"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 18 luglio 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 90 Michele Serra: «In campo repubblicano, il cittadino in armi è un’icona nazionale, non un pericolo pubblico e non un caso umano».


(…). Avevo nove anni quando spararono a John Kennedy e ricordo ancora la mia famiglia riunita davanti al telegiornale (l’unico); ne avevo quattordici quando vennero cancellati dal fuoco nemico Bob Kennedy e Martin Luther King. Ricordo l’attentato a Reagan, scampato per miracolo, e non considero meno notevoli e sconvolgenti le stragi seriali nelle scuole e nei luoghi pubblici, con un totale di vittime paragonabile a una guerra. La sola rilevante differenza è che il movente “politico” è sempre meno rintracciabile, soppiantato ormai stabilmente dal movente psichiatrico. Pazzi che sparano come pazzi. Dementi che non sarebbero in grado di spiegare nemmeno a se stessi perché premono il grilletto. La sola vera reazione politica all’attentato a Trump sarebbe una riflessione corale, un dibattito urgente e travolgente, sull’uso quotidiano delle armi da fuoco in quel paese grande, potente e sanguinario. La pistola, la mitraglietta, il fucile sono familiari agli americani quanto il prosciutto agli emiliani, e anche per questo lo sciagurato ragazzotto che spara a Trump è l’attore di un gesto orribile, ma niente affatto sorprendente. Specie in campo repubblicano, il cittadino in armi è un’icona nazionale, non un pericolo pubblico e non un caso umano. (Tratto da “Normalità di un attentato” di Michele Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di luglio 2024).

Il(mis)FattodelGiorno” 2. “Sangue, pugno e bandiera: la foto che è già il suo altare”, testo di Daniela Ranieri pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 15 di luglio ultimo: (…): Trump, forzato a muoversi dagli agenti del Servizio segreto che a stento lo spostano, si libera, si trattiene, si immortala, si tramanda; simile a uno dei Prigioni di Michelangelo, si fa simbolo congelato, icona, fermo immagine. Trump conosce la potenza delle immagini e sa che deve cogliere il kairos, il momento supremo e casualmente perfetto: ha tre rivoli di sangue sulla guancia destra, come un capo Apache, il cui rosso rimbalza sulle strisce della bandiera americana che sventola alle sue spalle, sulla sinistra; il pugno destro chiuso e alzato al cielo, come ha scritto il New York Times, suggella l’apice del “legame viscerale” coi suoi sostenitori. La sua quasi morte buffonesca è la ratifica di un contratto: colui che aveva promesso di rifare grande l’America (un motto rubato a Mussolini, che lo usava nei suoi illusionismi priapieschi per illudere il popolo che avrebbe rifatto grande Roma) mostra al suo pubblico affamato di rivalsa una demo del sacrificio che è pronto a compiere (e infatti il figlio scrive: “Non smetterà mai di combattere per Salvare l’America”). Biden ne sarebbe morto, caduto a terra crivellato. Trump rimbalza dal suolo, si sottrae alla forza di gravità, risorge gridando, stagliandosi contro il cielo blu della Pennsylvania, e con l’orecchio ferito, la carnagione mandarinata e caramellata come quella dell’anatra all’arancia, è insieme ridicolo e fiero: l’attentatore gli ha allestito un altare su cui issarsi, una pira per bruciare il passato (di fatto è un perdente, l’unica cosa che non ammette di essere) in un rito liminale in cui lui, da vittima, diventa sacerdote dell’unica cosa che quelli della sua risma rispettano come sacra: l’apoteosi orgiastica della pura superficie, il dominio dell’immagine sulla sostanza, la santità della vernice sopra l’essenza. Come già Berlusconi colpito dalla statuina del Duomo dall’inconsapevole Tartaglia, Trump sa che lui è il suo volto: privo della drammaticità paesaggistica dei grandi leader colpiti da attentatori (Lincoln, Kennedy, Reagan, persino il mentitore Nixon), e tanto più della ieraticità funebre dei dittatori (Pinochet, i Re sforacchiati dai gloriosi anarchici) e incinesito da anni di lifting estremo, il volto di Trump non sarebbe stato così perfetto, maschera aderente allo Zeitgeist, neanche a photoshopparlo. Lui è banalmente sé stesso proprio perché è tutto falso, come il suo seguace vestito da sciamano nell’assalto al Campidoglio. Il sangue gli conferisce quel che gli manca da sempre: la serietà, anche se si tratta di una serietà posticcia, da lunapark, e il sangue sembra quello dei film horror. Come Berlusconi, è tanto privo di gravità quanto di ironia: è piallato su una semiotica semplicissima e violenta, il broncio è lo stesso di quando dibatte in Tv (i proiettili gli rimbalzano addosso come le obiezioni, le critiche, gli anatemi). Il suo corpo, cromato e incredibile come quello dei villain dei fumetti, è un corpo di pixel, niente è vero in lui, nemmeno mentre potrebbe stare per crepare. Mente pure quando gli sparano, costruitosi attorno come un fantoccio di carne tra Tv spazzatura e psichiatria, spettacolo e clinica. Il silenzio che circonda l’attimo immortalato dalla foto è in realtà un applauso, quello che scoppiava nel talent show in cui si divertiva sadicamente a licenziare gli apprendisti. Vittima sacrificale ed eversore, la sua morte da burletta lo incoronerà re.

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