"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 22 maggio 2023

ItalianGothic. 53 «La sfavorita».


Ha scritto Giacomo Papi in “Italica” – alle pagine 95/98 – che: Il detenuto 7.047 morì a Roma il 27 aprile 1937 a quarantasei anni. Aveva il morbo di Potts, una tubercolosi ossea di cui soffriva da quando aveva due anni e che gli aveva impedito di crescere (era alto meno di un metro e cinquanta). Sei giorni prima, per non farlo morire in carcere, gli era stata concessa la libertà condizionale. Antonio Gramsci era stato arrestato l'8 novembre 1926 quando era deputato e segretario del Partito comunista d'Italia. A Turi, in Puglia, dove passò la maggior parte degli anni in prigione, scrisse I quaderni dal carcere. Tra il r931 e il 1940 entrarono nelle carceri italiane 2.490.563 persone, in nessun decennio del Novecento furono così tante. Eppure la seconda metà degli anni Trenta fu il periodo più euforico del Ventennio, quello che Renzo De Felice ha chiamato «gli anni del consenso». Nel 1935 la crescita dell'industria pesante dovuta alla guerra in Etiopia innescò una ripresa che però fece aumentare l'inflazione, abbassando i salari reali al loro valore minimo, nonostante gli assegni famigliari introdotti nel 1934. Pagarono la tassa di circolazione 243 mila automobili, 139 mila moto, 79 mila autocarri, 3 mila autobus, più del doppio che negli anni Venti (e morirono in incidenti stradali 3.364 persone); viaggiarono in treno 133 milioni passeggeri e in aereo 56 mila rispetto ai r 5 mila medi del decennio precedente. Ogni anno uscirono in media più di 10 mila libri, quasi 30 al giorno, il doppio che nel 1926. Nel 1937, l'anno in cui Gramsci morì, furono venduti 21 milioni e 426 mila biglietti per il teatro, un record, e 313 milioni e 974 mila per il cinema, gli abbonati alla radio erano già 825.732. Si costruirono 75.418 abitazioni, il consumo di gas era 3.039 milioni di metri cubi e sarebbe salito a 5.393 nel 1940, la produzione di energia elettrica raddoppiò rispetto a dieci anni prima. Un direttore generale di un'azienda di Stato prendeva 47.751 lire all'anno, un usciere 7.953. Un pacchetto di sigarette da 10 costava 1,70 lire, una matita 33 centesimi, il giornale 28, il dentifricio 3,95 lire, un litro di vino 1,70, di latte 1,11, un chilo di pane 1,73, un paio di scarpe da donna 50 lire, da uomo 52, da ragazzo 42. Nel 1935 l'orario di lavoro era stato ridotto a 40 ore settimanali, ed era stata disposta la chiusura di tutti gli uffici e le scuole alle 13 del sabato. Per evitare che il popolo si rammollisse troppo il Gran Consiglio aveva approvato l'introduzione del "sabato fascista" che divenne legge il 20 giugno con il regio decreto legge, n. 1010. A differenza del così detto "sabato inglese" («trionfo dell'individualismo borghese del popolo dai cinque pasti cui non è sufficiente una giornata di riposo con la rituale scampagnata, e che vuole anche godersi la vigilia della festa» scrisse il giornalista, e poi deputato, Olo Nunzi nel libretto che presentò la riforma), le ore libere sarebbero state dedicate a rafforzare «l'efficienza fisica e la preparazione militare che, unite, costituiscono la "tonificazione" della Nazione e quindi il presidio sicuro del grado di civiltà e del benessere raggiunti». Si trattò di una gigantesca operazione di addestramento delle masse, obbligatoria per i minori di ventun anni, che preparava la loro militarizzazione, ma si accompagnava a iniziative culturali come il "sabato teatrale" dove chi guadagnava meno di 800 lire al mese poteva vedere spettacoli a prezzi popolari. A gestirli, insieme ad altre attività ginniche, militari e ricreative, erano l'Opera nazionale Balilla e l'Opera nazionale dopolavoro, a cui nel 1940 erano iscritti 4 milioni di operai, artigiani e contadini. L'idea alla base di questa euforia era che l'Italia potesse tornare a essere un impero come nell'antica Roma e che per riuscirci l'unica strada fosse la guerra. «Il primo passo fuori dai vecchi confini» ha scritto Vittorio Foa in Questo Novecento «fu la conquista militare dell'Etiopia nel 1936. Fu l'ultima conquista coloniale della vecchia Europa e fu anche la prima rottura armata dell'equilibrio post-bellico. [...]. L'opinione pubblica sosteneva l'aggressione, non ricordo altri momenti di così grande consenso verso il regime e il suo Duce. [...]. Soprattutto nel Meridione la prospettiva di colonizzazione, e quindi di lavoro, animava le speranze. Il mondo industriale non sembrava interessato ma la guerra voleva dire comunque domanda e affari». Alla guerra di Etiopia seguì nel 1936 la guerra di Spagna dove si fecero le prove generali della lotta di Liberazione: 80 mila fascisti del Corpo Truppe Volontarie si trovarono a combattere contro 3.500 antifascisti italiani accorsi nelle Brigate Internazionali insieme ad altri 35 mila volontari da 53 nazioni. Tre anni più tardi, nel 1939, ci fu l'invasione dell'Albania. «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà» scrisse in un tema Antonio Gramsci durante l'ultimo anno di liceo (il suo cognome, peraltro, veniva dall'Albania: Gramshi). Ma la conquista del mondo provocò l'isolamento dal mondo, e il regime la cavalcò proclamando l'autarchia, anche se le sanzioni all'Italia decise dalla Società delle Nazioni facevano mancare il carbone e costringevano a dire "fin di pasto" invece di dessert o "fiorellare" al posto di flirt, ma anche a bere e mangiare surrogati italiani, carcadè al posto del tè e caffè di cicoria invece di quello vero. In quell'orgogliosa euforia, però, la guerra sembrava ancora lontana, una questione di vignette e canzoncine. Nessuno sentiva la puzza delle 350 tonnellate di iprite usate dagli italiani in Etiopia (nel 1935-1936 la produzione passò da 3 a r8 tonnellate al giorno) e tutti cantavano Faccetta nera (nel 1935 al Teatro delle Quattro fontane di Roma fu messa in scena trascinando sul palco una ragazza nera in catene che veniva liberata dall' attrice Anna Fougez, che impersonava l'Italia). (…).

“Capitolo quinto”. Dal “Longform” «La sfavorita» pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di maggio 2023:

“Dal terreno delle suore all'Infernetto”.

Un'antinomia a circa 50 chilometri di distanza conduce dalla spoglia collina di Lunghezza, dove sarebbe dovuto nascere Leroy Merlin, all'Infernetto, una zona a due passi dal mare che deve il suo nome alle colonne di fumo che una volta si liberavano dalle grosse carbonaie. Sebbene in passato quell'immagine ricordasse un piccolo inferno, nel 2002 l'Infernetto è per la Lazio Consulting di Anna Paratore e Raffaele Matano la via al paradiso. È su questo territorio, infatti, che l'azienda decide di puntare più in alto. In ballo ci sono circa 90 milioni di euro. Siamo alle porte di Ostia, un territorio martoriato da una "tangentopoli all'amatriciana" che la assedia da un paio di lustri, una serie di fatti di malaffare che riguardano appalti pubblici e concessioni. Una zona che nonostante gli arresti dei colletti bianchi non si è ancora liberata dai suoi tormenti. È ad esempio il feudo di Paolo Frau, "occhi di ghiaccio", il Paoletto della Banda della Magliana, ucciso nel 2002 nella stessa frazione in cui aveva allungato i suoi tentacoli, a Ostia. Fiumicino, Ostia e l'Infernetto sono pronti a scrollarsi definitivamente di dosso le suggestioni pasoliniane e ad avvicinarsi alla città che da sempre aveva relegato quelle zone a luoghi per le vacanze di borgata. Il piano viene messo nero su bianco in un patto territoriale, un accordo tra Regione Lazio, Comune di Roma e altri Enti per promuovere lo sviluppo locale. E così, le aziende presentano 162 proposte, di cui 6 la Lazio Consulting: prevedono un investimento complessivo di circa 90 milioni di euro. Si va da un paio di hotel con annesse aree sportive fino a interi complessi alberghieri composti da 5 edifici, passando per residence per le vacanze o centri commerciali. La punta di diamante è il "9D": un centro commerciale che si estende per un'area complessiva di 24 mila metri quadri. Investimento previsto: 56 milioni di euro. Un affare monumentale per un'azienda con un capitale sociale di 10.000 euro e costituita quattro anni prima per vendere gelati. Viene proposto di costruirlo in un terreno paludoso dove i comitati di quartiere denunciano da anni un rischio idrogeologico. Quello scorcio di campagna romana, dove pini marittimi alti come edifici accompagnano verso il litorale, lungo la via del Mare percorsa da migliaia di romani che in estate si affrontano per ore nel traffico, deve essere sembrato un posto ideale, ben in vista. L'affare a Ostia è importante, il business sembra essere alle porte, e forse è per questo che dietro le quinte la trama societaria di cui la Paratore e Matano fanno parte si intreccia. Enormemente. Per comprenderlo occorre scomodare decine di professionisti sfuggenti e con poca memoria, quindi affidarsi agli atti custoditi nelle sedi delle Camere di commercio d'Inghilterra, Lussemburgo e Panama. Il 30 novembre del 2000 alcuni personaggi finiti successivamente negli scandali dei paradisi fiscali creano un'azienda, la Fayson Trading, a Panama. Questa s.a. controlla l'azienda britannica D Construction Limited, fondata a Londra alcune settimane dopo. Nel 2002, quando l'affare dell'Infernetto promette bene, la D Construction rileva sia il 10% (51 mila euro) delle quote che Anna Paratore aveva nella Lazio Consulting, sia il 90% restante, che in quel momento era in mano alla Mr Partners, che qualche mese dopo verrà amministrata dalla prima moglie di Francesco Meloni. Nel frattempo, in Lussemburgo, un altro paese con regime fiscale privilegiato, viene architettato un altro complesso schema societario. Il 10 luglio 2002 viene fondata nel gran ducato una società, la Polired s.a, che due settimane dopo controllerà la neonata azienda romana Lunghezza Immobiliare srl. È quest'ultima compagine che con 10 mila euro "sostituisce Lazio Consulting srl nella partecipazione alle gare, anche se queste sono state sottoscritte con la presentazione di atti e/o documentazione", rilevano gli atti. Tra Londra, Panama e il Lussemburgo si perdono le tracce degli affari milionari e di quelli mai andati in porto, come quello per il centro commerciale all'Infernetto. "Non ricordavo che [io ndr] fossi il procuratore della D Construction", dice l'avvocato Giovanni Petrillo, ex procuratore speciale della D Costruction e uomo che conclude la compravendita di quote con la Paratore. "In realtà, non credo che abbia nulla da nascondere... Sono passati 20 anni e se ho commesso qualcosa consapevolmente o meno, c'è la prescrizione", continua l'avvocato, nonostante nessuno abbia sollevato questioni legali, ma solo il singolarissimo schema societario. "Io sono una privata cittadina e sono affari miei quello che ho fatto venticinque anni fa", spiega al telefono Anna Paratore. "Tutto quello che mi riguarda è limpido e pulito - prosegue - Poi, quello che altre persone hanno fatto di quelle società non lo so dire e non mi riguarda". Repubblica ha tentato, senza successo, di chiarire con la Paratore anche i suoi legami societari con Milka di Nunzio, la migliore amica di Giorgia Meloni. Di Nunzio, un passato nella Croce Rossa italiana, è stata la mandataria elettorale di Meloni nell'elezioni comunali del 2016. Tra il 2011 e il 2016, la Paratore e di Nunzio sono state quotiste della Raffaello Eventi, una srl romana gestita da due ristoratori che finirà, dopo notevoli perdite nei bilanci, in mano di cittadini stranieri senza fissa dimora.

“Una ragazza fortunata”.

Durante l'intervento di insediamento da presidente del Consiglio alla Camera, Giorgia Meloni dice: "Rappresento ciò che gli inglesi chiamerebbero l'underdog". "Lo sfavorito - precisa, traducendo il termine - che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici". È la chiusura del cerchio. L'apice di una narrazione che l'autobiografia "Io sono Giorgia" ha definito. E che, tuttavia, resta vulnerabile, come abbiamo visto, a un approfondito "fact checking", un lavoro di verifica della stampa che nelle grandi democrazie come gli Stati Uniti o la Germania è prassi consolidata che mette alla prova la credibilità dei capi di Stato e di governo. Vulnerabile persino lì dove il racconto della premier non affonda in tempi lontani. Come l'acquisto della sua prima casa, nel 2009. "Quando ero ragazza fantasticavo spesso sul fatto di poter avere una casa mia, ed ero convinta che sarebbe stato molto difficile riuscirci. Era il tempo in cui arrivavo a fare anche cinque lavori contemporaneamente per guadagnare 1000 euro al mese. E così la domanda era sempre la stessa: avrò mai i soldi per accendere un mutuo?", scrive in "Io sono Giorgia". "Sono riuscita a realizzare il sogno di avere una casa tutta mia dopo i 30 anni.... quaranta metri quadri, a ridosso della Garbatella, pagati forse più del loro valore". In realtà - come documentano le ispezioni ipotecarie - si tratta di un appartamento di circa 70 metri quadri acquistato insieme a una cantina e a un box auto. "Il prezzo della vendita - si legge negli atti - è convenuto in complessivi 370.000 euro". Meloni, che nel 2008 è stata eletta deputata per il Pdl e viene nominata da Berlusconi ministra per la gioventù, paga una parte dell'immobile con i suoi risparmi e un'altra accendendo un mutuo che, sommando capitale ed interessi, ammonta a 303.000 euro. Lo estingue in cinque anni. Nel 2017, dopo aver venduto l'anno precedente questa sua prima casa, acquisterà un nuovo appartamento di otto vani, più cantina e box al prezzo di 505 mila euro più imposte e commissioni immobiliari. E questa volta senza bisogno di un mutuo. "Posso dirmi fortunata rispetto a tanti della mia generazione", scriverà. E per una volta l'affermazione regge al fact checking. (Fine).

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