“OlimpicheIpocrisie”.
1 (…). Separare
sport e politica, (…), è praticamente impossibile. L’ ideale di Pierre de Coubertin, padre delle Olimpiadi moderne (1896), era di tenere i
giochi olimpici fuori dai conflitti. La vocazione pacifista e universalista
dello sport avrebbe permesso di sospendere, come nella tregua ellenica delle
origini (ekecheiria), le guerre fra
nazioni. Questo ideale è continuato fino ad oggi; ma la realtà è che non ha mai
funzionato. Guardando solo alla politica internazionale, i conflitti hanno
sempre fatto irruzione nelle varie edizioni dei giochi olimpici. La richiesta
di una “tregua olimpica”, avanzata dalle Nazioni Unite, è stata regolarmente
disattesa. Anche questa volta: Parigi si apre mentre continua la guerra
scatenata dall'invasione russa dell'Ucraina (febbraio
2022, in coda ai giochi invernali di Pechino) e mentre Netanyahu difende negli Stati Uniti la
risposta israeliana su Gaza all’attacco di Hamas (per la sicurezza francese
l’incubo è una qualche riedizione di Monaco 1972). Intanto continuano conflitti
più o meno dimenticati (Sudan, Congo, Siria, Myanmar). Tutto questo purtroppo
non sorprende: è chiaro, infatti, che lo sport non può esercitare un potere
salvifico rispetto alle carenze della politica internazionale. Tende piuttosto
a rifletterle. E a rispecchiare le tensioni. I giochi di pace avvengono in
tempi di guerra, con le loro conseguenze anche per le Olimpiadi. Accade da
sempre, come dimostra la pratica dei boicottaggi e delle esclusioni. Si può
perfino risalire al 424 a.C.: l’esclusione di Sparta dai giochi ellenici,
decretata da Atene a causa della guerra del Peloponneso. Nei tempi moderni, i
tedeschi e gli altri grandi sconfitti della Grande guerra vennero esclusi dai
giochi dei primi anni Venti. Cosa che poi non impedì al Terzo Reich, dopo
l’ascesa al potere di Hitler, di organizzare le Olimpiadi del 1936, immortalate dal
celebre documentario di Leni Riefenstahl. Negli
anni della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica fece la sua prima apparizione alle
Olimpiadi (1952). Aiutata dalla grande finzione del dilettantismo di Stato (gli
atleti olimpici non erano ancora “professionalizzati”) l’Urss vide nello sport,
così come nella corsa allo spazio, un terreno di competizione sistemica con gli
Stati Uniti. Nel 1956 l’invasione sovietica dell’Ungheria spinse una serie di
Paesi europei a boicottare i giochi di Melbourne. Scelta che fecero anche
Egitto, Iraq e Libano ma per protestare invece contro l’intervento
franco-britannico a Suez. Le tensioni più forti si ebbero a Mosca 1980, quando
più di 50 Paesi condivisero il boicottaggio deciso dal presidente americano Carter dopo
l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Seguì Los Angeles 1984, con il
contro-boicottaggio sovietico. Nelle ultime edizioni, la Russia di Putin ha prima pagato il doping di Sochi
(Olimpiadi invernali del 2014) e poi l’aggressione all’Ucraina: a Parigi, i
pochi atleti russi partecipano a titolo individuale, senza bandiera e inno
nazionale. La Russia di Putin ha appena organizzato giochi paralleli, nel
circuito dei Brics. Secondo Patrick Clastres, studioso
del movimento olimpico, il rischio è che lo sport non regga allo scontro fra
autocrazie e democrazie, fino al momento in cui diventerà impossibile svolgere
giochi davvero globali. Non è ancora così. Ed è difficile, guardando alle
posizioni di Pechino - decisa a competere direttamente con gli Stati Uniti per
il primato nel medagliere - che uno scenario del genere si concretizzi in tempi
rapidi. I giochi olimpici pongono piuttosto il quesito, tipico della politica
internazionale, di cosa spieghi il successo o il declino di una nazione
(sportiva). Se il momento unipolare (dominio assoluto degli Usa) è stato
superato con l’ascesa della Cina (consacrata dalle Olimpiadi di Pechino del
2008), altri attori competitivi fanno fatica ad emergere. È il caso dell’India,
gigante demografico, potenza economica in crescita, ma nano olimpico. Cosa che
non piace affatto a Narendra Modi, che ha dichiarato con aria di sfida che il suo Paese non si
accontenta certo di partecipare ma intende vincere più medaglie possibili. Con
tanti saluti al celebre detto di De Coubertin. Lo sport è in fondo
l’autobiografia di una nazione. (…). (Tratto da “Lo specchio
riflesso dei conflitti” di Marta Dassù pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di oggi).
OlimpicheIpocrisie”.
2
“Lo sport senza tregua non ferma i
conflitti. Utopia a cinque cerchi blindata dai gendarmi”, testo di Gabriele
Romagnoli pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, sabato 27 di
luglio 2024: Infine l’Olimpiade non è che la continuazione del conflitto con altri
mezzi. C’era una volta la tregua. Ora i giochi sono un lago tra due sponde,
sulla cui superficie si riflettono quel che è accaduto e quel che succederà.
Parigi non val bene una messa in stand by. È tuttalpiù una parentesi, al cui
interno la frase continua, usando parole come “sabotaggio”, “attentato”,
“guerra”. Parlare, come fa il Comitato olimpico, di «un villaggio dove gli
atleti di tutte le nazioni vivono in pace sotto lo stesso tetto» non è neppure
retorica, è guardare il dito, l’unghia del dito, per non vedere il resto del
corpo, le sue ferite aperte, la fatica con cui resta in piedi. Se questo
piccolo mondo è il migliore dei possibili, perché la sua armonia prestabilita
deve essere protetta da 20 mila soldati e 25 mila gendarmi francesi con un
piccolo aiuto di altri 2 mila poliziotti dagli amici inglesi? Davvero si può
chiudere la porta perché lo spettacolo deve cominciare e dimenticare che 400
atleti ucraini che avrebbero potuto essere selezionati sono invece stati
reclutati per il fronte e sono morti? Il 27 luglio strappa dal calendario della
memoria il 7 ottobre? Che cosa avverrà a Gaza nel periodo in cui non saremo
collegati? Basta una mattina di pioggia sui Campi Elisi per cancellare
l’ennesima estate infernale e considerare lunatici i militanti ecologisti e
insensate le loro azioni? Chi si fa domande è spesso preferibile a chi ha o si
picca di avere soltanto certezze. Il presidente del Cio, Thomas Bach, per
esempio è sicuro che «i partecipanti i cui Paesi sono in guerra gareggeranno
rispettando le stesse regole». Tra quelle che il comitato ucraino ha imposto ai
suoi rappresentanti c’è: non stringere la mano a eventuali avversari russi o
bielorussi, anche se presentati, con uno scambio di etichette, come “neutrali”.
Zhan Beleniuk, primo membro di colore del parlamento di Kiev e unica medaglia
d’oro del suo Paese a Tokyo (nella lotta greco-romana) ha premesso che non
potrà mostrare alcuna forma di rispetto per un rivale di quella provenienza e
che salire sul podio varrà doppio perché sarà un’occasione per parlare in
difesa della sua causa e contro il nemico. (…). Per la prima volta da
quarant’anni, dal boicottaggio del blocco sovietico a Los Angeles, l’Olimpiade
non verrà trasmessa. Ma se un giavellotto cade nello stadio e nessuno lo sente,
non fa rumore? Se nessuna telecamera lo riprende è come se non fosse mai
caduto? Come se una tv di Stato, nell’anno 2024, fosse più potente di internet.
Non a caso sono gli attacchi di hacker quelli più temuti. Non c’è
un’alternativa ai Giochi olimpici. Non lo sono stati (se non per propaganda) i
Brics Games voluti da Putin un mese fa a Kazan. Come non lo furono, seppur con
migliori intenzioni, i Tibetan Games che una specie di gigolò dell’Himalaya organizzò
a Dharamsala alla vigilia di Pechino 2008. L’unico cortile possibile è quello
dove ogni 4 anni (con l’eccezione del 2020) si monta il tendone. La differenza
è che stavolta dalle finestre che si affacciano si sentono ancora le liti. Il
Dream Team non riaccenderà il sogno americano, lasciando il Paese diviso nella
più scalmanata e tetra delle campagne elettorali. Non ci sono simbologie
possibili, guerre di teatro che si possano combattere su campi da basket: da
una parte si gioca e dall’altra si spara. Se va bene. L’idea della tregua
olimpica con il tempo è scivolata in quel vuoto che si forma tra l’utopia e la
leggenda. Un po’ come la partita di Natale tra soldati inglesi e tedeschi il 25
dicembre del 1944. Che fu vinta dai Tommy. O dai Fritz. Che forse non è mai
stata giocata. Però sarebbe stato bello ci fosse stata. E allora ce la
raccontiamo comunque, a scadenze prefissate, ogni volta un po’ meno convinti e
ogni volta ottenendo meno credito. Chi ascolta intanto verifica sulla rete con
il proprio cellulare, scopre i dubbi e le verità alternative, solleva le
obiezioni. Questo è il punto: viviamo in una realtà che non ha più un epicentro
e dove ogni cosa e persona è connessa alle altre. Non ci sono un canale unico e
un’unica verità, neppure dove non c’è democrazia. È impossibile inquadrare una
sola foresta, figurarsi un solo albero che cade. Anche chi guarda l’Olimpiade
in tv in contemporanea controlla su un altro minore schermo il calciomercato,
le sparate di Trump, gli spari in Medio Oriente o ai confini d’Europa. Non
esiste il monopolio della narrazione. Si può zoomare su un evento, ma non
abbastanza per renderlo l’unico in corso. C’è una telecamera ovunque, ogni cosa
è illuminata. Il conflitto non si ferma perché abbiamo sotto gli occhi la sua
continuazione.
Nessun commento:
Posta un commento