Di questa politica “che non si capisce niente”. Della
“nuova” politica nel bel paese, arrembante, ondivaga, “nerofumo”. Ha scritto
Dario Vergassola - nella Sua rubrica “C’è vita sulla Terra?” – in “Le giravolte del gregge elettorale”
pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 9 di dicembre 2022: Sembra
il peggiore dei mondi possibili. Per Biden, i russi hanno posto in essere ai
danni degli ucraini una rapina e una spoliazione in piena regola. Tipo i coloni
europei con i nativi americani. Per insultarli, praticamente, gli ha dato degli
statunitensi. Si aggiunga che ogni giorno c'è il rischio dell'escalation
nucleare. Proprio non si capisce perché Zelensky non perdoni Putin: la
Morlacchi con Remigi l'ha fatto. Abbiamo visto partenze di riservisti russi
strappalacrime, quasi come l'addio di Siffredi al porno, mentre lo zar Vlady
diceva alle loro madri che è tutto a posto e che non devono credere alle fake
news. Ma noi sappiamo che la verità in Russia è più rara di una birra in Qatar.
Un po' come da noi, quando Salvini si affretta a comunicare il numero dei
"morti accertati" prima ancora che vengano accertati: Felpaman
farebbe persino il paziente sul tavolo operatorio del proctologo, pur di stare
al centro dell'attenzione. Forse andrebbe riconosciuto con rassegnazione: anche
qui, come in Mongolia, c'è il mistero del gregge che si
muove da anni. Siamo noi elettori che ogni volta votiamo sperando che cambi
qualcosa. Di seguito, “Nordio,
il garantista intermittente tra cene e manette lagunari” di Pino Corrias
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di dicembre ultimo: Per
l’età e la sapienza storica si paragona a Churchill. D’aspetto si è gemellato a
Giordano Bruno Guerri, quello che vive al Vittoriale con i fantasmi
dannunziani. Invece è solo il dottor Carlo Nordio da Treviso, detto
l’Intermittente, qualche volta burbero di legge, sempre elegante nei
modi, bon vivant per prassi quotidiana e cene veneziane. Ex
magistrato di laguna. Neo ministro di lotta e sorprendentemente di governo,
visto che per quarant’anni ha ripetuto che un “un magistrato mai e poi mai
sarebbe dovuto scendere in politica”. Nemmeno da ex. Tuttavia a 75 anni
compiuti, la noiosa pensione gli ha suggerito l’ascensione tra i velluti di
Montecitorio con 115 mila voti incassati dai suoi fratelli d’Italia proprio nel
collegio dove operò da magistrato, circostanza in verità non del tutto
opportuna, ma a lui concessa senza polemiche, vista la fama locale che la bella
carriera gli ha concesso. Oltre a un ben temperato salvacondotto che si è
guadagnato nel tempo per essere contemporaneamente di destra nella
giurisprudenza che punisce e insieme garantista nei convegni di dottrina, dunque
prudentemente equidistante tra gli eterni contendenti che in politica si
annettono il premio elettorale di una giustizia forte con i deboli, cioè i
poveracci, e debolissima con i forti, titolari del quieto vivere e delle
carriere. E quindi astro nascente della Nazione securitaria di Giorgia Meloni.
Nonché paladino della “difesa sempre legittima” che piace agli spaventati
guerrieri di Matteo Salvini. A riprova dell’indole s’è subito schierato
con il più prepotente tra i senatori rinascimentali, Matteo Renzi, che tra un
viaggio a gettone e l’altro, fa la guerra ai magistrati fiorentini che non solo
osano indagare sulla fondazione Open che tiene finanziariamente viva la sua
Italia Viva, ma hanno mandato gli atti di indagine al Copasir, il Comitato che si
occupa dei Servizi segreti. Il sopruso, ha detto in aula il neo ministro,
versione garantista, assecondando i lamenti renziani, “sarà oggetto di
immediato e rigoroso, sottolineo rigoroso, accertamento conoscitivo”. Subito
dopo, ha aggiunto, “questo dicastero procederà a una approfondita, e sottolineo
approfondita, valutazione al fine di assumere le necessarie iniziative”.
Minaccia perentoria, purtroppo sgonfiatasi in una sola notte, visto che le
carte di indagine su Open sono state mandate al Copasir non per malvagità dei
magistrati fiorentini, ma per legittima richiesta. Che peccato, e sottolineiamo
peccato. Già pregustava, il Nordio principe del diritto, la bella cronaca delle
ispezioni ai suoi ex colleghi, i pubblici ministeri che a vasto raggio detesta
forse per averli frequentati a lungo, anche se mai oltre il suo orario
d’ufficio, le 17 in punto, ai quali oggi promette carriere separate da quella
dei giudici, primo tassello della estesa riforma sempre auspicata dai
berlusconiani di lungo corso – i Previti e i Dell’Utri, per esempio – indagati
da una trentina d’anni, e dunque competenti per biografia. Quella di Nordio
inizia il 6 febbraio 1947, dentro allo scrigno di Treviso, città mirabilmente
narrata nel film di Germi Signore e signori, labirinto di piccole e grandi
ipocrisie cattolico-borghesi. Entra in magistratura nel 1977, anno di violenza
politica, specie in Veneto. Si occupa di Brigate rosse. Smantella la colonna
veneta: “Giravo scortato e armato, ricevevo lettere con la stella a cinque
punte, ma ricordo che erano in gioco lo Stato e la democrazia”. In quanto a
difesa della democrazia, partecipa alla stagione di Mani Pulite, segnata in
Veneto dalle parabole dei ministri Gianni De Michelis, socialista, e Carlo
Bernini, democristiano, con tanto di arresti preventivi e intercettazioni
quanto basta. Salvo pentirsi di quasi tutto. Dei colleghi milanesi di Mani
Pulite “che indagano con finalità politiche”. Degli arresti preventivi
perché contraddicono “una giustizia che garantisca la presunzione di innocenza”.
E delle intercettazioni “che sono uno strumento micidiale di delegittimazione
personale e spesso politica”. Per non dire della lunghezza delle indagini a
strascico. Tutte considerazioni che andavano di pari passo alle sue lunghe
inchieste a strascico sulle cooperative rosse – anni 1993-98 – 278 indagati,
compresi i due bersagli grossi, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, che fecero
titolo sui giornali, ma niente arrosto nelle indagini. Fino a quando l’ufficio
dell’Udienza preliminare gli chiese di spedire i fascicoli alla competente
Procura di Roma. Ordinanza che lesse e dimenticò nei cassetti per andarsene a
cena. Cena che in quel caso durò fino al 2004, quando saltò fuori il
trascurabile misfatto, i due indagati immediatamente prescritti e poi risarciti
con 9 mila euro a testa per “ingiustificato ritardo”, non dal pm Nordio, già
diventato il castigamatti dei pm, ma dallo Stato. Nelle vesti di procuratore
aggiunto ha coordinato l’inchiesta sulle tangenti al Mose, le barriere
architettoniche che fanno argine all’acqua alta di Venezia, 35 arresti
preventivi, intercettazioni illimitate, un centinaio di indagati, tra i quali
il sindaco Orsoni, pd, il consigliere politico di Giulio Tremonti, Marco
Milanese, Forza Italia, e quel capolavoro di Giancarlo Galan, presidente della
Regione Veneto, berlusconiano in purezza, ex Publitalia, che obbligato a
restituire la villa dove abitava sui Colli Euganei, come acconto per i 15
milioni di maltolto, si portò via i sanitari e i caloriferi, smontati a
martellate dai muri. Nordio considera il suo punto di svolta quando nel
2000 convalidò l’arresto di un geometra che aveva appena caricato una
prostituta moldava. E che si suicidò per la vergogna, appena scarcerato. “Mi
portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate”. In
particolare quella, del tutto arbitraria. La sua intermittenza garantista gli
consente oggi di auspicare la riduzione delle leggi che “sono troppo numerose”,
spesso emotive, e insieme assecondare quella emotiva e nuovissima “anti rave”.
In compenso promette di smantellare l’obbligatorietà dell’azione penale
“diventata un intollerabile arbitrio”. Ripristinare l’immunità parlamentare,
smontare la legge Severino sulla incandidabilità dei condannati, secretare le
intercettazioni. Ci risiamo, dileguati i tempi grami delle mascherine, si torna
a quelli vecchi del bavaglio, la stoffa del migliore garantismo per i
giustizialisti.
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