"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 10 dicembre 2022

 Virusememorie. 99 Jeremy Rifkin: «I virus continuano ad arrivare, il clima si sta surriscaldando e la terra si sta rinaturalizzando».  

             

              Serrastretta (Calabria). 31-10-2022 Sottobosco della "faggeta".

“Il racconto”. “La rabdomante” di Melania Mazzucco pubblicato sul periodico “Green&Blue” del 10 di novembre 2022:

La zona era abbandonata da decenni. Gli ultimi abitanti erano andati via quando la sabbia aveva ricoperto anche l'ultimo campo. Nel paese vuoto si aggirava solo una bestia famelica, moribonda - non avrebbe saputo dire se si trattava di un cane. Negli ultimi tempi prima dell'esodo la gente fantasticava di un'invasione di animali sconosciuti a quella latitudine - sciacalli, iene, fennec. Avvezzi al clima del deserto. Non si poteva definire altrimenti quella vastità assolata e arsa che dal mare lambiva le colline. Un deserto grigio di sassi e sale: la terra screpolata in losanghe difformi aveva il colore della polvere. Lei avanzava a fatica su quella che era stata una strada asfaltata, e ormai era un viottolo sconnesso, crivellato dai crateri dei fuoristrada. Operai della discarica o polizia di frontiera: gli unici che avessero qualche ragione per percorrerla. Non c'era più neppure un albero a proteggerla dai raggi del sole. Il bosco era stato tagliato per usare tronchi, rami e foglie come combustibile al tempo della crisi energetica. Gli esemplari superstiti - qualche ulivo, un carrubo - non avevano superato la grande siccità. Eppure - benché in un altro continente - lei teneva la cartolina del paese dei suoi antenati incastrata nello specchio dell'armadio. La fotografia, scattata all'inizio del Novecento, raffigurava una pianura coltivata a grano. Le spighe ondeggiavano alle spalle dei due bambini messi in posa sul crinale della collina. Aveva sempre sognato di andarci, un giorno. Di visitare il cimitero e la fattoria dei trisavoli. Ma non lo aveva fatto, e ormai della fattoria non restavano nemmeno le travi - bruciate anch'esse. E il cimitero era stato smantellato. Andando via, chi aveva potuto si era ripreso i suoi morti. Lei era cresciuta ascoltando storie che le sembravano irreali come favole. La madre voleva che potesse tramandarle ai suoi figli. Anche se un paese non esiste più, può vivere nella memoria. Lei non ci aveva mai creduto, e ormai era tardi. Il treno non fermava più alla stazione. Era venuta in nave, concordando un passaggio dal porto. L'autista (un ex pescatore ora impiegato alla bonifica delle scorie) l'aveva lasciata al bivio, nel nulla, perplesso. È sicura che vuole scendere qui? le aveva chiesto. Lei era saltata giù senza rispondere. L'uomo doveva tornare a riprenderla prima del tramonto. Ha abbastanza acqua con sé? le aveva chiesto. Non troverà niente per dissetarsi. E non beva alla vecchia fontana del paese. Forse vedrà sgocciolare un filo d'acqua. Ma è contaminata. La falda è inquinata da trent'anni. È stato l’inizio della fine. E l'acquedotto? Aveva chiesto, issando lo zaino sulle spalle. Fu sabotato dal consorzio. Mai ripristinato. Chi voleva acqua, doveva pagarla. Per un po' gli agricoltori si sono organizzati. Hanno estirpato il grano per i girasoli, e poi la colza, la palma e dio sa cos'altro. Qualcuno tentò anche la desalinizzazione. Costava troppo. Eppure qui c'era gente che sapeva trovarla, l'acqua, azzardò lei. Solo leggende, tagliò corto l'uomo. Invece lei - mentre oltrepassava i resti del villaggio, succhiando un sassolino per produrre salivazione. - pensava al Rabdomante. Era una delle storie con cui era cresciuta, la sua preferita. La sua famiglia - le raccontavano - non era originaria di quella terra. Ci era arrivato il loro capostipite, secoli prima. Allora la campagna apparteneva a un solo padrone. Tutte le colline, e la pianura, fino al mare. I braccianti si spaccavano la schiena nei campi, pagati appena per non morire di fame. Ai piedi delle montagne i terreni erano incolti. Ma nessuno si azzardava a comprarli, perché con cosa li avrebbero irrigati? Anche i pozzi erano del padrone. L'antenato era un soldato, o comunque aveva combattuto con l'esercito. Ferito, aveva disertato. Stramazzò in paese, e venne nascosto e curato da un contadino. Poverissimo, ricco solo di figlie e debiti. Ma si privò di un boccone di pane duro per darlo allo straniero. Lui volle ricompensarlo. Chiese se sapesse cos'è un rabdomante. Nel posto da cui veniva, era una figura venerata. Una specie di sacerdote dell'acqua. Questi strani uomini, un po' santoni un po' sciamani, vivevano ai margini della comunità. Però guidavano la carovana, erano loro a organizzare le soste e determinare gli itinerari. Perché sentivano l'odore dell'acqua sotto terra. Anche sotto la sabbia. Una vibrazione, un sussurro: la vita che li chiamava. Indicavano un punto, e lì c'era da bere per gli animali e gli uomini. Vivevano così, vagando. E la terra non li aveva mai traditi. Qui non funziona così, sospirò il contadino. Gli ingegneri del padrone fanno degli studi e scavano i pozzi. Acqua sopra il paese non ce n'è. E neanche sotto, perché l'infiltra quella del mare. Ma se io trovassi l'acqua? aveva chiesto il capostipite, sorridendo alla figlia del suo ospite, potrei restare? Il disertore rabdomante la trovò davvero, l'acqua. Comprò il terreno, scavò il pozzo e poi i canali per portarla a valle. Nel giro di cinquant'anni cambiò tutto. II paesaggio divenne giallo di grano, e argento di ulivi. L'età dell'oro durò un centinaio di anni. Poi costruirono una diga a monte e la falda si prosciugò, le sorgenti furono privatizzate, e l'acquedotto danneggiato. I discendenti del rabdomante erano emigrati fra i primi. Dall'altra parte dell'oceano dove sperimentarono il potere malefico dell'acqua. Inondazioni, diluvi. Da cinquant'anni, nessuno di loro lavorava la terra o ne conosceva l'odore. Ma adesso che l'isola su cui viveva, di fronte alle coste del continente, era stata sommersa, lei aveva deciso di tornare. Portava con sé un sacchetto di terra. L'aveva presa il primo che era partito. Se la tramandavano di generazione in generazione unica eredità materiale sopravvissuta alle catastrofi.  Lei non l'aveva mai aperto. II sudore colava sulle palpebre, rendendole difficile seguire il sentiero superate le rovine dell'ultima fattoria, una frana di pietre bollenti. Doveva schivarle, altrimenti le avrebbero liquefatto le scarpe. Non immaginava che a questa latitudine temperata potesse fare tanto caldo. Si riparava la testa con un berretto, ma il sole era fuoco. Tutto bruciava. La pelle, le pietre, l'aria stessa. Unica traccia di vita, impronte sinuose di rettili nella sabbia. Aveva la bocca talmente asciutta che dovette fermarsi a vuotare la terza borraccia. Gliene restavano due. Se entro un'ora non avesse trovato il posto, sarebbe dovuta tornare indietro. O sarebbe morta di sete. Era capitato. Ricercatori che si erano smarriti, un ciclista cui si era rotto il telefono satellitare, migranti - a migliaia, che non erano riusciti a superare la cresta delle montagne, al di là delle quali c'erano ancora i fiumi, e la vita. Le indicazioni non avevano più senso. Tutti i punti di riferimento erano saltati. Il crocevia con la Madonna, l'ulivo, un muretto a secco. Non trovò nulla. Eppure, sapeva di non aver perso l'orientamento. E che stava andando nel luogo che la aspettava. Quando era piccola, e la madre arrivava al punto in cui il rabdomante sentiva fremere il bastoncino, e urlava: «è qui!», lei la interrompeva. Ma perché erano tutti uomini? Scavalcò una carcassa mummificata da cui legioni di formiche si ostinavano a estrarre nutrimento. Ma non aveva più le forze per proseguire. Estrasse dallo zaino il sacchetto con la terra. Benedetta, maledetta. Madre e matrigna, ti abbiamo amata, e odiata e ora ti vendichi. Si inginocchiò sotto una roccia sporgente, slegò lo spago e rovesciò al suolo il contenuto. In quasi duecento anni la terra si era essiccata, ma aveva ancora un caldo colore rossastro. I granelli spiccavano sulla terra riarsa grigia e gialla come una spolverata di pepe. Poi sentì la scossa - come se avesse toccato un cavo elettrico - e cadde a terra, folgorata. Quando si risvegliò, il sole tramontava dietro la collina. Non sarebbe mai arrivata in tempo all'appuntamento. L'autista l'avrebbe abbandonata? Lo aveva già pagato. Gli uomini provavano ancora pietà? Aveva il viso bruciato dal sole, e le labbra screpolate. Ma i capelli non erano umidi di sudore. Un reticolo di fili scuri, sottili come capelli, si allargava sotto di lei. Un rivolo d'acqua che risaliva dal profondo, e si insinuava fra le crepe della crosta. Non sei ancora morta, terra mia, balbettò, ridendo. Nemmeno io. In qualche modo scenderò al mare. E griderò al mondo intero che possiamo resistere. Di seguito, “Regole nuove per salvare il mondo” di Jeremy Rifkin pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 27 di novembre 2022: I virus continuano ad arrivare, il clima si sta surriscaldando e la terra si sta rinaturalizzando. Stiamo cominciando a renderci conto che la razza umana non ha mai avuto davvero il dominio sul pianeta e che la natura è molto più potente di quanto pensassimo, mentre la nostra specie appare molto più piccola e insignificante nel più ampio contesto della vita sulla Terra. Per molti di noi, questa rivelazione ha un effetto devastante e determina la più totale incertezza quanto alle contromisure da adottare nel nostro modo di vivere. Per liberarci da questa paralisi, avremo bisogno di un quadro di regole completamente nuovo. Ciò che nessuno ha il coraggio di dire è che quello che ci ha portato sull'orlo dell’abisso è l’insieme di credenze, supposizioni, politiche e comportamenti generati dall’Età del Progresso. Le nostre nozioni di tempo e spazio; le nostre idee sulla governance; la nostra gestione dell’economia; il nostro rapporto con la natura; il nostro approccio alla ricerca scientifica; i nostri metodi educativi; e persino la nostra idea di individuo sono la miscela tossica che ora sta avvelenando tutto il pianeta. Non c’è da meravigliarsi se siamo paralizzati dalla paura, perché dobbiamo rivoluzionare il nostro modo di pensare e questo ci terrorizza. Ma la realtà comincia a emergere comunque e a suggerirci che l’Età del Progresso, un tempo considerata sacrosanta, sta tramontando mentre sorge una nuova più potente narrazione, quella dell’Età della Resilienza. Durante l’Età del Progresso, l’efficienza è stata il parametro fondamentale per organizzare il tempo, costringendo la nostra specie a massimizzare l’espropriazione e il consumo delle ricchezze della Terra, a ritmi sempre maggiori e in tempi sempre più ristretti, con l’obiettivo di aumentare l’opulenza della società umana, anche al costo dell’esaurimento delle risorse naturali. La ricerca dell’efficienza a tutti i costi comporta l’eliminazione di ridondanze e diversità per non rallentare l’ottimizzazione delle attività economiche. Invece, la Resilienza, almeno in natura, è fondata proprio sulla ridondanza e la diversità. Meno diversificato è l’ecosistema, tanto più vulnerabile esso diventa alle perturbazioni e al collasso.  Durante l’intera Età del Progresso, lo spazio è diventato sinonimo di risorse naturali da saccheggiare e il ruolo principale del governo e dell’economia è stato quello di garantire che la natura fosse gestita come una proprietà. La nostra specie è stata impegnata in una corsa incessante per estrarre, privatizzare, mercificare, consumare e ridurre a rifiuto intere aree del mondo naturale. Questo approccio al tempo e allo spazio, per lungo tempo prevalente, ha reso l'umanità specie dominante sulla Terra ma ha portato alla rovina del mondo naturale. È sconvolgente pensare che al 2005 l’Homo sapiens costituiva meno dell’uno per cento della biomassa totale della Terra, ma consumava il 24 per cento della produzione primaria netta della fotosintesi e potrebbe arrivare al 44 per cento​​​​​​ entro il 2050, lasciando solo il 56 per cento al resto della vita sulla Terra. Non è così che funzionano i sistemi biologici. Essi misurano la prestazione ottimale non sulla produttività ma sulla capacità di rigenerarsi, non sulla efficienza ma sulla adattabilità. Le nuove generazioni stanno così passando dal concetto di crescita a quello di prosperità, dal capitale finanziario al capitale ecologico, dal Prodotto Interno Lordo (Pil) agli Indicatori della qualità della vita (Iqv), dal consumismo esasperato all’Ecogestione, dall’economia lineare all’economia circolare, dalla proprietà all’accesso, dal mercato alle reti fornitori-utenti, da economie di scala integrate verticalmente a quelle integrate lateralmente, da filiere centralizzate a filiere distribuite, da grandi gruppi multinazionali a piccole e agili cooperative high-tech collegate fra loro in comunità fluide regolate da blockchain. I diritti di proprietà intellettuale stanno lasciando spazio alla conoscenza condivisa open source, in un mondo non più “global” ma “glocal” non più ispirato dalla geopolitica ma dalla politica della biosfera. Stiamo appena iniziando a capire che le nostre vite e quelle dei nostri simili, sono estensioni delle sfere della Terra. Apparteniamo alla Terra con tutti noi stessi. Il sé individualista dell’Era del Progresso sta cedendo il passo al sé ecologico dell’Era della Resilienza, in cui si modifica anche la nostra visione della governance: non più come strumento di sovranità sulle risorse naturali ma come protezione degli ecosistemi regionali. Già cinque Stati del Nord Ovest americano e cinque province canadesi confinanti hanno dato vita alla Regione Economica del Pacifico Nord Ovest (Repno) mentre otto Stati americani e due province canadesi della regione dei Grandi Laghi e di Saint Lawrence hanno dato vita a una “Conferenza di governatori e premier” per tutelare e amministrare i loro ecosistemi comuni, al di là delle frontiere nazionali che li attraversano.Così, mentre crollano i muri fra civiltà e natura, la democrazia rappresentativa comincia a essere percepita come inadeguata per far fronte ai monumentali impegni di preparazione e adattamento ai sempre più virulenti disastri climatici, e nascono “assemblee cittadine paritarie”, in cui soprattutto le giovani generazioni assumono un ruolo attivo nella governance delle loro bioregioni. Queste assemblee di cittadini sono selezionate per sorteggio dai governi locali o elette con votazioni informali di vicinato per affiancare il governo e prendere decisioni su questioni prioritarie a loro appositamente delegate, quali la determinazione delle priorità di bilancio, per la preparazione ai disastri climatici, il soccorso e la ricostruzione, la realizzazione di infrastrutture resilienti e la gestione dei servizi ecosistemici locali. Oltre 3.000 assemblee di cittadini sono attualmente operative in tutto il mondo. Gli antropologi ci dicono che siamo tra le specie più capaci di adattamento. Resta da vedere se useremo questo nostra particolare caratteristica per ritrovare il nostro posto nella natura con umiltà, consapevolezza e previdenza e riusciremo a consentire alla nostra specie e alla nostra famiglia biologica allargata di sopravvivere e, magari, tornare a prosperare.

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