“StoriedelNatale”. Ha scritto Enzo Bianchi – fondatore e già priore della Comunità monastica di Bose – in “La speranza del Natale” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 19 di dicembre 2022: Nel sapiente e poetico testo di Antoine de Saint-Exupéry, la volpe dice al principe: “Ci vogliono i riti, ovvero ciò che rende un giorno diverso da altri giorni, un’ora diversa da altre ore”. Proprio per questo, ormai vicini al Natale, la festa più sentita e celebrata nel nostro occidente, nelle notti più lunghe dell’anno noi cerchiamo di rendere luminosi questi giorni con migliaia di luci che dovrebbero creare un’atmosfera “altra”, gioiosa, nelle nostre città e nelle nostre case. (…).
Si
diceva nei mesi scorsi che quest’anno, a causa della crisi energetica che si è
abbattuta sul nostro paese, non ci sarebbero stati i soliti addobbi luminosi
nelle città anche come segno di solidarietà con quelli che soffrono in modo
terribile il freddo, soprattutto in Ucraina. Ma poi tutto è stato predisposto
come gli altri anni forse perché non sappiamo essere conseguenti con le
emozioni che proviamo e arriviamo anche a manifestare con generosità di
sentimenti, e forse perché far festa anche nei giorni cattivi ci può aiutare ad
aprire l’umile speranza di un orizzonte luminoso. Questo Natale arriva come un
Natale di guerra, un Natale nel quale ci sono tutti i segni che la pandemia non
è ancora del tutto sconfitta, in un’ora di grave crisi politica nel nostro
paese per la mancanza di uomini e donne che abbiano senso di responsabilità,
siano esperti dell’arte del governare, nutrano una visione sul futuro della
nostra società e testimonino un’etica che sia in grado di contrastare ogni
forma di corruzione. In questi giorni non è facile festeggiare, a meno di
restare superficiali, non vulnerabili dalle situazioni di sofferenza e di
ingiustizia che sembrano cancellare ogni speranza. Ubriacati dal clima festoso
non ci indigniamo più per la guerra in Ucraina, per i migranti che continuano a
morire nel Mediterraneo e sulle fredde rotte europee, per la persecutoria
oppressione delle donne in Iran, per i maltrattamenti subiti dai carcerati nelle
nostre prigioni. Come si può celebrare Natale senza essere consapevoli di
queste realtà in cui siamo immersi e delle quali in certi casi siamo anche
responsabili? Mi rincuora il fatto che il Natale, per i cristiani, non dovrebbe
essere la festa della nascita di Gesù: si festeggia il fatto che lui è il
Veniente che viene a portare giustizia, liberazione, pace per tutte le vittime
della storia, per tutti quelli che desiderano, invocano, attendono un
cambiamento della loro condizione! Se il Natale ha un significato veramente
cristiano è questo: non è solo una festa per Gesù che nasce, sarebbe
regressione psicologica e spirituale, ma è soprattutto una festa per il Messia
che viene a reintegrare nella pienezza della vita tutti quelli che ne sono
privi. Natale è festa di speranza per tutti quelli che, cristiani o non
cristiani, vogliono che il mondo cambi. Di seguito “Storia dell’ultimo albero di Natale” di Licia Troisi pubblicato
sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di dicembre ultimo:
Voglio
un albero di Natale!». La richiesta di mia sorella Imogen mi era caduta in
testa come una montagna di mattoni, assieme al suo broncio irresistibile e ai
suoi occhi che già iniziavano ad arrossarsi. «Ma non sappiamo neppure cosa sia,
questo Natale!» avevo provato a protestare. Lei, che all'epoca aveva cinque
anni, mi aveva mostrato sicura l'immagine sul libro spiegazzato. «Voglio
questo!» aveva insistito. L'avevamo trovato nell'immondizia, buttato da chissà
chi. Io, che ero la maggiore e di anni ne avevo dodici, l'avevo subito gettato
via, perché erano cibo e vestiti quello di cui avevamo bisogno, e non di quello
stupido libro mezzo ammuffito. Ma Imogen ha sempre avuto una specie di fiuto
per le cose inutili che venivano dal passato, da prima della Catastrofe che
aveva trasformato la Terra in un posto pressoché inabitabile, tranne per
Paradise, la città in cui abitavamo. Così l'aveva preso e aveva iniziato a
sfogliarlo. Io alla fine glielo avevo lasciato, perché avevamo così poco con
cui divertirci che almeno quella piccola cosa volevo concedergliela. Solo che
lei aveva iniziato a ossessionarsi. Me lo faceva leggere la sera, quando
stavamo nello stanzone abbandonato che occupavamo con Luke e gli altri, la
piccola comunità di ragazzi sperduti con cui vivevamo. E dentro c'erano disegni
di addobbi colorati, un albero con della roba sopra, neve e cose così. E quella
parola che tornava: Natale. Era una cosa dei tempi andati, una cosa che era
andata del tutto perduta. A Imogen non importava. «Voglio un albero di Natale,
come questo» e batteva il ditino sull'immagine mezzo mangiata dal tempo e
dall'umidità. Ed era questa la ragione per la quale mi trovavo in quella
stanzetta sperduta che avevo cercato tra i piani alti di Paradise, là dove
vivevano i disperati come noi, gli Uccelli che volavano con ali improvvisate da
un tetto all'altro, raccogliendo le briciole di quelli che vivevano una vita
migliore più in basso. Mi ci era voluto un po', perché è vero che in alto è
pieno di appartamenti disabitati e in rovina, ma me ne serviva uno con la
corrente, almeno a stare alla copia approssimativa che mi ero fatta del disegno
sul libro. Era una stanza misera, due metri per tre a dir tanto, ma c'era una
presa funzionante. Per il resto, avevo fatto i salti mortali. Innanzitutto, non
avevo neppure idea di che tipo di albero fosse, quello sul disegno, figurarsi
come procurarmelo. A Paradise gli alberi stanno tutti in aree protette, e sono
tra le cose più preziose esistenti; la casa di un ricco la riconosci subito,
perché dentro c'è una pianta. Una sola. Le piante producono l'ossigeno, sono
preziose. Era una di quelle che avevo rubato, rischiando la pelle, perché, a
differenza delle cose che prendiamo di solito, quella non era facile da portare
via, e avrebbero potuto beccarmi facilmente. Ma non lo fecero. Certo, non
assomigliava neppure da lontano all'albero del disegno, ma non potevo farci
niente. Per luci, le avevo prese a una bancarella dei piani intermedi. Mi si
stringeva il cuore a rubare a uno che noi era molto più ricco di me, ma per
Imogen avrei fatto qualsiasi cosa. Le luci, a conti fatti, erano forse la cosa
più corretta di tutto quell'affare. E poi avevo dovuto cercare le decorazioni.
Che sul disegno erano delle sfere luccicanti.
Inesistenti a Paradise. Mi ero allora arrangiata con delle palline di
carta straccia, che avevo colorato alla bell'e meglio, e mele e arance che
avevo preso in un paio di case in cui eravamo andati. Era stato pressoché
impossibile spiegare agli altri perché stessi rubando tutto quel cibo solo per
me, ma avevo giurato che una volta che non mi fosse più servito, l'avrei
condiviso con gli altri. E dunque eccomi lì, davanti a un affare raffazzonato,
francamente brutto, in un posto desolato, sotto un cielo giallo di luci e
inquinamento. Niente neve, che non avevo mai visto in vita mia, niente tizio
vestito e rosso e bianco che scende da un'altra cosa che non sapevo cosa fosse,
ma pareva chiamarsi "camino". E con me, bendata, Imogen. Sentivo le
sue spalle magre sotto le mie mani, il respiro leggermente affannato, un
fremito che la percorreva tutta. Mi ero chiesta fino all'ultimo se farle quella
sorpresa misera, ma alla fine ci avevo messo così tanto... Sperai con tutta me
stessa che non restasse delusa. «Sei pronta?» le chiesi. Lei si limitò a annuire.
Feci un po' di scena. Cincischiai col nodo della benda, gliela lasciai ancora
qualche secondo sugli occhi. «Dai!» disse lei impaziente. Mi arresi gliela
tolsi. Non so cosa potesse piacerle in quella cosa orrenda che avevo fatto per
lei. Impossibile fossero il tempo e l'amore che ci avevo messo; era troppo
piccola per capire una e cosa del genere. Ma gli occhi le si fecero grandi, e
brillarono del riflesso delle piccole luci rubate. Si portò le mani alla bocca,
mi guardò commossa. «È bellissimo!». «E non hai notato la cosa più importante».
Il pacco era orribile, deforme e incartato con un giornale vecchio. Il fiocco
era di spago. Ma lei ci si gettò ugualmente sopra, e lo scartò frenetica.
Dentro c'era una ciambella ancora nella scatola. Il suo dolce preferito. E fu
allora, quando mi strinse a sé con tutte le sue forze, e mi ringraziò con
quella sua vocina sottile, che lo sentii. Il riflesso lontano di quella festa
perduta, di cui non conoscevo il senso, che non avevo mai festeggiato. Ma ci
aveva portate lì dentro, ad abbracciarci, a ritagliarci un momento solo per
noi. «Buon Natale» le sussurrai baciandole la sommità della testa. «Buon
Natale, Poe».
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