1 - “Pensieridifinedianno” di Gesualdo Bufalino tratti dal volume curato da Guido Almansi "Perché odio i politici” – 1991, Mondadori Editore – riportati in «Il profetico Bufalino odiava la politica “tirchia e feroce”» di Daniela Ranieri pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, 30 di dicembre 2022: (…). Odio? No. L’odio è una passione a suo modo eroica, non la sciuperei su bersagli di così povera specie. E se non odio, che altro sentimento?
2 - “Pensieridifinedianno” di Donatella Di Cesare tratti da «La democrazia “immunitaria”» testo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 26 di novembre ultimo: (…). Da qualche decennio viviamo all'ombra del disincanto democratico, quasi impotenti. E mentre la legittimità delle istituzioni giuridico-politiche appare irrimediabilmente scalfita, la sfiducia dei cittadini aumenta. Lo dimostrano le ondate di astensione - come quella delle ultime votazioni italiane. Proprio mentre è un'idea sempre più ovvia e accettata, non solo entro i confini occidentali, la democrazia sembra svuotarsi, ridursi a un'etichetta vuota, a un potere solo nominale. Il popolo, che dovrebbe governare, si sente escluso, estromesso - e perciò guarda con diffidenza un regime piegato a essere strumento di forze in grado di perpetuarsi, mantenendo saldamente le redini del comando. È la casta, l'élite, i "poteri forti", quello "Stato profondo", che resta intatto e intangibile, malgrado l'avvicendarsi dei governi. Ciò ha scatenato uno scontro manicheo tra élite e popolo, determinando non di rado una visione complottistica: sono sempre gli stessi quelli che stanno dietro, che tirano le fila dell'intrigo. Manovrati da un potere senza volto, inermi di fronte a un ingranaggio tecno-economico insondabile, i cittadini si sentono condannati a una frustrante impotenza. E, in effetti, Io sono. Se il complottismo è una terribile arma di depoliticizzazione di massa, è pur vero che ha le sue motivazioni e non va demonizzato, ma piuttosto capito come sintomo del disagio. Il punto è che la crisi della democrazia non può essere presa seriamente senza considerare allo stesso tempo la crisi complessiva della politica ridotta allo spazio ristretto di una gestione amministrativa, dove con rapidità ed efficacia si dovrebbero risolvere i problemi, ma dove, a ben guardare, la norma suprema è l'adeguamento sistematico al mondo così com'è. Da anni le democrazie occidentali sono minate al fondo dall'assenza di una alternativa al sistema - l'ormai famigerato argomento Tina - There is no alternative. E qui che ha avuto la meglio l'idea di un governo tecnocratico, guidato da esperti e competenti, una sorta di epistemocrazia che, se da un canto ha provocata una nuova sospensione della politica, dall'altro ha svuotato ulteriormente la democrazia allontanando ancor più i cittadini dallo spazio pubblico. Il tempo della pandemia, in cui erano indispensabili decisioni tempestive, suffragate da indicazioni scientifiche, ha purtroppo favorito la tecnocrazia. Se la politica deve ascoltare il parere degli esperti, non può però abdicare al proprio ruolo. In quel periodo è emerso con chiarezza, considerando ad esempio la gestione cinese della pandemia, che le risposte immediate e dispotiche servono a poco se non sono accompagnate da una flessibile intelligenza politica. Ed è questa, invece, la forza della democrazia: la sua dinamicità, l'inventiva, lo spazio aperto del confronto. La governance amministrativo-tecnocratica, rafforzatasi nel periodo di guerra, avalla l'idea che ogni forza contraria metta a rischio l'efficacia delle misure prese, ostacoli l'azione dell'esecutivo. S'intuisce allora perché ciò apre le porte alla deriva autoritaria. È quanto accade oggi con il tecno-sovranismo dell'ultra-destra italiana di Meloni&C. che, se da un canto si pone in una linea di continuità con la logica tecnocratica, dall'altra svuota dall'interno la democrazia, la scredita apertamente. Questa reazione avviene in chiave patriottica a nome di un presunto "noi'; di stampo razzista, che si coagula a difesa del territorio. Di qui l'ossessione dell'identità e la xenofobia, intesa come timore verso tutto ciò che estraneo e altro, che potrebbe alterare e contaminare: i migranti, le femministe, i neri il pensiero unico, gli intellettuali, ecc. Vengono coltivati risentimento e recriminazione che offrono un alibi per spinte neotribaliste e rivendicazioni particolaristiche. A essere messi a repentaglio sono i diritti civili, sociali, politici. A cominciare dalla libertà di parola. Sin dal suo sorgere la democrazia moderna è strettamente connessa a una molteplicità di tutele individuali e comuni. Si può dire perciò che sia un processo ininterrotto che rimette in causa quel che è giusto o ingiusto, legittimo o illegittimo. La democrazia vive e si rafforza grazie alle lotte che, mentre salvaguardano i diritti esistenti, fanno valere nuovi diritti in grado di tradurre le esigenze del tempo. Solo così si può mantenere aperta quella dinamica che viene invece meno quando si impongono condizioni liberticide, interessi privati, manie identitarie. Occorre tuttavia sottolineare che solo dove i diritti del singolo contribuiscono alla vita democratica quando si articolano all'interno della comunità, quando tutelano ai diritti degli altri. La deriva autoritaria si inserisce infatti all'interno di un certo modo di intendere la democrazia, non nel segno della partecipazione bensì in quello del motto "noli me tangere" non toccarmi. È tutto quel che il cittadino esige dalla democrazia, reclamando so o protezione per sé. Il cittadino sovrano vuole essere immune, indenne da ogni male. Ciò che gli preme è unicamente la propria sicurezza. È questo, forse, il limite più grave del neoliberalismo, che confonde così garanzia e libertà. La democrazia viene allora ridotta a un sistema d'immunità - una democrazia immunitaria. I diritti sono solo quelli riservati a coloro che sono preservati, garanti, all'interno di confini murati, mentre la condizione d'immunità viene negata a chi è al di fuori: ai rifiuti, agli avanzi, ai" carichi residuali", quelli che, nello sterminato hinterland della miseria, nelle periferie planetarie dello sconforto, possono essere esposti a ogni rischio, a ogni violenza. Non è più solo l'apartheid dei poveri. Il discrimine è proprio l'immunità che scava il solco della separazione. C’è un’altra umanità inesorabilmente consegnata a guerre, fame, sfruttamento, epidemie, nuove schiavitù. Sotto sotto, il cittadino inscritto della democrazia immunitaria, dove gode di qualche protezione, crede che l'abbandono dei reietti dipenda dalla loro inciviltà. E non si pone neppure la questione dei diritti umani, cioè la tutela di quella vita che, nella sua nudità, non ha drappi nazionali, né cittadinanza, che possano soccorrerla. Il paradigma immunitario è alla base della freddezza imperturbabile che gli immuni ostentano di fronte al dolore degli altri - non semplice indifferenza, non una scelta morale, bensì una questione politica. I confini della democrazia immunitaria, che non riconosce agli altri neppure il diritto ad avere diritti, è la grande sfida del futuro prossimo.
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