Sopra. “Cammino
nel deserto”, acquerello (2022) di Anna Fiore.
“Valditara&Adolescenze”. Per un
approccio consapevole ai problemi adolescenziali aldilà degli spropositati
pronunciamenti della “politica”. Ha scritto Umberto Galimberti in “Silenzio
in aula” pubblicato sul quotidiano
“la Repubblica” del 13 di marzo dell’anno 2001: (…). …a partire dall’adolescenza,
per un naturale processo psicobiologico, i figli, per emanciparsi dalla
famiglia, riducono il loro livello di comunicazione in casa per aprirlo fuori,
con quei sostituti genitoriali che finiscono poi con l’essere i professori. Se
i professori tacciono perché il loro compito è solo l’istruzione, va da sé che
gli studenti si trovano di fronte a un vuoto, a una risposta mancata, che
andranno a cercare altrove, ma non a scuola. Non dimentichiamo che a motivare
un ragazzo a scuola non è il sapere (che semmai è un mezzo), ma il
riconoscimento senza cui non si costruisce alcuna identità. Se il
riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male o va così così a scuola,
l’identità, che è un bisogno assoluto per ciascun adolescente, la si costruisce
altrove, in tutti i luoghi, scuola esclusa, dove è possibile raccattare
riconoscimenti. Se poi fuori dalla scuola resta solo la famiglia (che a
quell’età è solo l’ambito protettivo da cui, come gli aquilotti, si prova ad
uscire) allora l’alternativa o è la strada con quel che la strada può fornire,
o è la solitudine non meno pericolosa (…). L’adolescenza, ognuno c’è passato, è
promossa dal desiderio che, proprio in quel periodo di vita ha la sua massima
espressione. Adolescenze non desideranti annunciano esistenze mancate, ma il
desiderio, ognuno lo sa, è contraddetto dalla realtà che non è costruita
apposta per soddisfare desideri. Qui sono possibili due atteggiamenti: o la
rimozione della realtà con creazione di un mondo sognante ad essa alternativo,
o la frustrazione che, reiterata, annulla l’identità. Il processo di rimozione,
molto complicato e pericoloso, è noto ai professori come “distrazione”: “Suo
figlio è sempre distratto”. Quasi bastasse un richiamo per fargli accettare la
realtà che si oppone alla forza del suo desiderio, e fargli dimettere il sogno
senza di cui il desiderio esploderebbe in modo incontrollato nella realtà (…).
In questo scontro tra realtà e desiderio in cui si dibatte l’adolescenza,
quando non scatta la rimozione della realtà, può scattare la frustrazione che è
utilissima per crescere, ma, come tutte le medicine efficaci, va dosata. Un
eccesso di frustrazione (…) sposta questa ricerca di riconoscimento senza cui
non si costruisce alcuna identità e quindi non si può vivere. Questo
spostamento, questa diversione è nota agli adolescenti e ai loro insegnanti
come “divertimento “: “Suo figlio pensa solo a divertirsi” dice il professore
che neppure sospetta che nel divertimento non c’è la gioia, ma solo la
frustrazione. I giovani cercano il divertimento perché non sanno gioire. Ma la
gioia è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta, realtà
accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta al minimo. Che fa la scuola
per tutto questo? La scuola svolge i
programmi ministeriali, perché il suo compito non è di educare, ma di istruire,
essendo l’educazione, nella falsa coscienza dei professori, un derivato
necessario dell’istruzione. Ma le cose non stanno proprio così. È semmai
l’istruzione un evento possibile a educazione avvenuta; e l’educazione non sono
le buone maniere, ma una lenta acquisizione, attraverso riconoscimenti, della
gioia di sé. Là infatti dove il sapere diventa lo scopo, e il profitto il metro
per misurarlo, qualunque siano le condizioni di esistenza in cui una vita è
riuscita a esprimersi la scuola fallisce, perché livella, quando non mortifica,
soggettività nascenti in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a dare
identità più ai professori che agli studenti in affannosa ricerca. E qui non
serve invocare la “buona volontà“ a cui, come una formula magica, ricorrono i
professori nei loro sbiaditi colloqui con i genitori, Perchè tutti sanno che la
volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste
separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando
il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza,
quando non di assoluta incomprensione che scatta non appena la psicologia dello
studente esce dagli schemi della psicologia del professore. Per questo basta
pochissimo e, se si evita il suicidio, certo non si evita quella demotivazione
insidiosa che spegne in giovani vite il rispetto di sé. Di seguito, “Silenzio, comincia la lezione” di
Roberto Esposito - in occasione della pubblicazione del volume “La lezione” di Gustavo Zagrebelsky
(Einaudi editore, pagg. 120, Euro 13) - pubblicato sul quotidiano "la Repubblica" del 28 di novembre 2022: "La lezione non è un viaggio su un
tram, ma una passeggiata a piedi, perché per chi viaggia è importante camminare
e non solo arrivare". A scrivere queste parole è Pavel Florenskij, il
"Leonardo russo", fucilato nel 1937, perché refrattario a
irreggimentarsi nel sistema oppressivo sovietico. Secondo l'antica tradizione
peripatetica, e la religiosità mistica, quando si passeggia importante non è
solo la destinazione ultima, ma anche l'itinerario che si percorre. Con le sue
pause, deviazioni, diramazioni. E con lo sguardo del viaggiatore spostato dai
dettagli all'orizzonte profondo che li circonda. Anziché procedere per forza in
avanti, su binari fissi, chi passeggia, pur senza perdere di vista l'approdo
finale, può saggiare strade diverse, inoltrarsi lungo sentieri laterali,
arricchire l'itinerario con incontri imprevedibili. (…). La lezione non si
limita a riempire il tempo che scorre tra i due campanelli dell'inizio e della
fine. È un'esperienza di vita, quasi un organismo vivente che, secondo il
significato latino di legere e greco di légein, riunisce un gruppo di persone
intorno a qualcuno che, parlando, getta luce su qualcosa di opaco. La lezione
non è un dialogo o una confessione, né semplicemente una discussione. Non si
rivolge a un unico interlocutore, e neanche a tutti, bensì a un gruppo raccolto
in quel luogo pubblico, ma circoscritto, che è l'aula. Anche il termine
"aula", interrogato nella sua provenienza etimologica (aulòs), è
qualcosa che eccede lo spazio delimitato da quattro pareti. È - o dovrebbe
essere - un luogo in cui le parole risuonano, vibrano, trasmettendo un sapere
che non è somma inerte di conoscenze passate, ma apertura di senso sulla
contemporaneità. L'insegnamento, quando è tale, oltre ad istruire, istituisce, nel
senso che dà vita a qualcosa di nuovo, destinato a sedimentarsi e farsi
esperienza vissuta. Ma la lezione, che istituisce, è a sua volta consentita
dalla prima tre le istituzioni umane, è cioè dal linguaggio. (…). Oggi nelle
aule scorrono immagini sugli schermi o si ascoltano suoni. Ma né le immagini né
i suoni possono sostituire le parole. Così come, per esprimersi, anche le
sensazioni o le emozioni, devono tradursi in parole. Sono queste che profilano
i contorni delle cose, legandole a noi in una rete di significati condivisi. Le
parole ci aprono un mondo, che altrimenti ci resterebbe ignoto e ostile. In un
certo senso siamo noi stessi a crearlo, nominandolo - non, come il Dio
cristiano, ritirandosi da esso, ma abitandolo. Certo le parole possono
travisare, ingannare, mentire - come spesso hanno fatto e continuano a fare.
Basti pensare come i vocaboli "libertà" e "democrazia" vengono
inghiottiti da realtà che ne rovesciano il significato. Ma possono anche
fissare qualcosa che fino a un certo momento non aveva nome e che tuttavia
irrompe nella storia con una potenza distruttiva che va colta nella sua
assoluta specificità. Come è accaduto con i termini "genocidio" o,
oggi, "femminicidio". Insomma la parola può essere una trappola, ma
anche una risorsa, senza la quale la nostra vita, da semplice materia vivente,
non potrebbe superare la soglia del bíos, farsi forma di vita. La lezione - la
scuola - è il luogo di trasmissione, attraverso la parola, di contenuti che non
devono limitarsi a riempire un'ignoranza, ma attivare una tensione, stimolare
un interesse, fecondare un'esperienza. (…). Certo, trasformare la scuola e
l'università in una sorta di esamificio e gli esami in interrogatori, incapaci
di andare aldilà dalla pura quantificazione delle nozioni apprese, stravolge il
senso stesso della lezione. Ciò non toglie che, almeno fin quando varranno i
titoli di studio, non si può rinunciare a verifiche, prove, controlli. Del
resto, senza ostacoli da superare, non è possibile crescere. Ma questo non può
significare cedere al linguaggio afono delle circolari ministeriali, alla
insensatezza sgrammaticata delle "linee guida", all'ottusità della
macchina burocratica che tratta la scuola come un'azienda. La scuola non può
vivere fuori dalla freschezza dei rapporti concreti tra studenti e docenti, senza
gli stimoli, i confronti, le sane competizioni che in questi anni di didattica
a distanza sono inevitabilmente venuti meno. Solo questa concretezza, nata
dalla condivisione tra i ruoli, che pure devono restare distinti, dei maestri e
degli allievi può restituire alla discussione, piuttosto bislacca, che sta
nascendo intorno alla nozione di merito, un senso meno legato alle ideologie
del momento. Il problema, (…), è che una scuola che è meglio non definire
"di massa", ma semmai "di tutti", non deve legittimare
stratificazioni sociali, cristallizzare diseguaglianze o addirittura
autorizzare esclusioni. Solo a partire da questo presupposto il principio del
merito può ritrovare la sua funzione culturale e sociale.
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