"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 10 maggio 2023

Memoriae. 53 Le “baruffe chiozzotte” della Storia patria.

Ha scritto Aris Alpi - direttore del sito “laltraimola.it” – in «Partigiano “Riccardo” e gli “spari prima” al Duce» riportato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di maggio 2023: Un segreto inconfessabile custodito fino alla morte, legato agli ultimi giorni del Duce e della Petacci, confidato soltanto a qualche parente. Una vita come combattente per la resistenza in Spagna e Francia. Nato nel 1902, ferroviere toscano originario di Poggio Tignoso, una trentina di anime sopra Firenzuola. Alfredo Mordini, nome di battaglia Riccardo, costruisce la sua carriera politico-miliare sull'attività antifascista, sfociata nel 1943 con il suo arruolamento nella 3° Divisione Garibaldi-Lombardia attiva nell'Oltre Po pavese, per la quale riceverà una Medaglia d'argento al valore militare. Partigiano esperto e spietato, è protagonista con altri undici compagni nell'operazione Dongo del 28 aprile 1945, che porterà alla fucilazione dei gerarchi fascisti, di Mussolini e Petacci: il firenzuolino è scelto per guidare l'operazione. Ma il suo ruolo, secondo alcune testimonianze, non è quello che ci è sempre stato raccontato nelle cronache fino a oggi e spiegherebbe in parte il motivo della fucilazione del Duce e della Petacci dinanzi a Villa Belmonte, teatro della cosiddetta "esecuzione ufficiale". La presenza del partigiano Riccardo negli anni scompare rapidamente dalla narrazione: la sua immagine si smaterializza senza motivo. Perché? Secondo il prof Luciano Ardiccioni, autore di Nel cuore della Linea Gotica, "Riccardo" avrebbe partecipato addirittura all'esecuzione stessa di Mussolini. Nel libro di Fabrizio Bernini Claretta difese col suo corpo il Duce dai mitra dei giustizieri viene confermata la presenza di "Riccardo', assegnandogli una parte nella soppressione del Duce e della Petacci, ossia quella dell'esecutore involontario per il primo e volontario per la seconda. La dinamica mai chiarita emerge però da uno scritto risalente al 2002 firmato dal Generale Ambrogio Viviani, per 36 anni nell'esercito ed ex parlamentare del Partito Radicale; una descrizione che riporta Mordini in un ruolo segreto e di primissimo piano durante gli ultimi minuti del Duce. "Verso le ore 11 Lampredi e Mordini sono a casa De Maria. Moretti rassicura i coniugi e Lino con Sandrino che a turno sono stati di guardia sul ballatoio davanti alla stanza dei prigionieri. Mussolini e Petacci stanno ancora cercando di riposare e sono sommariamente vestiti. Passati i momenti più critici dalla cattura avvenuta circa 20 ore prima, ritenendo ormai di venire sottoposto a un processo, rinunciato a un possibile tentativo di fuga, Mussolini, trovandosi di fronte due sconosciuti rifiuta di obbedire all'ordine di seguirli. Segue una colluttazione – forse un ordine del Mordini rigettato con forza dal Duce - durante la quale Mussolini viene gravemente ferito da alcuni colpi di pistola Beretta calibro 9 sparati da Mordini. Anche Clara Petacci (coinvolta) viene ferita con due colpi della stessa arma". "A quel punto - ricostruisce Viviani - occorre riparare al grave imprevisto e viene organizzata una fucilazione ufficiale": quella che tutti conosciamo, davanti al cancello di Villa Belmonte, necessariamente senza testimoni essendo impossibile farla in pubblico insieme agli altri. Geninazza viene allontanato, Lino e Sandrino vengono lasciati in casa De Maria. Mussolini viene necessariamente disteso a terra e la donna gli è in qualche modo accanto. Segue una raffica di mitra. È di scarso interesse sapere chi abbia effettivamente sparato. Longo nella veste di Walter Audisio dichiarò di averlo fatto; la stessa cosa sostenne anni dopo Moretti; Lampredi diede il colpo di grazia con la pistola di Moretti. Petacci venne eliminata perché non testimoniasse su quanto era accaduto in casa De Maria. Giuseppe Frangi (Lino), nipote dei De Maria, venne trovato morto pochi giorni dopo, il 6 maggio, alle ore 2:00. A quell'ora lo trova Luigi Canali (Neri) con il quale aveva evidentemente un appuntamento. Neri viene ucciso a sua volta tre giorni dopo; Giuseppina Tuissi (Gianna) che indaga sulla sua scomparsa viene uccisa il 23 giugno. Guglielmo Cantoni (Sandrino o Menefrego ), l'altro sorvegliante di Mussolini, si rifugia per alcuni anni in Svizzera. Longo, dapprima intenzionato ad assumre la veste di "eroe nazionale”, di fronte a quanto accaduto conferma la sua copertura iniziale di colonnello ragioniere Walter Audisio (Valerio) il quale si presta al gioco. Che fine farà Alfredo Mordini? Di lui si perdono le tracce. Emarginato dalla vita politica, dopo la guerra è costretto a umili lavori per guadagnarsi un tozzo di pane per campare. Allontanatosi dal Pci, morirà dopo anni di alcolismo, a soli 67 anni. Nella sua casa natale di Poggio Tignoso di Firenzuola, ancora oggi di proprietà della famiglia Mordini, l'amministrazione comunale di allora, in occasione del centenario della nascita del partigiano, nel 2002, posa una lapide commemorativa: unico segno tangibile della sua esistenza nel territorio. Di seguito, dallo stesso numero del 4 di maggio de’ “il Fatto Quotidiano” un contributo dello storico Gianni Oliva che ha per titolo “Le 32 versioni sulla fine e la scia di sangue del tesoro di Dongo”: Le versioni sulla morte di Mussolini sono tante: 31, con questa 32 (troppe per immaginare di giungere a una verità che può basarsi solo sulle testimonianze). La ricostruzione ufficiale è quella proposta dall'Unità il 30 aprile 1945: il Duce e Claretta Petacci vengono giustiziati davanti a Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, da Valter Audisio "colonnello Valerio” che prima legge la sen-tenza di morte, poi spara. Un atto feroce, ma riconducibile alle "regole" di un momento insurrezionale. Nel corso del tempo emergono versioni diverse, dove l'episodio appare assai meno lineare: in particolare vi è quella della "doppia esecuzione", secondo cui i due sarebbero stati uccisi nel cortile della cascina De Maria (dove hanno trascorso prigionieri l'ultima notte) "tra spari, urla e trambusto", poi portati più a valle per la messinscena di una fucilazione "regolare". È l'ipotesi avanzata dal giornalista Bruno Spampanato fin dagli anni Cinquanta, ribadita da Franco Bandini nel 1971 (Le ultime 95 ore di Mussolini, in cui si sostiene che la prima fucilazione fu opera di Luigi Longo "Gallo", comandante generale delle brigate garibaldine), riproposta da Urbano Lazzari "Bill" (vicecommissario politico della formazione partigiana che arresta Mussolini sul lago di Como), poi da Giorgio Pisanò. Questa nuova ipotesi di una colluttazione avvenuta nel cortile della cascina e dei colpi di rivoltella sparati dal partigiano Alfredo Mordini "Riccardo" si inquadra dunque in un filone interpretativo consolidato. La ricostruzione è verosimile, ma priva di elementi probatori e, soprattutto, sconta il limite di molte testimonianze postume, nelle quali si mescolano le memorie dirette, i "sentito dire', le suggestioni personali. In particolare, c'è un elemento che insospettisce: il riferimento al comandante partigiano Luigi Canali "Capitano Neri" e alla sua compagna Giuseppina Tuissi "Gianna", eliminati in circostanze misteriose nelle settimane successive. La loro scomparsa è messa in relazione al fatto che conoscessero la vera dinamica della morte del Duce. In realtà, la vicenda del "Neri" e della "Gianna" è legata all'oro di Dongo, il denaro e i gioielli requisiti dai partigiani alla colonna di auto che segue Mussolini nella fuga estrema lungo la sponda del lago di Como. Il "tesoro" viene depositato nella sede del Partito Comunista di Como con l'impegno di trasferirlo appena possibile alle nuove autorità dell'Italia liberata, ma scompare dopo qualche giorno. Il "Neri" ne chiede conto con insistenza, si scontra duramente con alcuni dirigenti comunisti di Como, minaccia di dare clamore pubblico alla vicenda e nei primi giorni di maggio "scompare": la "Gianna", che cerca con ostinazione sue notizie nell'ambiente del partito, viene eliminata nel giugno successivo. La loro vicenda non ha a che vedere con la morte del Duce. Inseriamo dunque la ricostruzione Mordini nel campo delle ipotesi: nulla di troppo nuovo, nulla di sensazionale. Semmai, la conferma che l'uscita dalla guerra civile avviene entro contorni contraddittori e confusi che condizionano le testimonianze, spesso riducendone l'attendibilità. Ha scritto Massimo Fini in «La pietas di “Pedro” per Claretta: così finì davvero il Duce» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, martedì 10 di maggio 2023: (…), …vorrei aggiungere l’autentico protagonista della cattura di Mussolini e dei gerarchi al suo seguito, vale a dire il conte Pier Luigi Bellini delle Stelle, in arte “Pedro”. Nella ricostruzione si attribuisce a “Bill”, Urbano Lazzaro, il ruolo di vicecommissario politico del piccolo gruppo di partigiani, sette in tutto, che catturarono Mussolini e gli altri. Il comandante di quel piccolo gruppo era “Pedro” e fu lui che prese la decisione, audacissima, di fermare la colonna di trecento tedeschi, comandati da Fritz Birzer, che erano in ritirata, una ritirata ordinata come furono sempre quelle dei tedeschi durante gli ultimi sgoccioli della Seconda guerra mondiale e quindi armati di tutto punto. A questa colonna si erano aggregati Mussolini e gli altri gerarchi. Bill ebbe il compito di perlustrare l’autoblindo su cui si era nascosto il Duce mascherato da soldato tedesco. Bill individuò un uomo che di tedesco non aveva nulla. Insospettito si avvicinò. In un estremo tentativo di coprire il Duce i soldati che gli erano attorno dissero: “Camerata ubriaco”, ma quando sollevò l’elmetto del “camerata ubriaco” Bill che era di origine contadine esclamò: “Madonna, el crapùn!”. Bill portò all’accampamento di Pedro Mussolini e gli altri gerarchi catturati che, insieme a Claretta Petacci, seguivano su una seconda macchina. Pedro trattò Mussolini e gli altri gerarchi catturati con la pietas che sempre si deve, o si dovrebbe, ai vinti. Da Milano arrivò un gruppo di partigiani che su ordine del CLN avevano l’ordine di fucilare Mussolini e gli altri. La sera prima, alla notizia della cattura di Mussolini, si era tenuta una riunione del comando CLN milanese a cui parteciparono fra gli altri Italo Pietra, futuro direttore del Giorno, e Paolo Murialdi, che ho conosciuto bene perché da vecchio abitava nel mio stesso condominio. Nessuno, mi raccontò Murialdi, voleva prendersi la responsabilità di un’azione che somigliava più a quella del boia che a un atto glorioso. Fu scelto quindi l’ultimo fico del bigonzo, il ragionier Walter Audisio, in arte “colonnello Valerio”. Quando gli uomini di Valerio arrivarono sul posto ci fu un momento di sconcerto. In un primo tempo i partigiani di Pedro e Bill li presero per fascisti, perché non si erano mai visti partigiani con divise nuove di zecca, cioè gente che la montagna non l’aveva mai praticata. Valerio presentò le credenziali del CLN e si fece dare da Pedro i nomi dei gerarchi catturati, quelli colpevoli e quelli meno colpevoli. Audisio mise una crocetta sulle persone che intendeva fucilare. Quando arrivò alla Petacci, mise la crocetta. “Ma come, vuoi fucilare anche la donna?”, obiettò Pedro. “Sì”. “Allora io ritiro i miei uomini dalla piazza perché con questa faccenda non voglio avere nulla a che fare”. (…). Pedro l’ho conosciuto molto bene perché era amico di mio padre Benso Fini (l’unica introduzione della sua vita l’ha fatta al libro Dongo: la fine di Mussolini in cui molti anni dopo i fatti, nel 1962, Pedro e Bill scrissero sulla loro vita da partigiani). (…).

Nessun commento:

Posta un commento