“Politica-Consapevolezza-Capacità”.
Ha scritto Maria Rita Gismondo - direttrice della facoltà di “Microbiologia
clinica e virologia” dell’ospedale "Luigi Sacco" di Milano – in “Il neurone dell’incompetenza” pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 14 di dicembre 2022: Una ricerca dell'Università di Bologna
su Plos Biology, spiega come esistano differenze neuronali tra consapevolezza e
competenza. Il fatto che ci siano due diverse reti cerebrali distinte a
regolarle, è spiegazione di molti comportamenti. È stato dimostrato che la
nostra rappresentazione interna del mondo non sempre corrisponde alla realtà.
L'acquisizione di competenze da un lato e consapevolezza delle proprie abilità
dall'altro, sono aspetti dissociabili della nostra esperienza, spiega Paolo Di
Luzi, primo autore del lavoro. Di solito, in uno sviluppo cerebrale
fisiologico, sebbene capacità e consapevolezza viaggino su “binari"
distinti, son concordanti: sono consapevole di saper dipingere, parallelamente
alla capacità reale di dipingere. Esser consapevoli delle proprie capacità può
rivelarsi vantaggioso nell'interazione con il mondo esterno: se sappiamo di
esser stonati evitiamo di esibirci in pubblico. Ma non funziona sempre così.
Non siamo fatti solo di meccanismi dovuti a cellule e geni: ha molta influenza
l'esperienza, intesa sia come educazione ricevuta che vita vissuta. In infanzia
e adolescenza, l'educazione di genitori e insegnanti può significativamente
alterare, in negativo o in positivo, la nostra consapevolezza, fino a produrre
un'alterazione della percezione dell'altro. Resta il pericolo d'una, più o meno
completa, dissociazione tra consapevolezza e capacità. S'assiste sempre più a
persone che, senza aver acquisito le dovute capacità, ha una consapevolezza
alterata. Sono soggetti che, spesso a causa di un trascorso di umiliazione,
mancata affermazione o eccessivo stimolo alla super-autostima, cerca un
riscatto, un'affermazione personale nel sentirsi capaci di azioni o professioni
assolutamente inadeguate al proprio grado di preparazione. Il pensiero non può
non andare a figure istituzionali e politiche che - senza alcuna preparazione
ed educazione scolastica adeguata - ricoprono, senza timore, cariche che richiederebbero
un ben diverso curriculum. Oggi sappiamo che la causa fisiologica è la diversa
rete neuronale che governa consapevolezza e capacità. Di seguito, “Mandare armi a Kiev senza sapere perché”
di Massimo Cacciari pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’11 di dicembre
ultimo: Continuiamo a vivere un salto d’epoca con logiche e provvedimenti
puramente emergenziali. Tra questi anche il fornire armi all’Ucraina. Se ne discute
da una parte e dall’altra come fosse qualcosa valutabile di per sé, un fine e
non un mezzo. Servono a che? Per vincere sul campo la Russia? Per costringerla
alla resa? Per “riconquistare” la Crimea? Per disfare la Federazione russa (più
di 80 soggetti federali, tra cui 22 Repubbliche autonome, in gran parte
costituite da minoranze etniche - vi è perfino una piccolissima Repubblica
ebraica all’estremo oriente dell’immensa Federazione, la quale confina, non si
dimentichi, con gli stessi Stati Uniti)? Quale strategia si persegue? Assieme
all’invio di armi quale iniziativa politico-diplomatica sta svolgendo l’Unione
Europea? Che cosa si risponde alla Merkel, che ha detto apertis verbis di non
essere stata ascoltata da anima viva? Forse con le battute propagandistiche
della Presidente della Commissione, che chiede di istituire un tribunale
speciale a senso unico per i crimini di guerra russi? Qualche giurista - o
Kissinger - non potrebbe spiegare alla van der Leyden che cose simili si
possono combinare solo a conflitti finiti e con il nemico schiacciato, e che
parlarne ora con una guerra in atto, e di portata globale, può significare
soltanto impedire o ostacolare qualsiasi percorso di pace?Se
l’Europa non assumerà rapidamente la missione che la storia le ha affidato nel
confronto tra i grandi spazi imperiali, ruolo di intesa, di mediazione, agente
e promotore di tutte le riforme necessarie degli organismi internazionali,
meta-statuali, al fine di farli finalmente funzionare (a partire dalla riforma
della stessa Unione), i conflitti in atto sono destinati a continuare fino a un
inevitabile punto di rottura. Potenti interessi economici tengono ancora
insieme i pezzi del nostro globo, ma è pura illusione pensare che essi bastino
a mantenere sine die l’attuale, fragilissimo equilibrio geo-politico. Piaccia o
no ad arcaico-liberisti, è proprio la Politica ad aver ripreso il sopravvento,
ad essersi rimessa tragicamente in marcia. E il solo soggetto in grado di fare
oggi davvero una politica di pace sarebbe l’Europa. L’Europa che non c’è.
Perdente o perduta?Come sembrano aver smarrito il significato
storico della propria posizione geo-politica, così i Paesi europei sembrano
aver dimenticato l’originalità, l’autonomia delle politiche sociali che li
hanno caratterizzati per tutto il secondo dopoguerra almeno fino al nuovo
Millennio. Erano politiche ridistributive, anche audaci, fondate sulla
coscienza che democrazia e benessere, Stato di diritto e uguaglianza di
opportunità formano un tutt’uno. Oggi i vincoli di un tempo sono divenuti
obiettivi da perseguire. Il mantra ovunque ripetuto dei necessari “sacrifici”,
come se l’imposizione di un’economia di quasi-guerra fosse l’effetto di un
cataclisma naturale, imprevedibile e irrimediabile, copre l’assenza di
politiche fiscali davvero progressive e lo sgretolamento dell’edificio, frutto
di tante lotte, dello Stato sociale.I processi in atto tendono per
loro natura a moltiplicare nell’Occidente disuguaglianze di ogni genere,
alterano i rapporti di potenza economici e politici. Nulla di neutrale. E se ad
essi si risponde con l’idea che politiche di “austerità” cadano equamente su
tutti come la pioggia che ci manda il buon Dio, non sarà soltanto il nostro
Welfare ad andare a pezzi, ma la credibilità stessa dell’ordine democratico.
Più si indebolisce lo status economico e sociale del lavoro salariato e
dipendente, più drammatica si fa la spaccatura tra precarizzazione delle masse
dei giovani, dei pensionati e dei ceti medi e concentrazione della ricchezza in
ristrette élite di potere, più la democrazia per sopravvivere dovrà ricorrere a
meccanismi di controllo sociale, concentrare i processi decisionali, ridurre
ruolo e peso della partecipazione alla vita politica, “demonizzare” i conflitti
che di questa sono l’anima stessa. Meno la democrazia somiglierà alla
democrazia - fino a non restarne che la memoria.
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