Mi sono sempre chiesto (e Voi?) quale sia stato il “prezzo”,
in termini di “sanità mentale” e di “benessere psicologico” conseguenti, nella
tristissima impresa, da sudditi divenuti, di ingraziarsi il despota di turno. Paola
Masino (Pisa, 20 di maggio dell’anno 1908 – Roma, 27 di luglio dell’anno 1989),
scrittrice, fu tra le poche, pochissime personalità femminili di un certo rilievo
e consapevolezza che resistette al fascino del “tombeur de femmes” del “ventennio
“nero”. Nel volume “Italica” Giacomo
Papi riporta, alle pagine 90/94, il racconto di Paola Masino che ha per titolo “Fame”, ovvero quella “fame” patita in
grossa misura da parte di una larghissima fetta dell’italico popolo asservito
alla dittatura fascista. Nel racconto è contenuta una nota editoriale che
trascrivo: “Fame uscì sulla rivista «Espero» il 15 aprile 1933 senza destare
scandalo. Quando il racconto uscì di nuovo su «Le Grandi Firme» il 22 settembre
1938, invece, il regime ordinò la chiusura del giornale, che nel frattempo era
stato acquisito da Mondadori e affidato alla direzione di Cesare Zavattini.
Fame è stato ripubblicato nel 1992 nella raccolta Colloquio di notte edita da
La Luna”. La “fame” era così diffusa nel “ventennio nero” da divenire un
“argomento tabù”.
“UnaStoriadiFameNelVentennioNero”. «La mamma è morta.» «Perché è morta?»
«Di fame.» «Anche io ho fame ma non riesco a morire» disse Chiara sedendosi
presso la tavola. Anche il padre sedette, in faccia a lei, e il fratellino
Mario. Mario ha nove anni, Chiara sette, il padre, Bernardo, ne ha forse trenta
ma non si può capire, con il volto e le mani cancellati e sgualciti dalle prove
e i pentimenti che Dio ha avuti cercando di dar loro una vita. La mamma era
nell'altra stanza, avvolta dalla morte, in un pallore violetto. I bambini
stavano composti, con le mani tutte un gelone sanguinoso poggiate all'orlo del
tavolo, i capelli ben pettinati, i volti desolatamente seri. Rimasero così muti
qualche tempo, poi Bernardo si allungò sulla tavola e prendendoli per un
braccio li scosse forte gridando: «Ora non soffre più». Voleva farli piangere,
ma i bambini chiusero soltanto gli occhi accennando di sì col capo, che lo
sapevano che la mamma ora non soffre più. Bernardo sedette e ognuno riprese il
silenzio interrotto. Mario si mise a mangiarsi le unghie. «Mario» disse Chiara
«se non smetti lo dico alla mamma.» «Intanto è morta.» «E allora, perché lei è
morta, non avrete fatto i compiti» gridò ancora Bernardo dando un pugno sulla
tavola. «Sì che l'ho fatto» disse Mario. Aprì il cassetto e prese un foglio
scritto. «Oggi c'era il tema. Eccolo.» «Leggimelo» mormorò Bernardo pianissimo.
Credeva di dormire e temeva di svegliarsi con la sua propria voce, se avesse
parlato forte. «Tema: Il leone. Svolgimento: "Il leone è il re degli
animali, è bello, fulvo, conia criniera di riccioli. È carnivoro, vive nel
deserto. I bambini lo possono vedere nei libri o al Giardino Zoologico. Io non
l'ho mai visto ma vorrei tanto che si mangiasse mamma mia quando mi
picchia"». «Mangiare» mormorò Bernardo e incrociò le braccia sul tavolo e
su quelle piegò il capo. Mario ripose il compito, Chiara batteva i denti dal
freddo, ma quando si accorse che il babbo dormiva si mise in bocca il
fazzoletto per non fare rumore. «Chiara» disse Mario «lo sai che forse moriremo
anche noi di fame?». «Non importa Mario, mamma lo diceva sempre che un giorno o
l'altro si deve morire.» «A me, sai Chiara, mi dispiace di non veder il leone
prima di morire, il maestro ne ha tanto parlato, mi ha fatto venire voglia.»
«Prova a domandarlo a Dio, Mario. A Dio gli piace far vedere le belle cose che
ha fatto.» Mario abbassò ancora la voce e si piegò sulla tavola verso di lei:
«Ora che la mamma è morta ti voglio dire una cosa, Chiara. A me Dio mi è
antipatico, non voglio chiedergli nulla. È un egoista, ecco, ora l'ho detto.
Perché se ci veniva lui a soffrire e morire sulla terra non ci mandava suo
figlio, povero Cristo». «Sì, ma quando uno è Dio non ha mica tempo di voler
bene ai figli. Si deve occupare di tante cose. Io ho visto mamma come gli
succedeva. Ci sono tante cose da fare in una stanza, figurati in un mondo.» «E
allora vuoi dire che non ha metodo, perché uno che vuol fare una cosa e la fa
con metodo non si lascia prendere la mano, come lui che voleva fare un mondo
buono e gli è venuto fuori tutto un mondo cattivo.» «Questo non vuol dire Mario.
Perché, per esempio, io sono sicura che babbo nostro voleva fare due bambini
felici e invece ha fatto noi che siamo due bambini infelici. Però certo lui ci
ha fatto con metodo. La colpa è tutta nostra che abbiamo voluto essere infelici
e lui ormai non ci può rimediare e si dispera. Come Dio con gli uomini.» A
questo punto Bernardo alzò il capo guardandoli fisso. «Sì, Chiara, che posso
rimediare, se voi siete stanchi di essere due bambini infelici. Tutto quello
che si è fatto si può disfare. Anche Dio potrebbe rimediare il male che ha
fatto agli uomini, ma lui sta bene e se pe infischia. È un egoista, ha ragione
Mario.» «Ecco» disse Mario «lui che è uomo mi capisce.» «Allora babbo, se puoi,
sfacci pure. Ho tanta fame». «Anche io» disse Mario. Bernardo si alzò, li prese
per i polsi, per non stringere le piccole mani tumefatte, uscirono. Nessuno dei
tre aveva un cappotto per coprirsi e fuori il bosco era tutto gelato. I raggi
della luna tra gli scheletri degli alberi erano spade nude, cadevano a
trafiggere la terra scivolando sul cielo vetrino, e questo martirio aveva uno
stridore lieve. Non avevano salutato la morta. Bernardo chiuse la porta di casa
a chiave, si mise la chiave in tasca, si avviarono per il bosco. All'aria
ghiacciata i geloni dei bambini si aprirono e sanguinarono. Bernardo pensava
che sono le dieci, alle tre potrebbero arrivare alla città: in città bisogna
trovare o rubare qualche cosa da mangiare per i bambini. Camminano camminano,
sempre sul suolo di cristallo, tra alberi pungenti. A un tratto Chiara grida:
«Sbrigati, babbo. Ho troppa fame». «Aspettami qui vicino a questo tronco» dice
Bernardo a Mario. «Guarda sempre il cielo.» Bernardo e Chiara si allontanarono
di qualche passo, discosto dal sentiero. Bernardo si inginocchiò davanti a
Chiara, che è tanto piccola. Lei gli sorrise, gli fece una carezza lenta lenta,
si fermò a guardare la propria mano e il volto di lui, scosse il capo: «Ti ho
insudiciato con il sangue dei geloni, babbo, non ti fa mica schifo?». «No.» E
con una stretta sola delle mani l'aveva già strangolata. Allora la stese in
terra, la baciò sulle dita malate, tornò da Mario. Mario non domandò nulla, si
mise a camminare al suo fianco. Bernardo pensa che sono tre giorni che i
bambini non prendono neppure una goccia di latte. Mario è forte, non si
lamenta. Hanno lasciato Chiara da più di un'ora e non banno detto una sola
parola. La strada si allunga, la luna cala, passa tanto tempo. Bernardo dentro
sé ripete con tutta la volontà di cui è capace: "Mario non dire che hai
fame. Mario non dire che hai fame". A un tratto prova come se uno gli
avesse dato un pugno sotto il mento; dopo un po' capisce che Mario ha detto che
ha fame. Anche lui. I bambini non hanno pietà dei genitori. Non si domandano
neppure se sia faticoso strangolare un bambino, nostro figlio. Vogliono morire
e basta. Ora Bernardo cerca di commuovere Mario. «Tra poco arriveremo alla
città, Mario. Allora mangeremo tanto.» Mario si è fermato. Ha il volto
impassibile. «Voglio mangiare subito. Anche io come Chiara». Stende la mano al
padre per salutarlo. Si baciano sulle due guance come uomini; Mario si apre il
bavero del vestito, Bernardo guarda da un'altra parte; Mario gli prende le mani
e se le mette intorno al collo. Bernardo sente montare un odio forte contro
quel suo bambino ingrato che lo fa tanto soffrire, con prepotenza, pur di
appagare il proprio desiderio. Si volta e lo picchia con furore sulla testa sul
volto sulle spalle poi lo lascia e si avvia di nuovo per il sentiero. Mario
senza piangere lo segue. Non vanno più a fianco a fianco, hanno freddo. Mario
non crede più a suo padre, anche lui è un egoista. Bernardo non può sopportare
dietro sé quel rumore dei passi di Mario, figlio egoista. Allora bruscamente si
ferma, si volta, Mario gli si avvicina, Bernardo dice: «Sei stato cattivo,
Mario, ma ti perdono». Lo strangola lentamente perché senta quanto lo ama,
quanto grande è la forza orribile che gli è stata chiesta. Quando riprende il
cammino è come sommerso in un'angoscia dolce, soffre meno al pensiero di
essersi sacrificato per i suoi bambini. Ora a lui non resta che uccidersi, come
agli uomini che hanno perduto tutto. Ma lui il suo tutto l'ha dato ai suoi
bambini, uccidersi è come rimproverarglielo, pentirsene. Sarebbe crudele e
immorale; invece andrà a costituirsi perché la società lo vuole, ed è una cosa
abbastanza morale. Per arrivare in città ci sono ancora due ore perché è molto
stanco e ha i piedi quasi congelati, può appena camminare. Quando arrivò erano
le quattro, vagò un'ora prima di trovare un ufficio di polizia; trovatolo entrò
e chiese subito del commissario. Al commissario disse con aria furba: «Se lei
mi fa dare una zuppa calda, dopo le racconto un bel fatto». Gli portarono una
scodella di brodo: lui tentò inutilmente due o tre volte di ingoiarne un cucchiaio,
buttò tutto in terra con ira e si mise a singhiozzare: «Fatemi mangiare, fatemi
mangiare. Ora come faccio se non so più mangiare!».
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