"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 24 luglio 2024

Piccolegrandistorie. 84 Vito Teti: «Dormo nella stanza in cui sono nato e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore».

                        Post dedicato alla carissima amica Anna Maria M.

Vivo nella casa in cui sono nato, l'unica che possiedo grazie a mio padre, che è stato più bravo di me a ipotecare il futuro e a fare la sua parte, mentre io sono riuscito a rinnovare e ad ampliare quella degli antenati, felice perché fedele al valore «in disuso» della sobrietà che considero una vera ricchezza. Dormo nella stanza in cui sono nato e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma del disfacimento. Le strade sono vacanti, assenti i rumori della campagna, le voci delle persone che si chiamavano a distanza, quelle delle fontane, delle fiumare che parlavano - incautamente zittite dalla nostra distrazione - ma tutto ciò non ha fatto finire il mondo. Il sole e le albe, le ombre e le notti, sono tornate in questi giorni e torneranno quando io non guarderò più dal mio balcone. Molto, ancora, è cambiato durante il fockdown, la luce è diventata più luminosa, la fiumara sepolta ha ritrovato una sua voce, gli uccelli, i cani, le galline si sono fatti ascoltare, di nuovo. - Sono tornate le lucciole, ma le strade sono rimaste vuote, le case chiuse, gli emigrati non sono tornati, gli ambulanti sono scomparsi. Una trasfigurazione tanto repentina quanto epocale. Nel mondo da cui provengo e a cui sono rimasto fedele, magari a costo di qualche tradimento, ho imparato il valore della fatica, della solidarietà, delle piccole cose che più tardi ho scoperto, sui libri, essere il valore della polis, della comunità. Sono uno dei restanti più tenaci e resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e cambiare spesso luoghi e contesti. Sono cresciuto a cavallo di tre generazioni e, contemporaneamente, nel crinale di due età, di due epoche, di due civiltà. In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni; dalla nascita delle società agropastorali al loro inesorabile sparire. Incerto, irrequieto, sospeso, un tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità; nella frenesia di un tempo dinamico. Lo studio appassionato, il vortice delle letture e i viaggi mi hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato, dei ricordi, della vita è sempre più essenziale per orientarmi in questo universo fragile, insicuro, attraversato da un'idea di futuro sempre meno definita con l'aumentare delle mie consapevolezze. Restando fermo ho camminato migliaia di giorni, camminando mi sono sentito fermo; da fermo ho attraversato dimensioni spazio-temporali; camminando ho incontrato vivi e defunti. Ogni giro lungo, ogni desiderio di fuga mi ha riportato a casa da dove non sono mai andato via. (…). (Tratto dal capitolo settimo – “La casa ovunque”, pagg. 68/69 - de’ “La restanza” di Vito Teti, antropologo calabrese, già ordinario di “Antropologia culturale” presso l’Università della Calabria).  

“Il contratto ai rapitori. Così il signor Eugenio s’è salvato”, testo di Antonello Caporale pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di luglio 2024: (…). Ecco la storia, per come me l'ha raccontata Saverio G., figlio di Eugenio. È il 23 gennaio 1974 e il signor Eugenio, che ha nel bazar la sua vita e quella del suo paese, Decollatura, chiude la serranda per far ritorno a casa. Decollatura si sviluppa su un pianoro appena prima del crinale del Reventino, il cordolo montuoso che divide in due la Calabria e che si erge superato l'istmo, il punto dove i due mari, Jonio e Tirreno, quasi si guardano. Decollatura è il sud del sud, l'area più tormentata e svantaggiata, tra le più povere e mal nutrite. È più di un decennio che dal Mezzogiorno si è messa in moto la carovana dell'emigrazione, il popolo che fa le valigie per trovare al Nord il rifugio che lo difenderà dalla miseria del Sud. Eugenio invece col suo negozio ha saputo farsi un nome e hai quattrini che a tanti suoi compaesani mancano. Infatti quel giorno di gennaio cade nella morsa di sequestratori. I carabinieri diranno poi che si tratta di affiliati a una cosca di Lametia Terme, 'ndranghetisti con la voglia di fare carriera e spillare un po' di soldi attraverso i rapimenti facili, specialità finora dell'Anonima sarda. I rapitori espongono ad Eugenio la tariffa della libertà: settanta milioni di lire sull'unghia con l'annuncio che avanzeranno la richiesta alla di lui moglie. Il rapito, più scaltro dei suoi carcerieri, avvia la trattativa fidando nelle sue capacità retoriche e soprattutto nell'assoluta ingenuità dei suoi custodi, delinquenti evidentemente in fasce. Ripercorre infatti a voce alta la sua vita, fatta di sacrifici e di conquiste, di guadagni che poco a poco hanno assunto dimensioni rispettose all'ufficio postale del paese, al punto da guadagnarsi la stima e persino qualche riverenza dal direttore. È la vita sentimentale che manca ad Eugenio giacché la consorte, lui ne è certo, è presa dal fuoco della passione verso un altro col quale si accompagna ormai da tempo. Eugenio, disperato, vive l'adulterio con enorme vergogna ma lo sopporta con la tenacia di chi sa che lui l'avrà vinta. Dice ai rapitori: "Chiedere il riscatto a mia moglie è il modo certo di non vedere neanche una lira. Anzi, le farete un favore. Si sarà liberata di me facendo danno a voi". La questione amorosa è scabrosa e ancor di più sembra il punto centrale: avanzare il riscatto a chi mai lo pagherà è un atto di incoscienza perché indurrebbe la moglie a liberare la sua storia d'amore dalla presenza ingombrante del marito? È proprio così? Il dubbio rode i rapitori e complica i rapporti all'interno del gruppo dei banditi. A questo punto Eugenio G. avanza una proposta: se le richieste si faranno più ragionevoli lui potrà impegnarsi a farvi fronte. Come? Qui tira fuori il coniglio dal cappello: "Possiamo sottoscrivere una scrittura privata, un contratto vero e proprio con ogni dettaglio. Voi mi rilasciate e io trovo la somma che avete richiesto e ve la faccio recapitare". Immagino i conciliabili che seguirono ma soprattutto l'idea che il contratto, quel documento firmato e sottoscritto, fosse la prova della buona volontà, dell'assoluta serietà del rapito a dare respiro e sollievo ai rapitori, ancora evidentemente a digiuno di sequestri e degli accidenti che capitano quando si mettono in pratica. Infatti, ignoranti e primitivi, i sequestratori valutarono l'impegno scritto come la conferma dell'esatta volontà del sequestrato di affrontare i suoi doveri. E qui i cattivi iniziano ad assomigliare a una grande armata di buoni e scellerati, di disonesti ma generosi, di ignobili ignoranti che hanno cura dei problemi altrui e dispiacere per le passioni perdute e gli amori finiti. Fatto sta che accettano di sottoporre il riscatto sotto contratto. Negoziata la riduzione della prestazione economica da settanta a quaranta milioni di lire i sequestratori tolgono le catene al piede di Eugenio ricevendo in cambio la copia del contratto appena firmato. Due giorni dura quel rapimento e G., tornato a Decollatura (il nome trae origine dalla decapitazione degli Epiroti ad opera dei Mamertini) il 25 gennaio del '74 si dirige alla caserma dei carabinieri. Accompagnato dall'avvocato insieme alla sua deposizione consegna il contratto nel quale sono indicati gli autori del delitto e la somma da versare. Questo documento verrà esibito al processo e i sequestratori di terz'ordine riceveranno la condanna che loro spetta. E però, ecco c'è un però di cui vorrei dar conto. I malviventi hanno dimostrato una assoluta devozione nella forma burocratica definita dal codice civile. Nella monumentale ignoranza mostrata sarà covato anche il rimorso per aver dato così tanta fiducia a chi non l'avrebbe - diciamo così - meritata. È questa la storia di un crimine dove la spavalderia e la ferocia risultano coperte dalla più incredibile delle fanfaluche. Le catene, tolte ai piedi di Eugenio, sono giustamente finite ai polsi dei sequestratori, avvinghiati dal rimorso di una realtà capovolta e di una verità impossibile.

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