"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 2 dicembre 2022

Dell’essere. 61 Pavel Florenskij: «La lezione non è un viaggio su un tram, ma una passeggiata a piedi, perché per chi viaggia è importante camminare e non solo arrivare».  

 
 Sopra. “Cammino nel deserto”, acquerello (2022) di Anna Fiore.
 
Valditara&Adolescenze”. Per un approccio consapevole ai problemi adolescenziali aldilà degli spropositati pronunciamenti della “politica”. Ha scritto Umberto Galimberti in “Silenzio in aula” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di marzo dell’anno 2001: (…). …a partire dall’adolescenza, per un naturale processo psicobiologico, i figli, per emanciparsi dalla famiglia, riducono il loro livello di comunicazione in casa per aprirlo fuori, con quei sostituti genitoriali che finiscono poi con l’essere i professori. Se i professori tacciono perché il loro compito è solo l’istruzione, va da sé che gli studenti si trovano di fronte a un vuoto, a una risposta mancata, che andranno a cercare altrove, ma non a scuola. Non dimentichiamo che a motivare un ragazzo a scuola non è il sapere (che semmai è un mezzo), ma il riconoscimento senza cui non si costruisce alcuna identità. Se il riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male o va così così a scuola, l’identità, che è un bisogno assoluto per ciascun adolescente, la si costruisce altrove, in tutti i luoghi, scuola esclusa, dove è possibile raccattare riconoscimenti. Se poi fuori dalla scuola resta solo la famiglia (che a quell’età è solo l’ambito protettivo da cui, come gli aquilotti, si prova ad uscire) allora l’alternativa o è la strada con quel che la strada può fornire, o è la solitudine non meno pericolosa (…). L’adolescenza, ognuno c’è passato, è promossa dal desiderio che, proprio in quel periodo di vita ha la sua massima espressione. Adolescenze non desideranti annunciano esistenze mancate, ma il desiderio, ognuno lo sa, è contraddetto dalla realtà che non è costruita apposta per soddisfare desideri. Qui sono possibili due atteggiamenti: o la rimozione della realtà con creazione di un mondo sognante ad essa alternativo, o la frustrazione che, reiterata, annulla l’identità. Il processo di rimozione, molto complicato e pericoloso, è noto ai professori come “distrazione”: “Suo figlio è sempre distratto”. Quasi bastasse un richiamo per fargli accettare la realtà che si oppone alla forza del suo desiderio, e fargli dimettere il sogno senza di cui il desiderio esploderebbe in modo incontrollato nella realtà (…). In questo scontro tra realtà e desiderio in cui si dibatte l’adolescenza, quando non scatta la rimozione della realtà, può scattare la frustrazione che è utilissima per crescere, ma, come tutte le medicine efficaci, va dosata. Un eccesso di frustrazione (…) sposta questa ricerca di riconoscimento senza cui non si costruisce alcuna identità e quindi non si può vivere. Questo spostamento, questa diversione è nota agli adolescenti e ai loro insegnanti come “divertimento “: “Suo figlio pensa solo a divertirsi” dice il professore che neppure sospetta che nel divertimento non c’è la gioia, ma solo la frustrazione. I giovani cercano il divertimento perché non sanno gioire. Ma la gioia è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta, realtà accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta al minimo. Che fa la scuola per tutto questo?  La scuola svolge i programmi ministeriali, perché il suo compito non è di educare, ma di istruire, essendo l’educazione, nella falsa coscienza dei professori, un derivato necessario dell’istruzione. Ma le cose non stanno proprio così. È semmai l’istruzione un evento possibile a educazione avvenuta; e l’educazione non sono le buone maniere, ma una lenta acquisizione, attraverso riconoscimenti, della gioia di sé. Là infatti dove il sapere diventa lo scopo, e il profitto il metro per misurarlo, qualunque siano le condizioni di esistenza in cui una vita è riuscita a esprimersi la scuola fallisce, perché livella, quando non mortifica, soggettività nascenti in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a dare identità più ai professori che agli studenti in affannosa ricerca. E qui non serve invocare la “buona volontà“ a cui, come una formula magica, ricorrono i professori nei loro sbiaditi colloqui con i genitori, Perchè tutti sanno che la volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione che scatta non appena la psicologia dello studente esce dagli schemi della psicologia del professore. Per questo basta pochissimo e, se si evita il suicidio, certo non si evita quella demotivazione insidiosa che spegne in giovani vite il rispetto di sé. Di seguito, “Silenzio, comincia la lezione” di Roberto Esposito - in occasione della pubblicazione del volume “La lezione” di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi editore, pagg. 120, Euro 13) - pubblicato sul quotidiano "la Repubblica" del 28 di novembre 2022: "La lezione non è un viaggio su un tram, ma una passeggiata a piedi, perché per chi viaggia è importante camminare e non solo arrivare". A scrivere queste parole è Pavel Florenskij, il "Leonardo russo", fucilato nel 1937, perché refrattario a irreggimentarsi nel sistema oppressivo sovietico. Secondo l'antica tradizione peripatetica, e la religiosità mistica, quando si passeggia importante non è solo la destinazione ultima, ma anche l'itinerario che si percorre. Con le sue pause, deviazioni, diramazioni. E con lo sguardo del viaggiatore spostato dai dettagli all'orizzonte profondo che li circonda. Anziché procedere per forza in avanti, su binari fissi, chi passeggia, pur senza perdere di vista l'approdo finale, può saggiare strade diverse, inoltrarsi lungo sentieri laterali, arricchire l'itinerario con incontri imprevedibili. (…). La lezione non si limita a riempire il tempo che scorre tra i due campanelli dell'inizio e della fine. È un'esperienza di vita, quasi un organismo vivente che, secondo il significato latino di legere e greco di légein, riunisce un gruppo di persone intorno a qualcuno che, parlando, getta luce su qualcosa di opaco. La lezione non è un dialogo o una confessione, né semplicemente una discussione. Non si rivolge a un unico interlocutore, e neanche a tutti, bensì a un gruppo raccolto in quel luogo pubblico, ma circoscritto, che è l'aula. Anche il termine "aula", interrogato nella sua provenienza etimologica (aulòs), è qualcosa che eccede lo spazio delimitato da quattro pareti. È - o dovrebbe essere - un luogo in cui le parole risuonano, vibrano, trasmettendo un sapere che non è somma inerte di conoscenze passate, ma apertura di senso sulla contemporaneità. L'insegnamento, quando è tale, oltre ad istruire, istituisce, nel senso che dà vita a qualcosa di nuovo, destinato a sedimentarsi e farsi esperienza vissuta. Ma la lezione, che istituisce, è a sua volta consentita dalla prima tre le istituzioni umane, è cioè dal linguaggio. (…). Oggi nelle aule scorrono immagini sugli schermi o si ascoltano suoni. Ma né le immagini né i suoni possono sostituire le parole. Così come, per esprimersi, anche le sensazioni o le emozioni, devono tradursi in parole. Sono queste che profilano i contorni delle cose, legandole a noi in una rete di significati condivisi. Le parole ci aprono un mondo, che altrimenti ci resterebbe ignoto e ostile. In un certo senso siamo noi stessi a crearlo, nominandolo - non, come il Dio cristiano, ritirandosi da esso, ma abitandolo. Certo le parole possono travisare, ingannare, mentire - come spesso hanno fatto e continuano a fare. Basti pensare come i vocaboli "libertà" e "democrazia" vengono inghiottiti da realtà che ne rovesciano il significato. Ma possono anche fissare qualcosa che fino a un certo momento non aveva nome e che tuttavia irrompe nella storia con una potenza distruttiva che va colta nella sua assoluta specificità. Come è accaduto con i termini "genocidio" o, oggi, "femminicidio". Insomma la parola può essere una trappola, ma anche una risorsa, senza la quale la nostra vita, da semplice materia vivente, non potrebbe superare la soglia del bíos, farsi forma di vita. La lezione - la scuola - è il luogo di trasmissione, attraverso la parola, di contenuti che non devono limitarsi a riempire un'ignoranza, ma attivare una tensione, stimolare un interesse, fecondare un'esperienza. (…). Certo, trasformare la scuola e l'università in una sorta di esamificio e gli esami in interrogatori, incapaci di andare aldilà dalla pura quantificazione delle nozioni apprese, stravolge il senso stesso della lezione. Ciò non toglie che, almeno fin quando varranno i titoli di studio, non si può rinunciare a verifiche, prove, controlli. Del resto, senza ostacoli da superare, non è possibile crescere. Ma questo non può significare cedere al linguaggio afono delle circolari ministeriali, alla insensatezza sgrammaticata delle "linee guida", all'ottusità della macchina burocratica che tratta la scuola come un'azienda. La scuola non può vivere fuori dalla freschezza dei rapporti concreti tra studenti e docenti, senza gli stimoli, i confronti, le sane competizioni che in questi anni di didattica a distanza sono inevitabilmente venuti meno. Solo questa concretezza, nata dalla condivisione tra i ruoli, che pure devono restare distinti, dei maestri e degli allievi può restituire alla discussione, piuttosto bislacca, che sta nascendo intorno alla nozione di merito, un senso meno legato alle ideologie del momento. Il problema, (…), è che una scuola che è meglio non definire "di massa", ma semmai "di tutti", non deve legittimare stratificazioni sociali, cristallizzare diseguaglianze o addirittura autorizzare esclusioni. Solo a partire da questo presupposto il principio del merito può ritrovare la sua funzione culturale e sociale.

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