"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 14 maggio 2023

ItalianGothic. 48 Barbara Spinelli: «L’assalto alla Costituzione antifascista ha ramificazioni nei poteri forti che dominano i mercati e traggono profitti dalle guerre».


Ha scritto Peter Gomez in “Georgia Meloni e la sfida del potere” pubblicato sul mensile “Millennium” del mese di dicembre dell’anno 2022:

Un anello per domarli, un anello per trovarli, un anello per ghermirli e nel buio incatenarli. Il vero problema sono gli anelli. Anzi l'unico anello. Quello del potere. Quello che Giorgia Meloni si è ritrovata al dito quando, prima donna della storia, è stata spinta dagli elettori fino a Palazzo Chigi. Per J.R.R. Tolkien, lo scrittore inglese da lei tanto amato, quel gioiello corrompe lentamente. È un oggetto pericoloso. Rende invisibili, ma non realmente invincibili. Perché tra i tanti che lo hanno portato solo in tre, gli hobbit più puri di cuore Bilbo, Sam e Frodo, sono riusciti a sopravvivergli. Anche Giorgia Meloni sopravviverà al governo e dunque al potere? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che la nuova presidente del Consiglio non va sottovalutata. Indugiare troppo sul suo album di famiglia, più volte riproposto dagli avversari, in cui compaiono anche nostalgici, neofascisti e reazionari, non serve per capire ciò che realmente accaduto e cambiato in questi anni nella destra. Perché il pantheon di Giorgia Meloni va molto oltre il racconto fatto da critici e nemici. E va pure oltre quella sorprendente galleria di ritratti ospitata a Milano in primavera all'entrata del Centro Congressi, teatro della conferenza programmatica di Fratelli d'Italia: Flaiano e Longanesi, Borsellino e Hanna Arendt, Guareschi e Pasolini, Chesterton e Margherita Sarfatti. Il tutto miscelato in un cocktail di storie e di pensieri che stupisce solo chi in questi anni ha con spocchia ignorato la lunga marcia meloniana per portare per la prima volta la destra-destra nella stanza dei bottoni. In questo periodo, mentre a sinistra ci si industriava solo per con-servare il potere e si vagava alla ricerca di nuove parole d'ordine; mentre si propugnavano i diritti civili, ma ci si dimenticava di quelli sociali; mentre si smetteva di leggere Marx anche solo per criticarlo e ci si crogiolava invece nel mito di una presunta superiorità culturale e intellettuale, a destra c'era chi studiava. Una mezza dozzina di case editrici pubblicavano libri di pensatori sconosciuti ai progressisti, ma acquistati nel mondo in milioni di copie. Elaboravano idee e provocazioni. Andavano oltre il sovranismo e le semplici e spesso truci parole d'ordine utilizzate da Meloni negli anni dell'opposizione e nelle settimane della campagna elettorale. (…). Per il grande giornalista, scrittore e intellettuale Giuseppe Prezzolini, fondatore nei primi del '900 de’ La Voce, sono 53 i principi a cui deve rifarsi chi è di destra e aborre quel manganello con cui la destra in Italia è stata spesso identificata. Il secondo principio è forse il più importante. Perché, scrive Prezzolini, "il vero conservatore si guarda bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici; perché il vero conservatore intende continuare mantenendo, e non tornare indietro e rifare esperienze fallite". Perché "il vero conservatore sa che a problemi nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a principi permanenti" (Manifesto dei Conservatori, 1972). Così oggi mentre vediamo una Meloni in preda all'ansia di accreditarsi con gli industriali, il mondo della finanza, l'Europa, la Nato, Washington e tutto l'establishment, ci chiediamo quali saranno, sempre che le abbia davvero, le sue risposte nuove. Perché, come ci insegna Tolkien, basta un attimo e l'anello che hai infilato ti divora. Di seguito, “Democrazie decidenti e vecchie trappole” di Barbara Spinelli pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 12 di maggio 2023: (…). Secondo i tre propagandisti della Trilaterale (la “cricca” formata da Stati Uniti d’America, Europa e Giappone n.d.r.), l’ingovernabilità nelle democrazie era dovuta a un “eccesso di democrazia”, che andava eliminato “ripristinando il prestigio e l’autorità delle istituzioni del governo centrale”. Era nata la parola d’ordine del governo forte che abbassa i poteri dei Parlamenti, tiene a bada le classi popolari divenute “classi pericolose”, riduce le tutele sociali. Le Costituzioni andavano adattate a queste esigenze. Va ricordato che il Piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli fu redatto subito dopo il pamphlet sulla Crisi della democrazia e che gli “eccessi democratici” sotto accusa sono, oltre al Sessantotto, i movimenti contro la guerra in Vietnam e lo scandalo Watergate che travolse la presidenza Nixon. A partire da quel momento prende quota il farmaco salvavita chiamato democrazia decidente, caro alla Meloni: un concetto che riecheggia le invettive ottocentesche di Donoso Cortés contro i Parlamenti dediti alle chiacchiere (clasas discutidoras) e prive di “cultura del fare”. L’invettiva di Cortés verrà ripresa da Carl Schmitt, giurista vicino a Hitler. Ma l’offensiva non si ferma qui: a riproporre la democrazia decidente, dopo la crisi dell’euro, fu l’alta finanza. Nel suo mirino: i Paesi sudeuropei – Italia, Grecia, Spagna, Portogallo – dichiarati instabili e inetti perché dotati di Costituzioni antifasciste. Chi imboccò più spudoratamente tale sentiero fu la grande banca d’affari JP Morgan, che il 25 maggio 2013 pubblicò un Rapporto che rispolverava la ricetta della Trilaterale (poco prima alle Politiche il M5S aveva ottenuto il 25,5%: i populisti andavano fermati!). Riportiamo il passaggio chiave del Rapporto: “I sistemi politici della periferia sudeuropea sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le loro Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del Sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”. L’assalto alla Costituzione antifascista non è dunque appannaggio esclusivo di comparse come La Russa. Ha ramificazioni nei poteri forti che dominano i mercati e traggono profitti dalle guerre Nato (non solo Ucraina). I talk show che denunciano fascisti col braccio teso farebbero bene a indagare invece su riforme decisioniste che vogliono far proprie le “buone pratiche di governance” preconizzate da JP Morgan. Nel suo ultimo libro (Tempi difficili per la Costituzione) Gustavo Zagrebelsky ritiene ideologica e pretestuosa la “Grande Riforma” istituzionale desiderata da Bettino Craxi (e Giuliano Amato) e critica l’odierno servilismo degli intellettuali (aggiungerei i giornalisti): non indipendenti, ma “arredo e, se si vuole, corredo del potere”. I fautori della “democrazia decidente non si limitano a prospettare riforme che migliorino la funzione dell’esecutivo (a esempio la sfiducia costruttiva tedesca, che impone a chi vuol sfiduciare i governi la contemporanea fiducia a una maggioranza alternativa). Aspirano ai modelli francese e statunitense, prediligendo la V Repubblica di De Gaulle introdotta nel 1958 e perfezionata nel 1962 con l’elezione diretta del presidente. L’obiettivo è l’abbassamento del Parlamento, del potere giudiziario e della Presidenza super partes, che sarebbe neutralizzata o liquidata, divenendo emanazione della maggioranza. Un effetto ottenibile sia con l’elezione diretta del presidente, sia con quella del premier: l’esecutivo ha comunque da prevalere, e l’equilibrio di Montesquieu tra poteri distinti svanisce (“Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”). Perché la controriforma riesca bisogna riscrivere anche la storia. È quello che fanno gli avversari della Costituzione, quando nascondono il doppio naufragio del presidenzialismo statunitense – oggi alle prese con due candidati inetti come Trump e Biden – e di quello francese. Uno degli aspetti più stupefacenti dei nostri dibattiti è il prestigio di cui gode ancora Macron. Renzi e Calenda vogliono svuotare il Pd seguendo il suo esempio, e fingono d’ignorare il precipizio in cui è caduto: nel primo mandato (lunga rivolta dei Gilet gialli) e nel secondo (popolarità del movimento contro la riforma delle pensioni). È come se l’inquilino dell’Eliseo non sapesse che non è stato il programma a dargli due volte la vittoria, ma il rigetto dell’alternativa Le Pen. Da tempo non è più solo l’allungamento dell’età pensionabile che imbestialisce i francesi: l’intera politica economica di Macron è giudicata generatrice di disuguaglianze. E lo scontento concerne più che mai la “verticale del potere”: cioè la natura monarchica della Quinta Repubblica. Guardare in faccia le insidie del presidenzialismo, prendere atto del fallimento di Macron e delle presidenze Usa, ricordare la nefasta vittoria della Controriforma sulle promesse di Brandt negli anni Settanta: solo a queste condizioni, scegliendo stavolta l’opzione Brandt, ha senso un’ennesima Bicamerale.

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