“DirittiUniversaliNegati”. Ha scritto Massimo
Cacciari in “L’ambiente pulito. Un
diritto universale” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 27 di
novembre 2022: Esistono diritti “naturali”? Il diritto è sempre una costruzione
artificiale. Tuttavia noi vorremmo che questa costruzione si dimostrasse conforme
alla “natura” del nostro essere, e cioè fosse “umana”. I “diritti umani”
presuppongono, dunque, il conoscere ciò che caratterizza innegabilmente
l’“essere umani”. Possiamo definirlo? In senso lato sì: noi siamo quella specie
animale che è dotata di logos, capace cioè di parlare, di ragionare, e di
credere, almeno, libero il proprio agire. I “diritti umani” stabiliscono che i
membri di questa specie non possono perciò essere trattati da animali senza
logos, alogoi, costretti a obbedienza passiva, o da schiavi. Questo è però
semplicemente il fondamento “naturalistico” dei “diritti umani”. Da qui in poi
tutto viene a essere artificiale. I diritti hanno una storia, si evolvono,
danno vita a ordinamenti giuridici sempre più complessi. Il sistema di diritti
che ha elaborato l’Occidente può affermarsi globalmente? È quello di cui parla
anche la nostra Costituzione. Poniamo la domanda in modo più drastico:
l’Occidente vuole davvero operare perché il sistema di diritti che appare oggi
elemento essenziale della sua cultura diventi universale? Lo dovrebbe, poiché
quel sistema nasce universale nella sua essenza. E ciò significa
trans-nazionale, trans-statuale. Se la politica dei Paesi dell’Occidente non si
colloca in questa prospettiva, essa semplicemente tradisce i principi che
predica. Pretende di affermare come principi-guida, egemoni, per la vita di
tutti i popoli ciò che per prima rende, e forse sa, irrealizzabile. Vivere in
un ambiente sano, non respirare veleni è un “diritto umano”? Lo è diventato,
certamente. Un diritto fondamentale per la nostra “civitas”, un “diritto
civile”. Ma non può affermarsi che su scala globale. Può esservi un diritto
alla scuola o alla cura in una parte del mondo, anche se in tante altre viene
calpestato. Ma se un Paese inquina, il suo prossimo non dispone di vaccini per
difendersi. In questo campo nessuno è immune. Non si tratta della salvezza del
pianeta, della galassia, del cosmo, come una certa retorica ecologista sembra a
volte suggerire. Il pianeta ci sopravviverà senza grande fatica qualsiasi gesto
suicida decidessimo. Le nostre pratiche mettono in discussione soltanto la
nostra esistenza, insieme a quella di qualche altro vivente. Ma, ben prima,
mettono in drammatica evidenza la contraddizione che ho già indicato: i “diritti
umani” costituiscono una grandiosa costruzione intellettuale che può reggersi
soltanto se affermata e praticata nel senso della sua universalità. Dettato
della retta ragione, conforme alla nostra natura razionale, dunque, per dirla
con Grozio, è che ogni uomo goda di istruzione e di cura, che ogni uomo possa
vivere libero - e si è liberi soltanto quando il bisogno non opprime, non
soffoca -, e infine anche in una biosfera respirabile. Come procedere secondo
tale retta ragione? Vi è una sola strada: conferire ai Paesi che oggi neppure
lontanamente dispongono di mezzi economici e tecnologici adeguati tutte le
risorse necessarie per avviare la riconversione eco-sostenibile dei propri
sistemi. Un piano di aiuti autentico, non un impegno vago da comunicato finale
di un vertice. Fino a quando una tale decisione non verrà realmente presa
dall’insieme dei Paesi del democratico Occidente, e i loro sforzi si
limiteranno (e quanto limitati ancora!) alla revisione dei propri interni piani
energetici, la crisi ambientale si aggraverà fino a imprevedibili esiti. Qui si
rivela ancora una volta la contraddizione che caratterizza la fase storica in
cui viviamo: se principi che sono “naturalmente” globali non si traducono in
decisioni e norme positivamente assunte non potranno trovare attuazione,
resteranno pure idee. Se non esiste una Autorità in grado di tradurli in
diritto positivo e di sanzionare chi lo trasgredisce, la loro efficacia non
sarà molto diversa da quella di una predica. Un Tribunale internazionale dell’ambiente
ci vorrebbe, sulla base di un vincolante trattato tra i diversi Stati. Ma
questo a sua volta presuppone un massiccio piano di aiuti ai Paesi che non
possono con le loro forze affrontare una radicale riconversione del proprio
modello di sviluppo. Per il momento sembra però che spese per armi e guerre
costituiscano la nostra priorità. “UnVirusChiamatoUomo”. Il racconto “La catastrofe post-datata” dello scrittore
Paolo Di Paolo pubblicato sul periodico “Green&Blue” del 10 di novembre
ultimo: Basta con le distopie! Il protagonista del romanzo che sto finendo di
scrivere lo dice, per essere sinceri, con meno eleganza. Ma gli ho prestato un'insofferenza
che è anche mia: rispetto a un genere di racconto - letterario, filmico - che
tende a proiettarci in un domani minaccioso. Non si contano i libri, spesso
libracci, in cui le grandi metro· poli sono invase dalle acque. A un certo
punto, magari, si affacciano gli alieni. Vedo un rischio concreto
nell'alimentare a dismisura un immaginario giocato sulla catastrofe post-datata:
puoi esserne spaventato ma per gioco, riconoscendola come iperbole narrativa -
una specie di caricatura del possibile. E comunque, non riguarda l'immediato. In
realtà, nelle oscillazioni violente di un quadro climatico sufficientemente
stravolto, la sconcertante evidenza restituisce una distopia già in atto. Ha
infiltrato il presente: come fa con le case l'acqua che sommerge e cancella
Cantiano, Marche, Italia. La dimensione che più sfugge agli umani - un
paradosso che spesso rovina intere esistenze - è quella del presente: la
capacità immaginativa riesce a lavorare sulla memoria e sul futuro, a cogliere
meglio in forma di ricordo o di presagio ciò che è già sotto gli occhi. Se ne
ha la prova nel discorso politico: quando per l'appunto si appella alla
grandezza (spesso idealizzata) di figure del passato; quando, nell'illustrare
programmi ambiziosi quanto aleatori, si rivolge ai giovani con insopportabile
retorica. I giovani, che - da frase fatta - «sono il nostro futuro». Il futuro
di chi? Intanto esiste e richiede cura e si sfarina e si complica il presente
di tutti. «Il caldo e il freddo estremi non consentono di fabbricare un mondo»,
ha osservato per tempo un filosofo che, in certi pomeriggi di studio, poteva e
può dare qualche preoccupazione. Si tratta di Hegel, che aveva colto o
recuperato - dall'alba del diciannovesimo secolo - l'indiscutibile tensione
della specie umana verso un "optimum" climatico comunque instabile.
L'attesa della singola bella giornata. La spinta migratoria verso climi più
temperati. Il Sapiens è duttile, adattabile, sì, e tenace, ma soffre nella
furia degli elementi. La meteorologia domina da sempre nelle conversazioni
spicce, da bar e da mercato; alle cosiddette previsioni del tempo diamo più di
un'occhiata al giorno, ma la verità più impegnativa non viene mai ripetuta dal
colonnello dell'aeronautica: il nostro organismo soffre nella furia degli elementi,
va in panne se le temperature si innalzano oltre misura, sragioniamo e
boccheggiamo nel caldo afoso, sentiamo sfaldarsi la tenuta del nostro complesso
energetico; viceversa, a tredici gradi esterni, se nudi, cominciamo a tremare.
Se la temperatura corporea scende a trentatré gradi, non stiamo più in piedi. L'impatto
del clima e delle condizioni atmosferiche sulla vita dei popoli non è meno
significativo nell'esistenza di un singolo individuo: stati ansiosi, depressione,
istinti suicidi o violenti, oscillazioni dell'appetito, del desiderio sessuale,
alterazioni della motilità intestinale. Questo per richiamare un'ovvietà
fattasi opaca: niente ha più rilievo del clima rispetto al semplice e miracoloso
fatto di essere qui, di essere vivi. Lavorando al romanzo di cui dicevo, ho
risalito i secoli in cerca di voci umane in grado di testimoniare la vertigine
emotiva, lo sconcerto, la disperazione di fronte alla violenza degli sbalzi
climatici. Ho trovato invocazioni e preghiere, l'attribuzione atterrita al
divino del furore con cui temporali e grandinate devastano i raccolti, picchi
di calore che rendono inabitabili zone desertificate. Ho interrogato la
capacità delle società di assorbire gli shock legati alle crisi ambientali non
in un futuro possibile, ma nel passato, secoli di gelo, anni senza estate,
stagioni torride che minano la tenuta degli imperi. E ho - ingenuamente!
Tardivamente! - colto ciò che non sfugge a storici, antropologi, climatologi:
che niente è stato più ferale, per la sopravvivenza delle comunità umane su
questo pianeta, di un clima ostile. Il 6 settembre scorso, a Sacramento,
California, il termometro ha toccato i 47 gradi. Dove qualcuno legge eccessivo
allarmismo, e con un'alzata di spalle stizzosa liquida come catastrofisti e apocalittici
scienziati e cittadini impegnati, c'è una solida sequenza di dati. Che fatica
comunque a generare autentica preoccupazione, come se nella cultura umana
l'idea di un'apocalisse a rate - per certi versi già piuttosto visibile - fosse
meno sinistra e omicida di un'apocalisse che si compie di colpo, in un solo
istante. È la «grande cecità», la rimozione di cui ha parlato lo scrittore
indiano Amitav Ghosh, quella che impedisce anche a noi scrittori di vedercela
davvero con flutti e tifoni, se non per gioco. Se non quando l'acqua arriva in
cucina: «durante l'uragano Sandy - ha raccontato Zadie Smith - ho sceso
quindici piani di scale a piedi, incinta di parecchi mesi, al buio, solo per
raggiungere una connessione wi-fì e mandare una mail a un mio conoscente che
negava il cambiamento climatico per dargli questa recente prova della sua
idiozia». Qualche volta mi dico che, di fronte al fallimento della nostra
immaginazione etica e politica, bisognerebbe davvero sostituire allo spirito
farsesco-catastrofista alla The Day after Tomorrow un più solido e non meno
angosciante The Day before Yesterday. Provare cioè - come invita a fare il
glaciologo Carlo Barbante - a dissolvere le nebbie della fantascienza con
notizie dalla Storia. Lui si riferisce ai dati concreti («per capire cosa lo
studio del passato possa dirci del clima di oggi, per poter poi meglio
prevedere anche quello di domani»). Io aggiungerei un dato emotivo: e anziché
inventare creaturine romanzesche da piantare in un futuro remoto, recuperare l'angoscia
di chi in un mondo diventato inabitabile per il caldo sperimentava l'inferno in
terra. E non per metafora. O chi, in un mondo raggelato, si domandava: che ne
sarà di noi in questo secolo di gelo? Dobbiamo fidarci di queste voci; di
questi sguardi: seguirli mentre indovinano un sole pallido, quasi spento,
dietro il velo compatto dei cirrostrati. Mentre si disperano di fronte a una
terra infeconda. La presenza di selvaggina è dimezzata; i capi di bestiame,
sfiniti, crollano nei torrenti di acqua gelida - ne vanno recuperate le
carcasse, e poi, con astuzia, con rabbia, spartite. Perché il vero grande
indicibile nemico è la fame, e (come leggevamo sui libri di scuola, mandando a
memoria date di battaglie e anni di regno in uno sbadiglio) il prezzo dei cereali
raddoppia, triplica; il costo del pane cala o aumenta anche solo in base alle
piogge. Non è un caso – racconta chi “predice” il passato – che Filippo II
venisse tenuto minuziosamente al corrente delle variazioni climatiche nei suoi
vasti domini.
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