"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 20 dicembre 2022

Dell’essere. 63 Umberto Galimberti: «Oggi c'è difficoltà a esprimere le nostre emozioni. Perché viviamo nell'età della tecnica».  

Ha scritto Umberto Galimberti in “Conosciamo davvero le nostre emozioni?” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di dicembre 2022: Io temo che per molti appartengano ancora a una terra sconosciuta. Le emozioni sono una risposta affettiva intensa, con insorgenza immediata e di breve durata, determinate da uno stimolo ambientale, come può essere un pericolo, o mentale come ad esempio un ricordo, prima che intervenga un controllo mentale. Hanno origine nel "cervello antico" che abbiamo in comune con gli animali e i loro effetti nelle parti più nobili della nostra psiche come i sentimenti, i nostri vissuti, le nostre relazioni sociali. Furono di grande aiuto ai nostri antichi progenitori che avevano nelle emozioni il criterio per difendersi dai pericoli e accedere agli impulsi favorevoli alla procreazione. Nel nostro tempo sono valorizzate ed elogiate in ogni ambito, ma anche guardate con sospetto per i rischi che possono comportare. In ogni caso temo che per molti appartengano ancora a una terra abbastanza sconosciuta. Ad esempio in epoca covid tutti parlavano impropriamente di "paura" del contagio, invece avremmo dovuto parlare di "angoscia", perché la paura è un ottimo meccanismo di difesa di fronte a un pericolo determinato e immediatamente riconoscibile, l'angoscia è invece il vissuto che, in assenza di un oggetto determinato, ci fa fare l'esperienza del nulla a cui potersi appigliare per difenderci. Dov'era il covid? Dappertutto e in nessun luogo identificabile, da qui l'angoscia di non sapere come difenderci. Lo stesso dicasi per la gelosia che tutti pensiamo di conoscere. In realtà conosciamo solo quella competitiva che insorge quando un seduttore o una seduttrice minaccia la donna o l'uomo che amiamo. Non conosciamo affatto la gelosia proiettiva tipica di chi rimuove i propri desideri di infedeltà e li proietta sul partner di cui teme in modo ossessivo l'infedeltà, a cui il partner neppure ci pensa. Spesso tanti femminicidi hanno alla base questo tipo di gelosia. Lo stesso dicasi dell'ira. Qui converrebbe ricordare la massima di Aristotele: "Adirarsi è facile, ma non è da tutti adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per una giusta causa". (…). …oggi c'è una difficoltà a esprimere le nostre emozioni. Perché viviamo nell'età della tecnica che esprime una razionalità molto rigorosa quando, senza esitazione e con la massima precisione, ci si comporta secondo i valori della tecnica che sono efficienza, produttività, e velocizzazione del tempo, senza concessione agli aspetti irrazionali dell'uomo quali l'amore, il dolore, l'immaginazione, la fantasia, l'idealizzazione, il sogno, che per la razionalità tecnica sono elementi di disturbo. C'è poi chi si ribella a questa modalità di esistere, e allora assume come regola di vita quello che personalmente sente e, a prescindere d quello che sentono gli altri, realizza quell'autosufficienza che lo porta pericolosamente a perdere i contatti con la società come effetto del progressivo assorbimento in se stesso. Sono soprattutto questi soggetti che fuggono dalle persone tristi o malinconiche per l'abbandono o la morte di una persona cara Tristezza e malinconia sono risposte normali di fronte a certi eventi della vita, ma possono diventare patologiche quando non trovano ascolto e conforto, come spesso capita nella nostra società che celebra unicamente gioia, soddisfazioni e felicità, in ciò sostenuta da quella propaganda martellante tipica della pubblicità che ha spostato la felicità dall'essere felici a possedere cose che ci rendono felici. Alle persone tristi consiglio la massima stoica "substine et abstine". Reggi la sofferenza e astieniti dal metterla in scena. Gli stoici la indicavano come forma da acquisire per rafforzare il carattere. Io la consiglio per non perdere gli amici che, (…), dopo un "Su, forza!" ti evitano per non contaminarsi con il tuo dolore, o più semplicemente perché hanno perso la capacità di partecipare al dolore degli altri (finché non capita a loro). Di seguito, “Il più buio dei luoghi oscuri” di Concita De Gregorio, pubblicato sullo stesso numero del settimanale “d” del 10 di dicembre ultimo: (…). Chiedeva, non ricordo chi: "Ma Maria Montessori, dopo, rimetteva a posto lei?". Migliaia di volte, quando i figli erano piccoli e dovevano "liberare la loro creatività", secondo il precetto della grande educatrice, ho pensato a lei, benedetta donna, mentre riparavo i guasti camminando scalza su dolorosissimi minuscoli pezzi di Lego. Ecco cosa avrei voluto chiederle: se rimetteva a posto lei. Poi però ricordavo quel passaggio della lettera che le aveva indirizzato Sigmund Freud nel 1917: "Se i bambini fossero allevati in tutto il mondo secondo i suoi principi la maggior parte degli psicoanalisti non avrebbe più niente da fare". E pensavo che pazienza per il Lego sotto i piedi, pazienza per il vaso della bisnonna: stavo risparmiando loro decenni di psicanalisi, e la spesa che ne consegue. Poi non è vero, avrei scoperto. Si vede che liberare la creatività non basta, Sigmund intendeva qualcosa di più esteso. Ma insomma, allora lo pensavo. L'altro giorno ho ritrovato la frase di Freud in apertura di un manuale di Daniele Novara, pedagogista esperto nella gestione dei conflitti. Il libro si intitola La manutenzione dei tasti dolenti (Bur, Rizzoli) e parla appunto di come controllare quelle reazioni negative che abbiamo quando qualcuno tocca un nostro nervo scoperto. I tasti dolenti, dice, "sono condensati emotivi e psicologici collegati a esperienze dolorose della nostra infanzia". Di nuovo, buongiorno Freud: i nostri cari omaggi. Non si finisce mai di fare i conti con qualcosa che ci è accaduto in un momento della vita che talvolta non siamo neppure in grado di ricordare. Mi sono anche detta, esausta, a un certo punto della mia, di vita, che non vale la pena passare i successivi settant'anni a ricostruire i primi dieci: dopo essersi applicati a farlo per un tempo congruo conviene forse vivere il presente cercando di correggere errori e limitare i danni. Ma forse, anzi di certo, mi sbaglio. Mi sono rimessa a leggere e imbattuta in un elenco di frasi. Scegli quella che ti ferisce, chiede Novara. "Con te non si può parlare", "la vuoi sempre vinta", "non ce la farai mai", "si è sempre fatto così", "calmati". Su "calmati" ho sentito un movimento dello stomaco: non sono irascibile, anzi, eppure in ogni discussione c'è qualcuno che mi dice "stai calma", qualcuno a cui rispondo "sono calma" fino a che - siccome l'altro insiste - non perdo la calma Allora dice, l'altro: lo vedi? Qui uno dovrebbe, anziché scagliare quello che ha in mano, ribattere gentilmente: ho perso la calma perché mi hai esasperata, o almeno dovrebbe dirlo a se stesso e rinunciare a discutere. Osservo tuttavia, in base alla mia esperienza empirica, che dire "sei stato tu a farmi perdere la pazienza" innesca l'altro meccanismo: "è colpa tua", micidiale bomba che pesca nel più buio dei luoghi oscuri. Il senso di colpa. Questa soluzione dunque la eliminiamo e studiamo meglio il manuale, da capo.

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