Il 9 di ottobre dell’anno 1983 l’indimenticabile
Enrico Berlinguer partecipò alla “Marcia della Pace” allora organizzata dal
Partito Comunista Italiano e dalla “gioventù” del Partito. In quella occasione,
nel Suo intervento – riportato su “il Fatto Quotidiano” di ieri col titolo “Berlinguer e la Pace di San Francesco”
-, così ebbe a dire: Nella vostra terra, qui tra Perugia e
Assisi, ha ripreso più volte, a partire dal dopoguerra, il movimento pacifista
italiano: e ogni volta, da questi paesi, da queste contrade, esso ha inaugurato
una nuova fase di lotta. I grandi raduni del Lunedì di Pasqua all'inizio degli
anni Cinquanta; la Marcia da Perugia ad Assisi nel settembre '61; quelle del
'78 e dell'81. In quelle manifestazioni, si sono schierate e hanno lottato le
forze più varie della società e della cultura italiana: comunisti, socialisti,
forze del mondo cattolico e, qui in Umbria, quella corrente dalla ispirazione
etica e civile originale, venata da una sua laica, missionaria religiosità che
Aldo Capitini ha rappresentato al più alto livello e che è anch'essa patrimonio
inestimabile della cultura italiana. (...). Ascoltate ora queste parole
pronunciate da questa Rocca Maggiore di Assisi, a conclusione della Marcia del
1961: "Il tempo è maturo per una grande svolta del genere umano. Il
passato è passato, basta con le torture, basta con le uccisioni per qualsiasi
motivo; basta con il pericolo che enormi forze distruttive siano in mano alla
decisione di pochi uomini... da questo orizzonte aperto, infinito e fraterno,
sacro da più di sette secoli a ogni essere che nasce alla vita e alla
compresenza di tutti, scenda una volontà intrepida e serena di resistere alla
guerra, di propositi costruttivi di pace. Sono parole di Aldo Capitini. Ebbene,
io credo che in esse ancora oggi si ritrovi un raccordo tra la storia antica
dell'Umbria, lo spiritualismo di Francesco Bernardone, il poverello di Assisi,
e di Jacopone da Todi - fratelli in pace e in povertà, e in radicale polemica
con il loro tempo - e la realtà moderna del movimento operaio e la religiosità
laica e riformista di Capitini. (...). Non sarò certo io a dire qui, a voi, il
significato storico e attuale del francescanesimo. "Il Signore mi ha
rivelato essere suo volere che io fossi un novello pazzo del mondo",
racconta la Legenda perusina. E tra gli aspetti della
"follia" di Francesco c'era la contestazione radicale e intransigente
della guerra, della violenza, oltreché della proprietà e del potere. Di
fronte alla gerarchia ecclesiastica, fino al vescovo di Roma, Francesco
contestava la "ragionevolezza" della guerra, delle crociate. (...).
Era una rottura profetica netta e totale, un rifiuto secco della '"
pretesa "ragionevolezza", della accettabilità della cosiddetta
"guerra giusta" o "guerra santa"; ed era, al tempo stesso,
l'affermazione integrale del primato della pace e della ricerca del dialogo e
dell'accordo con tutti gli uomini di buona volontà che è indispensabile
perseguire a ogni costo perché la pace sia garantita. Questa lezione di
Francesco è stata ripresa nei nostri tempi dal Concilio Vaticano II. In una
delle costituzioni del Concilio, la Gaudium et Spes, si dice: "La corsa
agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell'umanità e danneggia in modo
intollerabile i poveri. E c'è molto da temere che, se tale corsa continuerà,
produrrà un giorno tutte le stragi delle quali già va preparando i mezzi".
(...). Di fronte a questa realtà, dire che si tratta di un movimento
strumentale o a senso unico o addirittura che esso sia dovuto all'opera di
infiltrazioni straniere è una pura sciocchezza e magari anche indice di cattiva
coscienza. Altra cosa è domandarsi in buonafede, come fanno tante persone, se
un movimento per la difesa della pace sia veramente necessario e se esso possa
davvero servire a qualcosa. È una domanda che sorge oggi in conseguenza di due
convinzioni abbastanza diffuse, ma che a noi sembrano profondamente sbagliate e
nocive. Secondo la prima si giudica impossibile che scoppi una terza guerra
mondiale dato che la potenza distruttiva delle armi che vi sarebbero impiegate
è giunta a tali livelli che la guerra equivarrebbe alla distruzione della
civiltà umana e di gran parte della popolazione terrestre. Da questa
constatazione indubbiamente veritiera sul carattere che avrebbe una guerra
nucleare si trae la conclusione sbagliata che a essa non si può giungervi mai
perché la saggezza dei responsabili degli Stati alla fin fine prevarrà. Le cose
purtroppo, non stanno così. Gli sviluppi politici, militari e tecnologici sono
già arrivati a un punto in cui la guerra nucleare può realmente scoppiare. Gli
eventi che possono accenderla possono essere diversi e non tutti possono
rimanere sotto controllo. (...). Ma alla guerra mondiale si può giungere anche
per altre cause. Essa può essere provocata, ad esempio, da un coinvolgimento
diretto, crescente e irreversibile, delle due massime potenze in una delle
tante guerre o conflitti locali in corso in vari continenti, come quello nel
Medio Oriente e in quel paese che è il Libano, dove anche le forze armate
italiane sono impegnate. (...). Per salvare la pace, si deve operare con
profondità e a lungo, su diversi terreni, per rimuovere le cause che possono
portare alla guerra. Quali sono le cause da rimuovere? 1) gli squilibri e le
disuguaglianze economiche, specie quelle tra il Nord e il Sud del mondo,
lavorando per un nuovo e giusto ordine economico internazionale, contro la fame
e la miseria che affliggono tanta parte dell'umanità e per un nuovo tipo di
sviluppo nei Paesi industrializzati; 2) l'esistenza di conflitti tra gli Stati,
adoperandosi per la loro composizione pacifica attraverso un negoziato che
riconosca il diritto di ogni nazione alla sua indipendenza; 3) la rigidità dei
blocchi, lavorando per il loro progressivo superamento; 4) la corsa agli
armamenti, con l'obiettivo di giungere fino alla messa al bando totale di
qualsiasi arma atomica e nucleare; (...). È a ciò che bisogna reagire con una
mobilitazione di forze che sia al tempo stesso pluralista e universalista, e
perciò unitariamente raccolta at-torno a quell'imperativo comune, universale e
pluralista, che dice: prima di tutto la pace. (...). Di seguito, un
testo di Lev Tolstoj contro la guerra e le menzogne per giustificarla riportato
sulla edizione de’ “il Fatto Quotidiano” – “Patria
mia, fai guerra o pace?” – del 18 di maggio ultimo: È come se non fossero mai
esistiti Voltaire, Montaigne, Pascal, Swift, Kant, Spinoza e centinaia di altri
scrittori che hanno denunciato con fermezza l'insensatezza e l'inutilità della
guerra, descrivendone la crudeltà, l'immoralità, la ferocia; e, soprattutto, è
come se non fosse mai esistito Cristo e il suo predicare la fratellanza fra
uomini, l'amore per questi e per Dio. Uno rammenta tutto questo e, guardandosi
attorno, non rimane più inorridito dagli orrori della guerra, ma da qualcosa
che li supera tutti: la consapevolezza dell'impotenza della ragione umana...
Tutta questa eccitazione innaturale, febbrile, folle, che si è impadronita
degli strati sociali più alti della Russia, è unicamente segno della
consapevolezza della criminalità della vicenda. Tutti questi discorsi insolenti
e menzogneri sulla fedeltà e la devozione al monarca, sulla disponibilità a
sacrificare la propria vita (o meglio, quella di qualcun altro); tutte queste
promesse di battersi per terre straniere; tutte queste insensate benedizioni
reciproche con stendardi vari e brutte icone, tutte queste preghiere; tutte
queste scorte di lenzuola e bende, tutti questi drappelli di crocerossine,
tutti questi sacrifici della Marina e la Croce Rossa per un governo che -
potendo riscuotere dal popolo tutto il denaro di cui ha bisogno e avendo
dichiarato guerra - dovrebbe organizzare la flotta e i mezzi necessari per
assistere i feriti; tutte queste preghiere slave pompose, insensate e blasfeme,
che i giornali riportano come fossero una notizia importante; tutte queste
manifestazioni, inni, "urrà"; tutta questa terribile e disperata
mendacia giornalistica che, essendo universale, non teme di venire smascherata;
tutto questo sbigottimento e smarrimento in cui versa ora la società russa e
che a poco a poco si trasmette alle masse, tutto questo è sintomo di
consapevolezza dell'atto terribile che si va compiendo. Chiedete a un soldato
semplice, a un appuntato, a un sottufficiale che ha abbandonato i suoi genitori
anziani, la moglie e i figli, per quale ragione si prepara a uccidere persone a
lui sconosciute: all'inizio sarà sorpreso dalla vostra domanda. È un soldato,
ha prestato giuramento e deve obbedire agli ordini dei suoi superiori. Se gli
si dice che la guerra, cioè l'uccisione di uomini, non rispetta il comandamento
"non uccidere", questi dirà: "E quindi che si fa quando viene
attaccato lo zar, la fede ortodossa?" (Uno mi ha detto, in risposta alla
mia domanda: "E se attaccano quanto abbiamo di sacro? - Cioè? - La bandiera"). Se si cerca di spiegare a un soldato del genere che il comandamento di Dio è
più importante non solo della bandiera, ma di qualsiasi altra cosa al mondo, si
zittisce o si arrabbia e ti denuncia ai superiori. Se chiedete a un generale
perché va in guerra, vi risponderà che è un soldato e che l'esercito è
indispensabile per la difesa della patria. Il fatto che l'omicidio non sia
conforme allo spirito della legge cristiana non lo turba. Ma più di tutto il
generale, come il soldato, invece di rispondere in maniera personale alla domanda
"cosa si può fare?", tirerà sempre in ballo lo Stato, la patria.
Chiedete ai diplomatici, che con i loro raggiri creano terreno fertile per la
guerra, perché lo fanno. Vi diranno che il loro obiettivo è instaurare la pace
tra le nazioni, e che tale obiettivo non si persegue con teorie idealistiche e
irrealizzabili, ma attraverso la diplomazia e la vocazione alla guerra. Così
come i militari rispondono in modo generico anziché personale, allo stesso modo
i diplomatici parlano degli interessi della Russia, della malafede delle altre
potenze, dell'equilibrio europeo, e non della loro vita e delle loro attività.
Se si chiede ai giornalisti perché incitano la gente alla guerra con i loro
articoli, essi diranno che le guerre in generale sono necessari e utili,
soprattutto quella attuale, e confermeranno questa opinione con vaghe frasi
patriottiche. Tutti i promotori della guerra giustificheranno in questa maniera
il proprio coinvolgimento. Potranno anche essere d'accordo sul fatto che
sarebbe auspicabile stroncare la guerra, ma affermeranno che ormai ciò è
impossibile, poiché loro, come russi e come persone che occupano le ben note
posizioni di leader, cittadini, medici, volontari della Croce Rossa, sono
chiamati ad agire, non a teorizzare. Lo stesso dirà lo zar, che sembrerebbe
essere l'artefice dell'intera vicenda. Non vuole nemmeno prendere in
considerazione l'idea di fermare il conflitto. Dirà che non può non fare ciò
che l'intera nazione gli chiede; sebbene riconosca la guerra come un grande
male, e abbia usato e sia pronto a usare tutti i mezzi per fermarla, date le
circostanze attuali non poteva non dichiarare guerra e non può non portarla
avanti. È necessario per il bene e la grandezza della Russia. Alla domanda sul
perché lui, o Ivan, o Pietro, o Nicola, pur riconoscendo il dovere imposto
dalla legge cristiana di non uccidere il prossimo, ma amarlo e servirlo, si
permettano di partecipare a un conflitto, ossia di commettere violenza, rapina
o omicidio, tutte queste persone risponderanno sempre che lo fanno in nome
della patria, o della fede, o dell'onore, o della civiltà, o del bene futuro di
tutta l'umanità, qualcosa di astratto e vago. Inoltre, tutte queste persone
sono sempre così impegnate nei preparativi per la guerra, o negli ordini o
nelle considerazioni su di essa, che nel tempo libero possono solo riposare
dalle loro fatiche e non hanno tempo per discutere della loro vita; lo
ritengono ozioso.
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