"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 30 maggio 2023

ItalianGothic. 55 Eugenia Roccella, “ministro” della “famiglia”: «Commossa dal crocefisso “che guardavo per ore”, trafitta dalla sua immagine “di sacrificio e morte, ma anche di amore estremo”».


Ha scritto Giacomo Papi alle pagine 123/127 della Sua “Italica”: (…). I fascisti fecero le cose per bene. Il censimento nazionale dei cittadini da perseguitare fu avviato il 22 agosto 1938, prima che le leggi razziali fossero approvate.

L'indagine doveva essere condotta con riserbo e concludersi in quattro giorni, ma il termine ultimo per l'invio delle schede fissato «non oltre il 26 agosto» non fu rispettato anche perché molte famiglie erano in villeggiatura. Lo spoglio fu gestito dalla Direzione generale per la demografia e la razza del Ministero degli Interni, soprannominata "Demorazza". In ogni scheda dovevano essere indicate parentele, la religione, la professione, i beni posseduti e le eventuali benemerenze, per esempio l'iscrizione al partito. L'ISTAT consegnò i dati il 14 novembre 1938, un mese prima che la Camera - Mussolini presente, assenti i deputati di origine ebraica - convertisse in legge i regi decreti-legge antiebraici dei mesi precedenti e votasse all'unanimità il proprio scioglimento in una Camera dei Fasci e delle Corporazioni non più elettiva. Il censimento contò 58.412 ebrei residenti in Italia di cui 10.380 stranieri e 48.032 italiani (Un ebreo per mille abitanti; non un ebreo sopra ogni mille abitanti, titolò il mensile «La difesa della razza»). A questo punto, però, i numeri si fanno più vaghi: nell'autunno del 1938 furono cacciati dalle scuole circa 200 insegnanti, 4.400 studenti delle elementari, 1.000 studenti delle secondarie e 200 delle università, persero il lavoro circa 400 dipendenti pubblici, 500 privati, 2.500 professionisti e 150 militari. La persecuzione avvenne in due fasi: nel 1938 si colpirono i diritti, nel 1943 la vita delle persone. A legarle fu l'accanimento sulle proprietà: una serie di sequestri, confische e furti gestiti da un apposito ente, l'EGELI, che colpì circa 8 mila italiani e 230 ditte in 46 province. Ne rimane una traccia parziale nelle 540 pagine del rapporto della Commissione Anselmi presentato nell'aprile 2001 alla Presidenza del Consiglio. (…). Dopo le cose furono presi i corpi. Dai dati del CDEC risulta che dopo l'8 settembre 1943 furono arrestate 7.579 persone e che 6.806 furono deportate nei campi dove morirono in 5.969 e da cui 837 tornarono. Altre centinaia riuscirono a scappare, morirono in carcere, furono uccise cercando di espatriare o si suicidarono per non essere prese. «È un lavoro che non finirà mai» mi ha detto Liliana Picciotto, (…), perché il 1938 continua ad accadere. Da bambino credevo di essere zingaro. Di avere un'antenata ebrea, l'ho scoperto a ventitré anni quando morì mio nonno. Della famiglia di mia madre si sapeva pochissimo perché erano poveri, e la povertà è spesso senza memoria. Qualche volta mia madre evocava una misteriosa bisnonna, la madre di suo padre, di cui si conosceva solo il nome e la razza: Virginia, zingara. Avremmo saputo in seguito che era una bugia dettata forse dalla vergogna, certamente dalla paura che le leggi razziali sarebbero potute tornare. Mio nonno si chiamava Otello e sua moglie Tosca, come le opere. Otello morì nel 1978 e nel 199r mia madre riprese i contatti con sua zia Norma, la sorella del nonno, che nel dopoguerra era emigrata in Australia e che mia madre non vedeva da quando era bambina. Un mese dopo arrivò la prima risposta. Ne seguirono altre, una ogni mese. Nelle lettere Norma allegava fotografie, ma soprattutto si abbandonava a racconti fluviali e sconnessi, scritti nell'italiano dimenticato di una donna di ottantaquattro anni con la quinta elementare che da decenni viveva e pensava soltanto in inglese. Raccontava oscuri episodi della vita di persone di cui restava in mia madre soltanto l'eco del nome - il nonno Primo e la nonna Antenesca, i prozii Adolfo, Ettore e Amelia- e tutto pareva immerso in una Milano nebbiosa popolata di sarte e operai, piena di spie, falsari, prostitute e poliziotti. Ombre. «Cammino sino a S. Fedele, mezza vestita, in un luogo freddo gabinetto aperto donne di strada e mio padre», «Robertino diciotto anni, dottore in agronomia, l'unico che Mussolini le diede il diploma di dottore, ma troppo studio, venne malato di tubercolosa e morì.» La rivelazione su Virginia, sua madre e madre di mio nonno, è nella lettera del I7 ottobre 1991, a pagina 5. Sono poche righe. «Poi io lavoravo negli alberghi poi scappai 8 sett 43 - odiavo i tedeschi sapendo torturavano così partigiani. Seppero i tedeschi che mamma era ebrea - io non fui battezzata - fortuna trovarono tuo padre quelle XX - devi venire con noi - Sei di sangue ebreo. Disse sono tubercoloso, a noi non interessa - ai sangue ebreo - ma mi sposo con questa - era tua madre - Vollero il nome - se è ebrea tutti campi di concentramento; cià altri fratelli? Non so dove sono. Così ogni giorno furono per nonna ma zia Amelia la portò a Tremezzo - si stancò "Portatemi a Milano". Si chiuse in casa si pulì si vestì s'avvelenò. La vicina telefonò a zia Amelia. 3 giorni parlava una lingua che nessun capì. Morì.» Virginia Pirani, la nonna di mia madre, nata a Ferrara il 13 febbraio 1871 e morta a Tremezzo nel 1944, «si chiuse in casa si pulì si vestì s'avvelenò». È un numero in più, un'altra ombra di cui non rimane memoria. La reticenza di mio nonno su sua madre è la stessa che indusse molti padri ebrei a compilare le schede del censimento d'agosto senza parlarne in famiglia, ed è la stessa che, dopo la guerra, fece tacere i deportati e lasciò in pace i carnefici. (…). La visione si anima, diventa una sfilata, «i loro corpi sono masse oscure, i loro volti sono maschere dalle occhiaie vuote», ma la memoria sbiadisce come le fotografie della famiglia di mia madre, come Virginia Pirani, la mia bisnonna ebrea, che a settantatré anni decise di lavarsi e avvelenarsi per non essere presa. La memoria è tutto quello a cui possiamo aggrapparci. Vale per i discendenti delle vittime e vale ancora di più per quelli degli assassini, perché la vergogna dura di più del dolore. Siamo tutti circondati dalla folla segreta dei morti. Di seguito, “I tormenti radicali di Roccella, trafitta da troppa famiglia” di Pino Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 25 di maggio 2023: Eugenia Roccella, ministro della Famiglia, è molto più di un caso politico. E molto meno. È prima di tutto un caso umano di raro tormento esistenziale. E specialmente un caso psichiatrico in purezza. Le ragazze del Salone del Libro hanno fatto benissimo a contestarla in qualità di esponente politico della destra conservatrice, male a non lasciarla parlare, malissimo a non leggere prima il libro che avrebbe dovuto presentare: Una famiglia radicale, che non è “romanzo”, come recita il sottotitolo, ma autobiografia della propria addolorata storia familiare, segnata dall’abbandono, dal disordine, dall’amore sempre frustrato, tra lei figlia, la madre Wanda Raheli, che fu pittrice, cantante, attrice, e il padre, Franco Roccella, tra i fondatori del Partito radicale, deputato, viaggiatore, affabulatore, il più fraterno tra gli amici di Marco Pannella, e poi il più misconosciuto, tradito dai debiti, dalle amanti, dal narcisismo, che è la figura centrale del suo commovente disastro familiare. Una storia che è l’esatto contrario della famiglia perfettissima, “naturale”, quel “nucleo forte di spontaneità e corporeità, connesso alla maternità” che così tanto le è mancato nella sua prima vita, da averlo trasformato nel suo intero orizzonte politico. Nella sua ossessione non più solo interiore. Ma universale, prescrittiva, che ha finito per imprigionarla in quello sguardo che contiene dolore, frustrazione e insieme vendetta. Una storia che sarebbe piaciuta ad Arthur Miller, il drammaturgo, se raccontata dall’alto. E contemporaneamente piacerà a Maria De Filippi e ai suoi autori, fabbricanti di cibo per casalinghe, se guardata dal basso, con lacrime, applausi e colonna sonora. È tutta lì la sua mappa interiore, il labirinto da cui non è più uscita. Eugenia Maria Roccella nasce il 15 novembre 1953. Viene al mondo come interferenza alla vita libera di padre e madre che hanno troppo da fare per occuparsene. E dunque la scaricano, dai sei mesi ai sei anni, alle cure della zia siciliana, Sara, detta Sarina, la zia nubile, di quelle che abitano i racconti di Luigi Capuana e Verga, nella Sicilia ancestrale, a Riesi, minuscolo paese in provincia di Caltanissetta. Eugenia cresce in un Eden agricolo, un altrove fiabesco, pieno di giochi tra i vicoli, animali, tramonti e la cucina di casa, il gineceo di nonne, cugine, zie, domestiche che insieme alle chiacchiere e alle superstizioni, cucinano le melanzane e la vita, un giorno alla volta. Da laggiù arriverà a Roma per frequentare nientemeno che la scuola americana, altra lingua, altri paesaggi. Con la nuova infanzia, gli incubi: “I miei spesso uscivano e mi lasciavano dalla portiera”. Dunque “solitudine e vuoto riempivano le mie notti romane”. Sogna “creature spaventose e aguzzini”. Si addormenta “circondata da bambole rotte”. In pieni anni Settanta le tocca una adolescenza spaesata e anoressica. Del liceo Tasso ricorda assemblee e botte. Della casa, la confusione delle eterne cene politiche tra “gli amici di papà e mamma”, gli adulti infervorati dalle comuni battaglie, dalle carriere, dai congressi, dalle riviste, ognuno preso dalla propria “libertà senza limiti”. “Da noi venivano tutti”, racconta, Marco, naturalmente, “il pupillo di mio padre”, di bellezza speciale, furori ideologici, omosessualità “sempre segreta” esercitata da padre padrone. E poi Sergio Stanzani, Stefano Rodotà, Gino Giugni, Tullio De Mauro, Giuliano Amato, Lino Jannuzzi. A 17 anni, “era fatale”, tocca a lei farsi radicale, diventare militante agguerrita, femminista con la rosa nel pugno, e nel cuore le battaglie per il divorzio e l’aborto. A 22 anni pubblica il pamphlet Aborto, facciamo da noi, 1975. E alla giornalista Paola Fallaci che le chiede se davvero ammette l’uso delle pompe per biciclette come strumento d’intervento, Eugenia risponde: “Non c’è niente di stregonesco. È soltanto lo strumento che può utilizzare chi non ha l’aspiratore elettrico, difficile da procurarsi, costoso”. Come nella più classica delle conversioni, è dalla cima di quelle certezze, che Roccella cambierà il suo intero emisfero politico. E dalla conturbante setta di Marco Pannella, che lascia nel 1990, rinascerà in quella degli ultracattolici, prima in segreto, commossa dal crocefisso “che guardavo per ore”, trafitta dalla sua immagine “di sacrificio e morte, ma anche di amore estremo”. Conversione sofferta, disturbante, che impiegherà anni a diventare pubblica, ma che le spalanca un intero mondo di nuove opportunità, finalmente deputata del centrodestra, poi sottosegretaria alle Politiche sociali, infine ministra. Si rivela al mondo nel 1997, elogiando Forza Italia, Silvio Berlusconi, la sua leadership, il suo Family Day che officia ogni anno con tutti i divorziati al seguito. Famiglia e sessualità restano la sua ossessione e da quel momento la sua azione politica. Disprezzando la sessualità nascosta di Pannella, si sottomette senza turbamenti a quella esibita di Berlusconi. Con il suo nuovo alleato, Roberto Formigoni, Comunione e Liberazione in purezza, processi e ipocrisia compresi, firma una lettera pubblica, anno 2011, per chiedere di “sospendere il giudizio sul caso Ruby” e assicurare “una vera presunzione di innocenza a Berlusconi”, vittima “dell’offensiva della magistratura iniziata con Tangentopoli”. La sua marcia procede a destra. E sempre dichiarandosi conservatrice, cambia tutte le caselle a sua disposizione. Dopo Silvio B. si smarca nel Gruppo misto di Gaetano Quagliariello, altro pentitissimo ex radicale. Fonda il comitato “Di mamma ce n’è una sola”. Entra ed esce dall’Udc. Raccoglie le firme contro le unioni civili. Contro i Dico. Contro “l’aborto facile” della pillola Ru486. Entra finalmente in Fratelli d’Italia, per sedersi accanto alla nuova sorella, Giorgia Meloni, che a risarcimento dei suoi turbamenti, la nomina ministra della Famiglia, 13 ottobre 2022, il programma in una frase: “Vogliamo ripartire dal senso del materno”, che suscita l’entusiasmo dalla Nazione nascente, in battaglia contro l’inverno demografico e il minaccioso complotto della sostituzione etnica. Peccato per Torino che poteva essere una luce sulla sua tenebrosa storia. E peccato per lei, che da vittima sacrificale, “mi chiamano bigotta, reazionaria, mi tirano le freccette appuntite”, ha continuato ad assaporare la sua insonne penitenza, il suo filiale martirio che in nome della famiglia l’ha resa una macchina celibe anche da sposata.

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