Tratto da “Vecchi amici si diventa a tutte le età” di Claudia de Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 30 di aprile dell’anno 2016:
Tratto da “Vecchi amici si diventa a tutte le età” di Claudia de Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 30 di aprile dell’anno 2016:
Tratto da “25 aprile. Resistenza: storia di una parola” di Giacomo Papi, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di aprile 2021:
Tratto da “Tutte le altre parole che servono dopo aver detto ti amo" di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 22 di aprile dell’anno 2017: Se la razionalità della tecnologia prenderà il sopravvento, rischiamo di rendere superflua ogni sfumatura espressiva. Conoscere la natura è molto più facile che conoscere se stessi. Perché la natura è fuori di noi e possiamo esaminarla come un oggetto. Noi invece non possiamo guardarci dall'esterno come si guardano gli oggetti se non negando la nostra soggettività. La distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito introdotta da Wilhelm Dilthey (1833-1911) segna, oltre che la differenza tra i due tipi di sapere, anche il nostro limite in ordine alla conoscenza di sé.
A lato. "Movimento di danza", penna ed acquerello di Anna Fiore (2021).
Ha scritto Marcello Benfante in “Cattivi pensieri sulla scuola di un insegnante meridionale” – riportato nel capitolo VII del mio volume “I professori” (AndreaOppureEditore, 2006) – che “dopo cicliche delusioni, amarezze, disillusioni, riscopro, altrettanto ciclicamente, che il mio lavoro mi piace e che non vorrei farne altri. Mi piace rispondere alle domande degli studenti (detesto invece farle). Mi piace ammettere di non saper rispondere (ho imparato da poco a non vergognarmene).
Ha scritto il “misterioso” Filelfo alla pagina 74 della Sua straordinaria “favola ecologica” “L’assemblea degli animali” (Einaudi, 2020, pagg.184, euro 15): “Nessun metodo, nessun esercizio umano possono eguagliare la naturalezza di un cane nello stare sempre sul chi vive. Che cos’è un corso di storia o filosofia o poesia, per quanto ben scelto, o cosa sono la migliore frequentazione o la più ammirevole pratica di vita, di fronte alla disciplina di guardare sempre ciò che deve essere veduto, fiutare ciò che deve essere annusato, fare ciò che deve essere fatto?
Meritoria assai l’opera intrapresa dalla scrittrice siciliana Elvira Seminara che vuole “costruire” le immagini e/o le memorie – per gli umani del futuro – di quelle che sono state le “sfere emotive” degli umani al tempo della “pandemia”. In questa Sua opera di minuziosa ricerca e ri-costruzione - a futura memoria - di quelle “sfere” ha già percorso la “sfera” della “invidia” – riportata in questo blog nel post del 29 di marzo – e la “sfera” della “nostalgia” – riportata nel post dell’11 di aprile -.
“Parole della pandemia”. “I” come “Isolamento”, di Elvira Seminara (nata a Catania), pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’11 di aprile 2021:
L’amica carissima Agnese A. ha lasciato questo Suo commento al post di ieri – «La mancanza di prospettive future ha inaugurato l'epoca nichilista» -: “Carissimo Aldo, tra le mie modeste, personali riflessioni, che hanno seguito l'appassionante lettura di questo importantissimo post, una in particolare vorrei sottolinearne e riguarda la necessità di sensibilizzare i giovani, e non solo loro, ad abbandonare l'individualismo che è la sorgente di tutti i mali piccoli e grandi della vita e della società... (…)”.
Ha scritto il filosofo e scrittore Gilles Lipovetsky – “L'impero dell'effimero” (1989), in Italia edito da Garzanti; “Le bonheur paradoxal - Essai sur la société d'hyperconsommation” (2006) edito da Gallimard -: Siamo alla ricerca di una felicità paradossale. Comprare è un imperativo, un impeto, una sete: siamo tutti affetti da iperconsumismo. Compriamo oggetti piccoli o ingombranti, costosi e superflui, compriamo quello che abbiamo già, compriamo quello che possediamo. Durante un viaggio recente in Brasile, ho visitato alcune favelas e ho visto bambini, genitori e ragazzi che non si preoccupano di non avere da mangiare, ma di non sembrare poveri: lottano per avere un logo da sfoggiare, un paio di scarpe firmate, un telefonino, un'antenna parabolica. Con un marchio addosso si sentono più forti, dimenticano le umiliazioni quotidiane. C'è una nuova società dell'effimero e non c'è un modello teorico che la riguardi. Una volta c'era il benessere anni '50, '60, '70. Adesso c'è un mondo che sembra un frappé, un grande pasticcio, un eccesso di oggetti, logo, brand. La felicità è il fondamento della società dei consumi: è questo l'obiettivo, ma chi è felice oggi a trent'anni? I ragazzi cercano tutti esperienza, sensazioni, emozioni e il consumo è lì, pronto, a portata di mano, è il mezzo per portare piccole novità, frammenti di eccitazione, scosse infinitesimali che compensano i vuoti. È la conseguenza di un mondo che ha democratizzato l'ideale di felicità, una società individualista, dove io, lei, tutti ci sentiamo soli. E allora eccola, la terapia: comprare, continuare a comprare. Trent'anni fa era tutto nuovo: acquistare la macchina era eccitante, acquistare una macchina fotografica era straordinario. E tutti eravamo più passivi: un solo canale televisivo, forse due, tutti insieme al bar.
Ha scritto Michele Serra “nel bel mezzo” del Suo “…Ed esiste anche il rischio d’impresa”, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 2 di aprile 2021 che “il cuore della questione sia il meccanismo profondo del nostro modo di vivere e che abbia dunque a che fare con la perdita collettiva del concetto di limite”.
Ha scritto Paulo Coelho in “Il diavolo e la signorina Prym”: (…). …esistono due cose che impediscono a una persona di realizzare i propri sogni: pensare che essi siano impossibili, oppure – grazie a un improvviso scarto della ruota del destino – vedere che si trasformano in qualcosa di possibile quando meno ce lo si aspetta. In quel momento, affiora la paura di un cammino ignoto, di una vita piena di sfide sconosciute, della possibilità che le cose a cui siamo abituati scompaiano per sempre. Le persone vogliono cambiare tutto e, nello stesso tempo, desiderano che ogni cosa continui a essere come prima. (…).
Tratto da “Cara sinistra che fine han fatto le salamelle?” di Filippo Ceccarelli, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di aprile dell’anno 2019: