Ha scritto Aris Alpi - direttore del sito “laltraimola.it”
– in «Partigiano “Riccardo” e gli “spari
prima” al Duce» riportato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di maggio 2023: Un
segreto inconfessabile custodito fino alla morte, legato agli ultimi giorni del
Duce e della Petacci, confidato soltanto a qualche parente. Una vita come
combattente per la resistenza in Spagna e Francia. Nato nel 1902, ferroviere
toscano originario di Poggio Tignoso, una trentina di anime sopra Firenzuola.
Alfredo Mordini, nome di battaglia Riccardo, costruisce la sua carriera politico-miliare
sull'attività antifascista, sfociata nel 1943 con il suo arruolamento nella 3° Divisione
Garibaldi-Lombardia attiva nell'Oltre Po pavese, per la quale riceverà una
Medaglia d'argento al valore militare. Partigiano esperto e spietato, è
protagonista con altri undici compagni nell'operazione Dongo del 28 aprile
1945, che porterà alla fucilazione dei gerarchi fascisti, di Mussolini e
Petacci: il firenzuolino è scelto per guidare l'operazione. Ma il suo ruolo,
secondo alcune testimonianze, non è quello che ci è sempre stato raccontato
nelle cronache fino a oggi e spiegherebbe in parte il motivo della fucilazione
del Duce e della Petacci dinanzi a Villa Belmonte, teatro della cosiddetta
"esecuzione ufficiale". La presenza del partigiano Riccardo negli
anni scompare rapidamente dalla narrazione: la sua immagine si smaterializza
senza motivo. Perché? Secondo il prof Luciano Ardiccioni, autore di Nel cuore
della Linea Gotica, "Riccardo" avrebbe partecipato addirittura all'esecuzione
stessa di Mussolini. Nel libro di Fabrizio Bernini Claretta difese col suo
corpo il Duce dai mitra dei giustizieri viene confermata la presenza di
"Riccardo', assegnandogli una parte nella soppressione del Duce e della Petacci,
ossia quella dell'esecutore involontario per il primo e volontario per la
seconda. La dinamica mai chiarita emerge però da uno scritto risalente al 2002 firmato
dal Generale Ambrogio Viviani, per 36 anni nell'esercito ed ex parlamentare del
Partito Radicale; una descrizione che riporta Mordini in un ruolo segreto e di
primissimo piano durante gli ultimi minuti del Duce. "Verso le ore 11
Lampredi e Mordini sono a casa De Maria. Moretti rassicura i coniugi e Lino con
Sandrino che a turno sono stati di guardia sul ballatoio davanti alla stanza
dei prigionieri. Mussolini e Petacci stanno ancora cercando di riposare e sono
sommariamente vestiti. Passati i momenti più critici dalla cattura avvenuta
circa 20 ore prima, ritenendo ormai di venire sottoposto a un processo, rinunciato
a un possibile tentativo di fuga, Mussolini, trovandosi di fronte due
sconosciuti rifiuta di obbedire all'ordine di seguirli. Segue una colluttazione
– forse un ordine del Mordini rigettato con forza dal Duce - durante la quale
Mussolini viene gravemente ferito da alcuni colpi di pistola Beretta calibro 9 sparati
da Mordini. Anche Clara Petacci (coinvolta) viene ferita con due colpi della
stessa arma". "A quel punto - ricostruisce Viviani - occorre riparare
al grave imprevisto e viene organizzata una fucilazione ufficiale": quella
che tutti conosciamo, davanti al cancello di Villa Belmonte, necessariamente
senza testimoni essendo impossibile farla in pubblico insieme agli altri.
Geninazza viene allontanato, Lino e Sandrino vengono lasciati in casa De Maria. Mussolini viene necessariamente disteso a terra e la donna gli è in qualche modo
accanto. Segue una raffica di mitra. È di scarso interesse sapere chi abbia
effettivamente sparato. Longo nella veste di Walter Audisio dichiarò di averlo
fatto; la stessa cosa sostenne anni dopo Moretti; Lampredi diede il colpo di
grazia con la pistola di Moretti. Petacci venne eliminata perché non
testimoniasse su quanto era accaduto in casa De Maria. Giuseppe Frangi (Lino),
nipote dei De Maria, venne trovato morto pochi giorni dopo, il 6 maggio, alle ore
2:00. A quell'ora lo trova Luigi Canali (Neri) con il quale aveva evidentemente
un appuntamento. Neri viene ucciso a sua volta tre giorni dopo; Giuseppina
Tuissi (Gianna) che indaga sulla sua scomparsa viene uccisa il 23 giugno.
Guglielmo Cantoni (Sandrino o Menefrego ), l'altro sorvegliante di Mussolini,
si rifugia per alcuni anni in Svizzera. Longo, dapprima intenzionato ad assumre
la veste di "eroe nazionale”, di fronte a quanto accaduto conferma la sua
copertura iniziale di colonnello ragioniere Walter Audisio (Valerio) il quale
si presta al gioco. Che fine farà Alfredo Mordini? Di lui si perdono le tracce.
Emarginato dalla vita politica, dopo la guerra è costretto a umili lavori per
guadagnarsi un tozzo di pane per campare. Allontanatosi dal Pci, morirà dopo
anni di alcolismo, a soli 67 anni. Nella sua casa natale di Poggio Tignoso di
Firenzuola, ancora oggi di proprietà della famiglia Mordini, l'amministrazione
comunale di allora, in occasione del centenario della nascita del partigiano,
nel 2002, posa una lapide commemorativa: unico segno tangibile della sua esistenza
nel territorio. Di seguito, dallo stesso numero del 4 di maggio de’ “il
Fatto Quotidiano” un contributo dello storico Gianni Oliva che ha per titolo “Le 32 versioni sulla fine e la scia di
sangue del tesoro di Dongo”: Le versioni sulla morte di Mussolini sono tante:
31, con questa 32 (troppe per immaginare di giungere a una verità che può
basarsi solo sulle testimonianze). La ricostruzione ufficiale è quella proposta
dall'Unità il 30 aprile 1945: il Duce e Claretta Petacci vengono giustiziati
davanti a Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, da Valter Audisio
"colonnello Valerio” che prima legge la sen-tenza di morte, poi spara. Un
atto feroce, ma riconducibile alle "regole" di un momento insurrezionale.
Nel corso del tempo emergono versioni diverse, dove l'episodio appare assai
meno lineare: in particolare vi è quella della "doppia esecuzione",
secondo cui i due sarebbero stati uccisi nel cortile della cascina De Maria (dove
hanno trascorso prigionieri l'ultima notte) "tra spari, urla e
trambusto", poi portati più a valle per la messinscena di una fucilazione
"regolare". È l'ipotesi avanzata dal giornalista Bruno Spampanato fin
dagli anni Cinquanta, ribadita da Franco Bandini nel 1971 (Le ultime 95 ore di
Mussolini, in cui si sostiene che la prima fucilazione fu opera di Luigi Longo
"Gallo", comandante generale delle brigate garibaldine), riproposta
da Urbano Lazzari "Bill" (vicecommissario politico della formazione
partigiana che arresta Mussolini sul lago di Como), poi da Giorgio Pisanò. Questa
nuova ipotesi di una colluttazione avvenuta nel cortile della cascina e dei
colpi di rivoltella sparati dal partigiano Alfredo Mordini "Riccardo"
si inquadra dunque in un filone interpretativo consolidato. La ricostruzione è
verosimile, ma priva di elementi probatori e, soprattutto, sconta il limite di
molte testimonianze postume, nelle quali si mescolano le memorie dirette, i "sentito
dire', le suggestioni personali. In particolare, c'è un elemento che insospettisce:
il riferimento al comandante partigiano Luigi Canali "Capitano Neri"
e alla sua compagna Giuseppina Tuissi "Gianna", eliminati in
circostanze misteriose nelle settimane successive. La loro scomparsa è messa in
relazione al fatto che conoscessero la vera dinamica della morte del Duce. In
realtà, la vicenda del "Neri" e della "Gianna" è legata
all'oro di Dongo, il denaro e i gioielli requisiti dai partigiani alla colonna
di auto che segue Mussolini nella fuga estrema lungo la sponda del lago di Como.
Il "tesoro" viene depositato nella sede del Partito Comunista di Como
con l'impegno di trasferirlo appena possibile alle nuove autorità dell'Italia
liberata, ma scompare dopo qualche giorno. Il "Neri" ne chiede conto
con insistenza, si scontra duramente con alcuni dirigenti comunisti di Como,
minaccia di dare clamore pubblico alla vicenda e nei primi giorni di maggio
"scompare": la "Gianna", che cerca con ostinazione sue
notizie nell'ambiente del partito, viene eliminata nel giugno successivo. La
loro vicenda non ha a che vedere con la morte del Duce. Inseriamo dunque la
ricostruzione Mordini nel campo delle ipotesi: nulla di troppo nuovo, nulla di
sensazionale. Semmai, la conferma che l'uscita dalla guerra civile avviene
entro contorni contraddittori e confusi che condizionano le testimonianze,
spesso riducendone l'attendibilità. Ha scritto Massimo Fini in «La
pietas di “Pedro” per Claretta: così finì davvero il Duce»
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, martedì 10 di maggio 2023: (…), …vorrei
aggiungere l’autentico protagonista della cattura di Mussolini e dei gerarchi
al suo seguito, vale a dire il conte Pier Luigi Bellini delle Stelle, in arte
“Pedro”. Nella ricostruzione si attribuisce a “Bill”, Urbano Lazzaro, il ruolo
di vicecommissario politico del piccolo gruppo di partigiani, sette in tutto,
che catturarono Mussolini e gli altri. Il comandante di quel piccolo gruppo era
“Pedro” e fu lui che prese la decisione, audacissima, di fermare la colonna di
trecento tedeschi, comandati da Fritz Birzer, che erano in ritirata, una
ritirata ordinata come furono sempre quelle dei tedeschi durante gli ultimi
sgoccioli della Seconda guerra mondiale e quindi armati di tutto punto. A
questa colonna si erano aggregati Mussolini e gli altri gerarchi. Bill ebbe il
compito di perlustrare l’autoblindo su cui si era nascosto il Duce mascherato
da soldato tedesco. Bill individuò un uomo che di tedesco non aveva nulla.
Insospettito si avvicinò. In un estremo tentativo di coprire il Duce i soldati
che gli erano attorno dissero: “Camerata ubriaco”, ma quando sollevò l’elmetto
del “camerata ubriaco” Bill che era di origine contadine esclamò: “Madonna, el
crapùn!”. Bill portò all’accampamento di Pedro Mussolini e gli altri gerarchi
catturati che, insieme a Claretta Petacci, seguivano su una seconda macchina.
Pedro trattò Mussolini e gli altri gerarchi catturati con la pietas che sempre
si deve, o si dovrebbe, ai vinti. Da Milano arrivò un gruppo di partigiani che su
ordine del CLN avevano l’ordine di fucilare Mussolini e gli altri. La sera
prima, alla notizia della cattura di Mussolini, si era tenuta una riunione del
comando CLN milanese a cui parteciparono fra gli altri Italo Pietra, futuro
direttore del Giorno, e Paolo Murialdi, che ho conosciuto bene perché da
vecchio abitava nel mio stesso condominio. Nessuno, mi raccontò Murialdi,
voleva prendersi la responsabilità di un’azione che somigliava più a quella del
boia che a un atto glorioso. Fu scelto quindi l’ultimo fico del bigonzo, il
ragionier Walter Audisio, in arte “colonnello Valerio”. Quando gli uomini di
Valerio arrivarono sul posto ci fu un momento di sconcerto. In un primo tempo i
partigiani di Pedro e Bill li presero per fascisti, perché non si erano mai
visti partigiani con divise nuove di zecca, cioè gente che la montagna non
l’aveva mai praticata. Valerio presentò le credenziali del CLN e si fece dare
da Pedro i nomi dei gerarchi catturati, quelli colpevoli e quelli meno
colpevoli. Audisio mise una crocetta sulle persone che intendeva fucilare.
Quando arrivò alla Petacci, mise la crocetta. “Ma come, vuoi fucilare anche la
donna?”, obiettò Pedro. “Sì”. “Allora io ritiro i miei uomini dalla piazza
perché con questa faccenda non voglio avere nulla a che fare”. (…). Pedro l’ho
conosciuto molto bene perché era amico di mio padre Benso Fini (l’unica
introduzione della sua vita l’ha fatta al libro Dongo: la fine di Mussolini in
cui molti anni dopo i fatti, nel 1962, Pedro e Bill scrissero sulla loro vita
da partigiani). (…).
Nessun commento:
Posta un commento