Ha scritto Giacomo Papi alle pagine 123/127 della Sua “Italica”: (…). I fascisti fecero le cose per bene. Il censimento nazionale dei cittadini da perseguitare fu avviato il 22 agosto 1938, prima che le leggi razziali fossero approvate.
L'indagine
doveva essere condotta con riserbo e concludersi in quattro giorni, ma il
termine ultimo per l'invio delle schede fissato «non oltre il 26 agosto» non fu
rispettato anche perché molte famiglie erano in villeggiatura. Lo spoglio fu
gestito dalla Direzione generale per la demografia e la razza del Ministero
degli Interni, soprannominata "Demorazza". In ogni scheda dovevano
essere indicate parentele, la religione, la professione, i beni posseduti e le
eventuali benemerenze, per esempio l'iscrizione al partito. L'ISTAT consegnò i
dati il 14 novembre 1938, un mese prima che la Camera - Mussolini presente,
assenti i deputati di origine ebraica - convertisse in legge i regi
decreti-legge antiebraici dei mesi precedenti e votasse all'unanimità il
proprio scioglimento in una Camera dei Fasci e delle Corporazioni non più
elettiva. Il censimento contò 58.412 ebrei residenti in Italia di cui 10.380
stranieri e 48.032 italiani (Un ebreo per mille abitanti; non un ebreo sopra
ogni mille abitanti, titolò il mensile «La difesa della razza»). A questo
punto, però, i numeri si fanno più vaghi: nell'autunno del 1938 furono cacciati
dalle scuole circa 200 insegnanti, 4.400 studenti delle elementari, 1.000
studenti delle secondarie e 200 delle università, persero il lavoro circa 400
dipendenti pubblici, 500 privati, 2.500 professionisti e 150 militari. La
persecuzione avvenne in due fasi: nel 1938 si colpirono i diritti, nel 1943 la
vita delle persone. A legarle fu l'accanimento sulle proprietà: una serie di
sequestri, confische e furti gestiti da un apposito ente, l'EGELI, che colpì
circa 8 mila italiani e 230 ditte in 46 province. Ne rimane una traccia
parziale nelle 540 pagine del rapporto della Commissione Anselmi presentato
nell'aprile 2001 alla Presidenza del Consiglio. (…). Dopo le cose furono presi
i corpi. Dai dati del CDEC risulta che dopo l'8 settembre 1943 furono arrestate
7.579 persone e che 6.806 furono deportate nei campi dove morirono in 5.969 e
da cui 837 tornarono. Altre centinaia riuscirono a scappare, morirono in
carcere, furono uccise cercando di espatriare o si suicidarono per non essere
prese. «È un lavoro che non finirà mai» mi ha detto Liliana Picciotto, (…),
perché il 1938 continua ad accadere. Da bambino credevo di essere zingaro. Di
avere un'antenata ebrea, l'ho scoperto a ventitré anni quando morì mio nonno.
Della famiglia di mia madre si sapeva pochissimo perché erano poveri, e la
povertà è spesso senza memoria. Qualche volta mia madre evocava una misteriosa
bisnonna, la madre di suo padre, di cui si conosceva solo il nome e la razza:
Virginia, zingara. Avremmo saputo in seguito che era una bugia dettata forse
dalla vergogna, certamente dalla paura che le leggi razziali sarebbero potute
tornare. Mio nonno si chiamava Otello e sua moglie Tosca, come le opere. Otello
morì nel 1978 e nel 199r mia madre riprese i contatti con sua zia Norma, la
sorella del nonno, che nel dopoguerra era emigrata in Australia e che mia madre
non vedeva da quando era bambina. Un mese dopo arrivò la prima risposta. Ne
seguirono altre, una ogni mese. Nelle lettere Norma allegava fotografie, ma
soprattutto si abbandonava a racconti fluviali e sconnessi, scritti
nell'italiano dimenticato di una donna di ottantaquattro anni con la quinta
elementare che da decenni viveva e pensava soltanto in inglese. Raccontava
oscuri episodi della vita di persone di cui restava in mia madre soltanto l'eco
del nome - il nonno Primo e la nonna Antenesca, i prozii Adolfo, Ettore e
Amelia- e tutto pareva immerso in una Milano nebbiosa popolata di sarte e
operai, piena di spie, falsari, prostitute e poliziotti. Ombre. «Cammino sino a
S. Fedele, mezza vestita, in un luogo freddo gabinetto aperto donne di strada e
mio padre», «Robertino diciotto anni, dottore in agronomia, l'unico che
Mussolini le diede il diploma di dottore, ma troppo studio, venne malato di
tubercolosa e morì.» La rivelazione su Virginia, sua madre e madre di mio
nonno, è nella lettera del I7 ottobre 1991, a pagina 5. Sono poche righe. «Poi
io lavoravo negli alberghi poi scappai 8 sett 43 - odiavo i tedeschi sapendo
torturavano così partigiani. Seppero i tedeschi che mamma era ebrea - io non
fui battezzata - fortuna trovarono tuo padre quelle XX - devi venire con noi -
Sei di sangue ebreo. Disse sono tubercoloso, a noi non interessa - ai sangue
ebreo - ma mi sposo con questa - era tua madre - Vollero il nome - se è ebrea
tutti campi di concentramento; cià altri fratelli? Non so dove sono. Così ogni
giorno furono per nonna ma zia Amelia la portò a Tremezzo - si stancò
"Portatemi a Milano". Si chiuse in casa si pulì si vestì s'avvelenò.
La vicina telefonò a zia Amelia. 3 giorni parlava una lingua che nessun capì.
Morì.» Virginia Pirani, la nonna di mia madre, nata a Ferrara il 13 febbraio
1871 e morta a Tremezzo nel 1944, «si chiuse in casa si pulì si vestì s'avvelenò».
È un numero in più, un'altra ombra di cui non rimane memoria. La reticenza di
mio nonno su sua madre è la stessa che indusse molti padri ebrei a compilare le
schede del censimento d'agosto senza parlarne in famiglia, ed è la stessa che,
dopo la guerra, fece tacere i deportati e lasciò in pace i carnefici. (…). La
visione si anima, diventa una sfilata, «i loro corpi sono masse oscure, i loro
volti sono maschere dalle occhiaie vuote», ma la memoria sbiadisce come le
fotografie della famiglia di mia madre, come Virginia Pirani, la mia bisnonna
ebrea, che a settantatré anni decise di lavarsi e avvelenarsi per non essere
presa. La memoria è tutto quello a cui possiamo aggrapparci. Vale per i
discendenti delle vittime e vale ancora di più per quelli degli assassini,
perché la vergogna dura di più del dolore. Siamo tutti circondati dalla folla
segreta dei morti. Di seguito, “I
tormenti radicali di Roccella, trafitta da troppa famiglia” di Pino
Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 25 di maggio 2023: Eugenia
Roccella, ministro della Famiglia, è molto più di un caso politico. E molto
meno. È prima di tutto un caso umano di raro tormento esistenziale. E
specialmente un caso psichiatrico in purezza. Le ragazze del Salone del Libro
hanno fatto benissimo a contestarla in qualità di esponente politico della
destra conservatrice, male a non lasciarla parlare, malissimo a non leggere
prima il libro che avrebbe dovuto presentare: Una famiglia radicale, che non è
“romanzo”, come recita il sottotitolo, ma autobiografia della propria
addolorata storia familiare, segnata dall’abbandono, dal disordine, dall’amore
sempre frustrato, tra lei figlia, la madre Wanda Raheli, che fu pittrice,
cantante, attrice, e il padre, Franco Roccella, tra i fondatori del Partito
radicale, deputato, viaggiatore, affabulatore, il più fraterno tra gli amici di
Marco Pannella, e poi il più misconosciuto, tradito dai debiti, dalle amanti,
dal narcisismo, che è la figura centrale del suo commovente disastro familiare.
Una storia che è l’esatto contrario della famiglia perfettissima, “naturale”,
quel “nucleo forte di spontaneità e corporeità, connesso alla maternità” che
così tanto le è mancato nella sua prima vita, da averlo trasformato nel suo
intero orizzonte politico. Nella sua ossessione non più solo interiore. Ma
universale, prescrittiva, che ha finito per imprigionarla in quello sguardo che
contiene dolore, frustrazione e insieme vendetta. Una storia che sarebbe
piaciuta ad Arthur Miller, il drammaturgo, se raccontata dall’alto. E contemporaneamente
piacerà a Maria De Filippi e ai suoi autori, fabbricanti di cibo per
casalinghe, se guardata dal basso, con lacrime, applausi e colonna sonora. È
tutta lì la sua mappa interiore, il labirinto da cui non è più uscita. Eugenia
Maria Roccella nasce il 15 novembre 1953. Viene al mondo come interferenza alla
vita libera di padre e madre che hanno troppo da fare per occuparsene. E dunque
la scaricano, dai sei mesi ai sei anni, alle cure della zia siciliana, Sara,
detta Sarina, la zia nubile, di quelle che abitano i racconti di Luigi Capuana
e Verga, nella Sicilia ancestrale, a Riesi, minuscolo paese in provincia di
Caltanissetta. Eugenia cresce in un Eden agricolo, un altrove fiabesco, pieno
di giochi tra i vicoli, animali, tramonti e la cucina di casa, il gineceo di
nonne, cugine, zie, domestiche che insieme alle chiacchiere e alle
superstizioni, cucinano le melanzane e la vita, un giorno alla volta. Da laggiù
arriverà a Roma per frequentare nientemeno che la scuola americana, altra
lingua, altri paesaggi. Con la nuova infanzia, gli incubi: “I miei spesso
uscivano e mi lasciavano dalla portiera”. Dunque “solitudine e vuoto riempivano
le mie notti romane”. Sogna “creature spaventose e aguzzini”. Si addormenta
“circondata da bambole rotte”. In pieni anni Settanta le tocca una adolescenza
spaesata e anoressica. Del liceo Tasso ricorda assemblee e botte. Della casa,
la confusione delle eterne cene politiche tra “gli amici di papà e mamma”, gli
adulti infervorati dalle comuni battaglie, dalle carriere, dai congressi, dalle
riviste, ognuno preso dalla propria “libertà senza limiti”. “Da noi venivano
tutti”, racconta, Marco, naturalmente, “il pupillo di mio padre”, di bellezza
speciale, furori ideologici, omosessualità “sempre segreta” esercitata da padre
padrone. E poi Sergio Stanzani, Stefano Rodotà, Gino Giugni, Tullio De Mauro,
Giuliano Amato, Lino Jannuzzi. A 17 anni, “era fatale”, tocca a lei farsi
radicale, diventare militante agguerrita, femminista con la rosa nel pugno, e
nel cuore le battaglie per il divorzio e l’aborto. A 22 anni pubblica il
pamphlet Aborto, facciamo da noi, 1975. E alla giornalista Paola Fallaci che le
chiede se davvero ammette l’uso delle pompe per biciclette come strumento
d’intervento, Eugenia risponde: “Non c’è niente di stregonesco. È soltanto lo
strumento che può utilizzare chi non ha l’aspiratore elettrico, difficile da
procurarsi, costoso”. Come nella più classica delle conversioni, è dalla cima
di quelle certezze, che Roccella cambierà il suo intero emisfero politico. E
dalla conturbante setta di Marco Pannella, che lascia nel 1990, rinascerà in
quella degli ultracattolici, prima in segreto, commossa dal crocefisso “che
guardavo per ore”, trafitta dalla sua immagine “di sacrificio e morte, ma anche
di amore estremo”. Conversione sofferta, disturbante, che impiegherà anni a
diventare pubblica, ma che le spalanca un intero mondo di nuove opportunità,
finalmente deputata del centrodestra, poi sottosegretaria alle Politiche
sociali, infine ministra. Si rivela al mondo nel 1997, elogiando Forza Italia,
Silvio Berlusconi, la sua leadership, il suo Family Day che officia ogni anno
con tutti i divorziati al seguito. Famiglia e sessualità restano la sua
ossessione e da quel momento la sua azione politica. Disprezzando la sessualità
nascosta di Pannella, si sottomette senza turbamenti a quella esibita di
Berlusconi. Con il suo nuovo alleato, Roberto Formigoni, Comunione e
Liberazione in purezza, processi e ipocrisia compresi, firma una lettera
pubblica, anno 2011, per chiedere di “sospendere il giudizio sul caso Ruby” e
assicurare “una vera presunzione di innocenza a Berlusconi”, vittima
“dell’offensiva della magistratura iniziata con Tangentopoli”. La sua marcia
procede a destra. E sempre dichiarandosi conservatrice, cambia tutte le caselle
a sua disposizione. Dopo Silvio B. si smarca nel Gruppo misto di Gaetano
Quagliariello, altro pentitissimo ex radicale. Fonda il comitato “Di mamma ce
n’è una sola”. Entra ed esce dall’Udc. Raccoglie le firme contro le unioni
civili. Contro i Dico. Contro “l’aborto facile” della pillola Ru486. Entra
finalmente in Fratelli d’Italia, per sedersi accanto alla nuova sorella,
Giorgia Meloni, che a risarcimento dei suoi turbamenti, la nomina ministra
della Famiglia, 13 ottobre 2022, il programma in una frase: “Vogliamo ripartire
dal senso del materno”, che suscita l’entusiasmo dalla Nazione nascente, in
battaglia contro l’inverno demografico e il minaccioso complotto della
sostituzione etnica. Peccato per Torino che poteva essere una luce sulla sua
tenebrosa storia. E peccato per lei, che da vittima sacrificale, “mi chiamano
bigotta, reazionaria, mi tirano le freccette appuntite”, ha continuato ad
assaporare la sua insonne penitenza, il suo filiale martirio che in nome della
famiglia l’ha resa una macchina celibe anche da sposata.
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