Ha scritto Peter Gomez in “Georgia Meloni e la sfida del potere” pubblicato sul mensile “Millennium” del mese di dicembre dell’anno 2022:
Un anello per domarli, un anello
per trovarli, un anello per ghermirli e nel buio incatenarli. Il vero
problema sono gli anelli. Anzi l'unico anello. Quello del potere. Quello che
Giorgia Meloni si è ritrovata al dito quando, prima donna della storia, è
stata spinta dagli elettori fino a Palazzo Chigi. Per J.R.R. Tolkien, lo
scrittore inglese da lei tanto amato, quel gioiello corrompe lentamente. È un
oggetto pericoloso. Rende invisibili, ma non realmente invincibili. Perché tra
i tanti che lo hanno portato solo in tre, gli hobbit più puri di cuore Bilbo,
Sam e Frodo, sono riusciti a sopravvivergli. Anche Giorgia Meloni sopravviverà
al governo e dunque al potere? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che la
nuova presidente del Consiglio non va sottovalutata. Indugiare troppo sul suo
album di famiglia, più volte riproposto dagli avversari, in cui compaiono anche
nostalgici, neofascisti e reazionari, non serve per capire ciò che realmente
accaduto e cambiato in questi anni nella destra. Perché il pantheon di Giorgia
Meloni va molto oltre il racconto fatto da critici e nemici. E va pure oltre
quella sorprendente galleria di ritratti ospitata a Milano in primavera
all'entrata del Centro Congressi, teatro della conferenza programmatica di
Fratelli d'Italia: Flaiano e Longanesi, Borsellino e Hanna Arendt, Guareschi e
Pasolini, Chesterton e Margherita Sarfatti. Il tutto miscelato in un cocktail
di storie e di pensieri che stupisce solo chi in questi anni ha con spocchia
ignorato la lunga marcia meloniana per portare per la prima volta la
destra-destra nella stanza dei bottoni. In questo periodo, mentre a sinistra ci
si industriava solo per con-servare il potere e si vagava alla ricerca di nuove
parole d'ordine; mentre si propugnavano i diritti civili, ma ci si dimenticava
di quelli sociali; mentre si smetteva di leggere Marx anche solo per criticarlo
e ci si crogiolava invece nel mito di una presunta superiorità culturale e
intellettuale, a destra c'era chi studiava. Una mezza dozzina di case editrici
pubblicavano libri di pensatori sconosciuti ai progressisti, ma acquistati nel
mondo in milioni di copie. Elaboravano idee e provocazioni. Andavano oltre il
sovranismo e le semplici e spesso truci parole d'ordine utilizzate da Meloni
negli anni dell'opposizione e nelle settimane della campagna elettorale. (…). Per il grande giornalista, scrittore e intellettuale Giuseppe Prezzolini,
fondatore nei primi del '900 de’ La Voce, sono 53 i principi a cui deve rifarsi
chi è di destra e aborre quel manganello con cui la destra in Italia è stata
spesso identificata. Il secondo principio è forse il più importante. Perché,
scrive Prezzolini, "il vero conservatore si guarda bene dal confondersi
con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici; perché il vero
conservatore intende continuare mantenendo, e non tornare indietro e rifare
esperienze fallite". Perché "il vero conservatore sa che a problemi
nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a principi permanenti" (Manifesto
dei Conservatori, 1972). Così oggi mentre vediamo una Meloni in preda all'ansia
di accreditarsi con gli industriali, il mondo della finanza, l'Europa, la Nato,
Washington e tutto l'establishment, ci chiediamo quali saranno, sempre che le
abbia davvero, le sue risposte nuove. Perché, come ci insegna Tolkien, basta un
attimo e l'anello che hai infilato ti divora. Di seguito, “Democrazie decidenti e vecchie trappole”
di Barbara Spinelli pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 12 di maggio
2023: (…). Secondo i tre propagandisti della Trilaterale (la “cricca”
formata da Stati Uniti d’America, Europa e Giappone n.d.r.), l’ingovernabilità nelle
democrazie era dovuta a un “eccesso di democrazia”, che andava eliminato
“ripristinando il prestigio e l’autorità delle istituzioni del governo
centrale”. Era nata la parola d’ordine del governo forte che abbassa i poteri
dei Parlamenti, tiene a bada le classi popolari divenute “classi pericolose”,
riduce le tutele sociali. Le Costituzioni andavano adattate a queste esigenze.
Va ricordato che il Piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli fu
redatto subito dopo il pamphlet sulla Crisi della democrazia e che gli “eccessi
democratici” sotto accusa sono, oltre al Sessantotto, i movimenti contro la
guerra in Vietnam e lo scandalo Watergate che travolse la presidenza Nixon. A
partire da quel momento prende quota il farmaco salvavita chiamato democrazia
decidente, caro alla Meloni: un concetto che riecheggia le invettive
ottocentesche di Donoso Cortés contro i Parlamenti dediti alle chiacchiere
(clasas discutidoras) e prive di “cultura del fare”. L’invettiva di Cortés
verrà ripresa da Carl Schmitt, giurista vicino a Hitler. Ma l’offensiva non si
ferma qui: a riproporre la democrazia decidente, dopo la crisi dell’euro, fu
l’alta finanza. Nel suo mirino: i Paesi sudeuropei – Italia, Grecia, Spagna,
Portogallo – dichiarati instabili e inetti perché dotati di Costituzioni
antifasciste. Chi imboccò più spudoratamente tale sentiero fu la grande banca
d’affari JP Morgan, che il 25 maggio 2013 pubblicò un Rapporto che rispolverava
la ricetta della Trilaterale (poco prima alle Politiche il M5S aveva ottenuto
il 25,5%: i populisti andavano fermati!). Riportiamo il passaggio chiave del
Rapporto: “I sistemi politici della periferia sudeuropea sono stati instaurati
in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da
quell’esperienza. Le loro Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee
socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti
di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e
costituzionali del Sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche:
esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti; governi centrali deboli nei
confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori;
tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di
protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. I Paesi
della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di
riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro
azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla
crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”. L’assalto alla Costituzione
antifascista non è dunque appannaggio esclusivo di comparse come La Russa. Ha
ramificazioni nei poteri forti che dominano i mercati e traggono profitti dalle
guerre Nato (non solo Ucraina). I talk show che denunciano fascisti col braccio
teso farebbero bene a indagare invece su riforme decisioniste che vogliono far
proprie le “buone pratiche di governance” preconizzate da JP Morgan. Nel suo
ultimo libro (Tempi difficili per la Costituzione) Gustavo Zagrebelsky ritiene
ideologica e pretestuosa la “Grande Riforma” istituzionale desiderata da
Bettino Craxi (e Giuliano Amato) e critica l’odierno servilismo degli
intellettuali (aggiungerei i giornalisti): non indipendenti, ma “arredo e, se
si vuole, corredo del potere”. I fautori della “democrazia decidente non si
limitano a prospettare riforme che migliorino la funzione dell’esecutivo (a
esempio la sfiducia costruttiva tedesca, che impone a chi vuol sfiduciare i
governi la contemporanea fiducia a una maggioranza alternativa). Aspirano ai
modelli francese e statunitense, prediligendo la V Repubblica di De Gaulle
introdotta nel 1958 e perfezionata nel 1962 con l’elezione diretta del
presidente. L’obiettivo è l’abbassamento del Parlamento, del potere giudiziario
e della Presidenza super partes, che sarebbe neutralizzata o liquidata,
divenendo emanazione della maggioranza. Un effetto ottenibile sia con
l’elezione diretta del presidente, sia con quella del premier: l’esecutivo ha
comunque da prevalere, e l’equilibrio di Montesquieu tra poteri distinti
svanisce (“Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove
non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere
arresti il potere”). Perché la controriforma riesca bisogna riscrivere anche la
storia. È quello che fanno gli avversari della Costituzione, quando nascondono
il doppio naufragio del presidenzialismo statunitense – oggi alle prese con due
candidati inetti come Trump e Biden – e di quello francese. Uno degli aspetti
più stupefacenti dei nostri dibattiti è il prestigio di cui gode ancora Macron.
Renzi e Calenda vogliono svuotare il Pd seguendo il suo esempio, e fingono
d’ignorare il precipizio in cui è caduto: nel primo mandato (lunga rivolta dei
Gilet gialli) e nel secondo (popolarità del movimento contro la riforma delle
pensioni). È come se l’inquilino dell’Eliseo non sapesse che non è stato il
programma a dargli due volte la vittoria, ma il rigetto dell’alternativa Le
Pen. Da tempo non è più solo l’allungamento dell’età pensionabile che
imbestialisce i francesi: l’intera politica economica di Macron è giudicata
generatrice di disuguaglianze. E lo scontento concerne più che mai la
“verticale del potere”: cioè la natura monarchica della Quinta Repubblica. Guardare
in faccia le insidie del presidenzialismo, prendere atto del fallimento di
Macron e delle presidenze Usa, ricordare la nefasta vittoria della
Controriforma sulle promesse di Brandt negli anni Settanta: solo a queste
condizioni, scegliendo stavolta l’opzione Brandt, ha senso un’ennesima
Bicamerale.
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