“StoriedelNatale”. Yeshu'a chi? “Un homeless di nome Gesù” è il titolo dello scritto di Tomaso Montanari – storico dell’arte, Rettore della “Università per gli Stranieri” di Siena - appena pubblicato sull’ultimo numero del settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 9 di dicembre 2022:
L’odio per i poveri (neri e bianchi,
stranieri e italiani, "carico residuo" e "abili al lavoro"...)
che promana da una parte rilevante del ceto politico italiano (di destra, centro,
centro-sinistra) è uno degli aspetti più sconcertanti del degrado culturale ed
etico che affligge il nostro Paese. E la cosa più sconcertante è la
spersonalizzazione, l'astrazione: di questi poveri non vogliamo vedere i corpi,
i volti. Non vogliamo conoscere le storie e le aspirazioni, le narrazioni e le
spiegazioni. Forse perché sarebbe impossibile, poi, non provare almeno un po'
di solidarietà, di fraternità, di tenerezza verso chi ha occhi, bocca, cuore
come noi: noi che abbiamo il "merito" di esser nati in famiglie
benestanti, bianche, sicure. Lungo i secoli, gli artisti hanno mostrato ai loro
ricchi committenti la dignità e la grandezza dei volti e dei corpi dei poveri: (…).
…lo scultore canadese del nostro tempo Timothy Schmalz, (con) il
suo Homeless Jesus (presente attraverso alcuni multipli in molte città del
mondo: io ogni tanto vado a trovare quello di Firenze, nel piccolo chiostro
della Badia) ha il grandissimo merito di usare la muta lingua dell'arte per
sbatterci in faccia ciò che non vogliamo vedere. Un senzatetto, un barbone, un
senza fissa dimora dorme su una panchina, avvolto in una coperta dalla quale
sbucano due piedi nudi: e su quei piedi ci sono i segni dei chiodi. È il
Risorto, quello che disse che ciò che faremo o non faremo per gli ultimi tra
noi, lo avremo fatto a lui. Non ne vediamo il volto: perché il volto è quello
di ogni povero. E perché comunque non lo avremmo guardato: non lo facciamo mai,
nemmeno quando tiriamo fuori di malavoglia qualche moneta. La nostra statua
ritrae uno stadio estremo di una condizione in cui oggi si trova un italiano su
dieci: la povertà assoluta. Ma parla di ognuno dei gradi di privazione e
miseria che colpiscono un altro venti per cento degli italiani (11,84 milioni
nel 2021): un italiano su tre è povero o a rischio di esserlo. E parla anche
dei politici, che sfoderano il loro esser cristiani come un'arma, e poi
colpiscono in ogni modo i poveri Cristi. È un inerte pezzo di bronzo, ma smuove
la nostra anima e suscita la nostra indignazione: fa il lavoro dell'arte. E lo
fa davvero bene. Yeshu'a chi? Quel pargolo del quale i se-dicenti
credenti cristiani si apprestano a festeggiare l’ennesimo genetliaco. E come? In
una società così impoverita nello spirito l’unica modalità è quella del consumo
e degli acquisti sfrenati. E dello Yeshu'a bambinello? Una occasione, come
tante altre, di sfrenato edonismo. E ben poco altro. Di seguito, “Odio i bulli del Natale” di Claudia de
Lillo, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” sempre del 9 di
dicembre ultimo: Ci sono i previdenti, che sono i migliori di tutti e i più detestabili.
I loro pensieri, tutto l'anno, sono a forma di regalo. Vivono in un cronico
stato di allerta perché sanno che, a un certo punto,
puntuale come la tassa sui rifiuti, l'amore e l'influenza stagionale, il Natale
arriva. Non sene dimenticano mai, nemmeno a luglio, quando gli altri girano
in ciabatte e si lamentano del caldo. I previdenti comprano orecchini per zia
Armanda al Carnevale di Viareggio, l'arricciabaffi per nonno Franco alla sagra
dell'agnello pasquale di Favara, lo snocciolatore di ciliegie professionale per
il cugino Mimmo durante la vendemmia in Franciacorta. I previdenti si
premurano, con largo anticipo, di fare graziosi pacchettini personalizzati che
ripongono nell'apposita cassapanca dei doni natalizi, uno scrigno di tesori
diligentemente catalogati in ordine alfabetico per destinatario, in attesa
della definitiva, gloriosa collocazione sotto l'albero. I previdenti in
apparenza, sono gente solerte e di buon cuore; in realtà sono bulli che
spiegano le loro tronfie ali proprio in questo periodo dell'anno. Ognuno di noi
ne coltiva inconsapevolmente almeno uno nella propria cerchia di amici, parenti
e colleghi. Si piazzano in luoghi strategici: la macchinetta del caffè in
ufficio, la fermata dell'autobus, la sala d'aspetto del dentista. Prima
blandiscono l'avversario con sguardi fintamente innocenti, ammiccano con
noncuranza e, al momento opportuno, lanciano il loro infido strale, caricato a
senso di colpa e ansia: «A che punto sei, tu, con i regali di Natale?». Zac. Colpita,
la vittima designata deglutisce, si guarda intorno smarrita, viene colta da
secchezza delle fauci e tachicardia. Emette suoni inarticolati, prende
coscienza della propria inadeguatezza all'interno della comunità umana, calcola
mentalmente la misura del proprio fallimento e ne è annichilita. Il previdente
alza un sopracciglio costernato, scuote la testa. «Non ti invidio proprio».
Gonfia il petto trionfante e si allontana, alla ricerca di un altro sprovveduto
da umiliare. Io faccio parte degli altri, degli impiastri, dei ritardatari
cronici, di quelli che si dimenticano, che si mortificano in extremis, che rimuovono,
che «ci penso domani» e domani è oggi ed è già troppo tardi. Eppure anche noi
sciatti teniamo famiglia e affetti che si aspettano regali e pensieri sotto l'albero.
Anche noi siamo gente per bene, che gioisce nel donare più che nel ricevere,
che celebra i riti, indipendentemente dalla fede, che ritiene la magia del
Natale un diritto della prole e il cenone della Vigilia un potente cemento
affettivo. Anche noi inadeguati, alla fine in un impreciso intorno del 25
dicembre, arriviamo alla meta con i nostri pacchetti e i nostri doveri assolti.
È successo negli ultimi dieci, venti, trent'anni, perché non dovrebbe succedere
di nuovo oggi? La verità è che noi, malati di improntitudine, diamo il meglio
sotto pressione. Toccato il fondo della nostra sciatteria, umiliati dalla
collega che, per portarsi avanti la settimana scorsa con un ghigno vittorioso,
ha consegnato graziosi manufatti a tutta l'azienda, partite Iva comprese, rialziamo
la testa, in un estremo sussulto d'orgoglio. E facciamo il miracolo, altro che
Natività. Entriamo improvvisamente in una trance agonistica e produciamo su un
foglio Excel l'elenco di tutti coloro a cui, per nascita, per meriti o per
dovere, spetta un regalo. Ne contiamo 46, decidiamo che non ce li possiamo
permettere, ne depenniamo la metà, reprimiamo l'ansia incipiente con una tisana
alla melissa. Prendiamo un giorno di ferie, magari un mercoledì, per assolvere
al nostro compito. Fissiamo un budget individuiamo acquisti solidali ed
edificanti. Mercoledì piove a dirotto ma, sprezzanti del pericolo, a testa
bassa, affrontiamo le intemperie per la causa superiore. Abbandoniamo subito i
nostri nobili intenti e compriamo oggetti a caso: casalinghi in offerta
speciale, sciarpe e guanti sempreverdi, libri pescati nel mucchio. Grondiamo
pioggia e desolazione. Alla settima ora di shopping compulsivo e insensato,
devastati e fradici, ci fermiamo folgorati da un sostantivo singolare
femminile: esperienza! Ma certo! Come non averci pensato prima? Alla faccia
degli stupidi orecchini, dell'arricciabaffi e dello snocciolatore di ciliegie
professionale. Torniamo a casa a grandi falcate, maledicendo il traffico e i
nostri omologhi improvvidi che ci ostruiscono il cammino. Ci sediamo alla
scrivania, accendiamo il computer e mettiamo ordine nell'entropia della nostra
esistenza. Un massaggio shiatsu per la zia stressata, uno spettacolo a teatro
per i nonni intellettuali, una escape room dell'orrore per il cugino impavido,
una battaglia a colpi di laser per i nipoti bellicosi, un laboratorio di soia e
germogli per il cognato vegano, una lezione di yoga tantrico per il collega
sperimentatore, una gita fuori porta per noi, figli riottosi compresi. I
risparmi sono stati dilapidati, per qualche tempo stringeremo la cinghia e ci
nutriremo di cereali poveri e tonno in scatola. Mal'onore è salvo e il Natale
pure.
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