Sopra. Serrastretta (Calabria). 31-10-2022 "C'è vita nella faggeta".
“Unviruschiamatouomo”. Ha scritto Evelina Santangelo in “Respiro” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di dicembre 2022:
Impoverimento dei suoli, diminuzione della biodiversità, i delicati
equilibri della natura sono costantemente minacciati dalla nostra incuria,
avidità e anche stupidità visto che noi di questi ecosistemi facciamo parte. Il
grande polmone del pianeta, la foresta amazzonica nell'ultimo decennio ha
emesso più anidride carbonica di quanta ne ha assorbito. E questo perché la
foresta pluviale è sottoposta a stress climatici, cioè a un aumento della
temperatura e a una diminuzione delle precipitazioni, che portano alla morte
gli alberi più grandi. Qualcosa che va ben al di là della deforestazione e
prende il nome di «degradazione». L'altro grande polmone del pianeta, il
polmone blu della pianta della Posidonia oceanica che vive nel Mediterraneo e
le cui praterie si estendono per circa 12.000 chilometri quadrati sequestrano
alte quantità di anidride carbonica e le trasformano in ossigeno al pari delle
foreste terrestri, un processo ecologico vitale che apporta una delle maggiori
produzioni di carbonio e ossigeno in tutto l'ecosistema marino. La perdita
delle praterie di Posidonia è addirittura 4 volte maggiore rispetto alla
distruzione delle foreste tropicali di tutto il mondo, una distruzione forse
meno nota e meno visibile, ma altrettanto grave per il futuro del pianeta. Perdere
questi due polmoni, terrestre e marino, è quel tipo di male che non si vede ma
che investe le nostre vite quotidianamente, rendendole sempre più fragili e in
balia di fenomeni estremi che ogni volta ci prendono di sorpresa, come perenni
smemorati. Rischiamo di perdere il respiro e non ce ne rendiamo conto. Di
seguito, “Il punto di vista di Gagarin”,
racconto di Stefano Massini pubblicato sul
periodico “”Green&Blue” del 10 di novembre ultimo: Esiste un'antica fiaba cinese, in
cui si narra di un viandante che cercò rifugio in un castello sconosciuto. Ad
accoglierlo fu una ragazza, figlia del Signore delle Piogge. «E dov'è adesso
tuo padre?» le chiese il giovane, sentendosi rispondere che il grande mago era
altrove, e aveva lasciato nel maniero il suo otre pieno d'acqua piovana, quello
da cui riversava le piogge volando fra le nubi. L'occasione sembrò al viandante
più che mai propizia, dandosi il caso che nelle sue terre i contadini
lamentavano da tempo una devastante siccità. Rubò l'otre, sali in alto come
faceva il padrone di casa, e da lassù sparse benedetta acqua nella remota
contrada da cui proveniva. Peccato che fosse un dilettante, e l'effetto non si
fece attendere: inondazioni senza precedenti sconvolsero quelle campagne, e i
danni della terra secca furono rimpiazzati da quelli delle alluvioni. Ecco, chi
stesse sorridendo forse non sa che la millenaria saggezza del Dragone ha
trovato conferma un anno fa negli Emirati Arabi, quando con un finanziamento
faraonico da fantascienza agricola si è deciso di far piovere sui dintorni di
Dubai. In che modo? Semplicemente bombardando le nubi con droni che
scatenassero scariche elettriche, da cui le precipitazioni. L'epilogo è stato
identico a quello della fiaba, con Dubai che si è trovata a gestire ondate
torrenziali e immani colate di fango.
L'episodio è paradigmatico dell'emergenza
climatica in cui ci troviamo, proprio perché stigmatizza il madornale errore di
prospettiva dell'antropocene. L'uomo regna, l'uomo
dispone, l'uomo decide perfino se far piovere sul deserto. Ed è di questo
dispotismo che raccogliamo i frutti. Da secoli l'essere umano si comporta
come se il Pianeta fosse in suo comodato d'uso, bonariamente affidatogli dal
Creatore che lo riconosceva come eccelso punto d'arrivo della Genesi. Cos'era
in fondo la Terra? Un parco giochi per Sua Altezza l'Homo Sapiens. E cos'erano
flora e fauna? Una specie di grande cambusa, dai cui scaffali attingere materie
prime e soprattutto cibo, senza limiti, senza prudenza, con la stessa razzia
brada degli espropri proletari. Nessuno si è mai sentito in colpa per questo,
nessuno mai si è posto domande, perché la religione incardinava come principio
fondante il primato dell'uomo su ogni altra creatura, a lui implicitamente
sottomessa. Si è dovuto aspettare il tardo '800 perché iniziasse davvero a
prendere forma una timida consapevolezza ecologica, un minimo senso della
sostenibilità, ma è ovvio che non si mutano facilmente schemi mentali radicati
dal più profondo trapassato remoto. E il vero baluardo da abbattere è proprio
la nostra folle pretesa di centralità, divenuta ancor più devastante quando lo
sviluppo delle borghesie occidentali ha iniziato a concepire il globo intero
come proprio ripostiglio: usiamo il gas estratto in Siberia, mangiamo il pesce
dell'Oceano Indiano, giochiamo a calcio coi palloni cuciti in Vietnam, nei
supermercati scandinavi vogliamo trovare papaja e avocado freschi, e viceversa
a Città del Capo non deve mancare l'aringa affumicata di Oslo. È il benessere,
che si misura in possibilità di avere l'impossibile. E il costo di un tale
benessere è uno stupro continuato del Pianeta, che procede a ritmo sempre più sostenuto
dal momento che popolosissimi Stati emergenti reclamano adesso quello stesso
ventaglio di comfort che hanno garantito ai padroni dell'altro ieri (e difatti
sono i primi a opporsi con forza alle misure contro il global warming). La
miscela è esplosiva, gli effetti fuori controllo. Due miliardi di persone sono
vittime di catastrofi climatiche, eppure c'è chi viene ucciso per aver tentato
di porre rimedio, come è accaduto a Paulo Guajajara, freddato con un colpo di
pistola, nel Maranhao amazzonico, da chi armato di motosega disbosca
illegalmente la foresta al ritmo di ettari ed ettari al giorno. Serve
ricordarne il sacrificio? No, è del tutto inutile. Anzi, si corre perfino il
rischio di alimentare la distorta lettura dei fatti per cui l'Amazzonia
riguarda i brasiliani, la Groenlandia i danesi e via dicendo in una lista di
bandierine e di confini che ha fatto della geografia un catalogo di pertinenze,
in onta alla salvaguardia complessiva del Pianeta. Si racconta che sessant'anni
fa Jurij Gagarin, a bordo della sua navicella, contemplò la Terra nel suo
apparirgli finalmente priva di confini. In piena Guerra Fredda (eravamo poco
prima che scoppiasse la crisi dei missili cubani che stava per condurci alla
guerra atomica), era rivoluzionario sentire un astronauta garantirci che il
mondo è innanzitutto un pianeta, e solo poi una somma di sovranità. Niente da
allora è mutato: continuiamo a non vedere il Pianeta, ma solo il mosaico
colorato del planisfero politico. Quindi del Maranhao si occupino Lula o
Bolsonaro, è casa loro. E con lo stesso principio, siamo certo pronti a donare
in beneficienza 1 o 2 euro via sms per l'emergenza in corso, ma nel contempo
restiamo comunque convinti che ognuno debba conteggiare i propri danni e le
proprie vittime. Tanto più che - in questa vulgata idiota e diffusissima - la
mannaia del clima si abbatterebbe in particolare sugli Stati africani
flagellati dalla siccità, sugli arcipelaghi oceanici in via di sommersione, sui
paesi asiatici spazzati dai monsoni o sulle coste americane esposte agli
uragani. Ci spiace per loro, ma non sono fatti nostri. È un comodo modo di
spostare altrove l'emergenza, fingendo di non vedere che ormai tutti - sarò
netto nei toni - rischiamo di morire domattina in un'auto travolta da una bomba
d'acqua o sotto un platano abbattuto da raffiche a oltre 100 km orari. Sarebbe
l'ora che iniziassimo a prendere tutti il punto di vista di Gagarin,
anteponendo il pianeta, dimenticando confini e capitali, azzerando per procedura
d'urgenza ogni veto di premier, sovrani e presidenti (fra cui Trump che senza
remora ha definito l'innalzamento degli oceani un'occasione per vendere più
case con vista mare). Perché si possono comminare sanzioni pesantissime a chi
invade l'Ucraina, ma non è mai stato usato lo stesso metodo estremo con chi non
si allinea alle misure contro il surriscaldamento? Forse perché l'attacco
all'integrità di una nazione è un reato più grave che alimentare la catastrofe
ambientale? O forse perché una imperdonabile miopia fa mettere a fuoco i morti
di una guerra ma non i morti che dopodomani immoleremo sull'altare del dio
Clima? Nelle nostre case sono entrate le immagini di Mattia Luconi, trascinato
via dalla furia di un fiume marchigiano. Molte altre immagini di bambini ci
erano comparse sui teleschermi in questo 2022 di missili, razzi e macerie.
Eppure Mattia non viene concepito come una vittima di guerra. Cominciamo a dire
che viceversa lo è, a tutti gli effetti: strappato via a soli 8 anni da un
temporale feroce alimentato da 4 mesi di caldo over-limits, Mattia è un caduto
in guerra, nella grande guerra climatica. E il V-Shaped, nome tecnico del
temporale autorigenerante, non è in fondo così diverso dallo Shahed-136, il
drone iraniano con cui la Russia si accanisce su Kiev.
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