiti i genitori, e la risposta, secca e crudele, è la seguente: “Voi pensate di rivedere le vostre madri, le vostre sorelle? Ma voi dove credete di essere arrivate? Non siete mica in un luogo di vacanza o in un sanatorio, siete in un Vernichtungslager, in un campo di sterminio. Volete vedere dove sono finite le vostre madri? – mostrando una costruzione in cemento sovrastata da un alto camino da cui esce una fiamma – Se non sono ancora bruciate, stanno bruciando adesso”. Ancora oggi è fortemente presente nella sua testa la reazione di tutte le deportate di fronte a quelle parole, “l’eco di quel lamento, di quella disperazione espressa in tutte le lingue d’Europa”. Goti, dopo un breve periodo di “quarantena”, è costretta a vivere proprio all’ombra di quel camino, perché è assegnata al Block 27, quello più vicino al Krematorium II, sempre cosciente del fatto che l’unica possibilità di uscire da quel campo è “durch den Kamin”, attraverso il camino. “In quella baracca, l’aria, il fumo e le fiamme ci riempivano l’anima, prima delle narici”. Il destino vuole, tuttavia, che pochi mesi dopo, in cui è obbligata a svolgere lavori disumani e a subire violenze e umiliazioni inenarrabili, viene trasferita all’interno del Reich, in Sassonia, a lavorare in una fabbrica di munizioni, non più all’ombra di quel camino. All’avvicinarsi del fronte, ha luogo un ultimo trasferimento: attraverso una “marcia della morte”, le prigioniere, ormai in condizioni spaventose, sono inviate a piedi fino al campo-ghetto di Theresienstadt, non lontano da Praga. Gira voce che i nazisti vogliano eliminare tutti i prigionieri; Goti crede sia arrivata la fine, ma, sfinita, perde coscienza senza rendersi conto che i persecutori scompaiono e che il campo il 5 maggio è affidato alla Croce Rossa. L’8 maggio arrivano i liberatori sovietici. Goti torna in Italia sola, anche il caro fratello Tibor non ce l’ha fatta. Trova un alloggio iniziale a Fiume, presso la famiglia Braida, che ha conservato tutto quello che le era stato affidato dagli Herkovitz, poi, a Milano, a casa di amici conosce Rodolfo (Rudy) Bauer, di cui si innamora immediatamente, che sposa e col quale si trasferisce a l’Asmara, dove Rudy lavora. Dopo la nascita di due figlie, decidono di stabilirsi definitivamente a Milano. La vita in casa Bauer scorre onestamente, tranquillamente, senza problemi, ma non può definirsi serena, perché Goti si sente, comunque, “un’anima ferita”, che si sveglia di notte con il ricordo della tensione e dell’angoscia di quegli anni. La figlia Rosanna si ricorda sempre che spesso il papà diceva loro: “Oggi non fate arrabbiare la mamma perché stanotte era ad Auschwitz”. Alla fine degli anni ’80, poi, Goti decide di incomincia a testimoniare in alcune scuole lombarde. Per la società è l’inizio di una presa di coscienza di cui aveva assolutamente bisogno, ma per le figlie, che hanno il terrore di saperne di più, questo “apre un baratro”: “Nessuno di noi voleva parlarne, né noi, ma nemmeno la mamma”, afferma ancora Rosanna, che confessa di avere un “grande buco nero” sulla sua “famiglia che non c’è” proprio per non aver fatto sufficientemente domande. Fino a 95 anni si dedica a testimoniare, soprattutto nelle scuole e a formare sul tema gli insegnanti (è lei che spinge l’amica Liliana Segre a testimoniare), sorprendendo sempre tutti per il candore e la mitezza del suo atteggiamento, pur non essendo mai “uscita” da Auschwitz, pur ricordando ancor oggi, ogni giorno, la separazione da sua madre, sulla Rampa di Birkenau: “Ricorderò sempre lo sguardo disperato di mia madre che a un certo punto si è girata per salutarmi ancora. Aveva quarantaquattro anni…è un momento che mi accompagnerà fino alla fine dei miei giorni”.

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