Nel mondo digitale in cui siamo bombardati
di notizie e in cui il rischio di “sovraccarico” è reale preferiamo affidarci a
messaggi che fanno appello alle nostre emozioni piuttosto che quelle che
veicolano un contenuto complesso. È così che invece di analizzare razionalmente
il contenuto di un messaggio leggiamo solo le notizie che confermano ciò in cui
crediamo. Ecco perché molti politici populisti non provano a trasmettere
informazioni razionali, ma favole caricate emotivamente, al fine di lasciare
un’impressione duratura ai destinatari. (…). Non è ancora chiaro come una fake
news possa influenzare il risultato elettorale, è tuttavia evidente che la
comunicazione politica veicolata attraverso messaggi emozionali è efficace.
L’unico modo per evitare che influenzi la nostra vita è allora reimparare a
dare un peso a ciò che leggiamo, nella consapevolezza che un’educazione allo
spirito critico è l’unica soluzione possibile. Tratto da «Capire la “Bestia” e poi evitarla» di
Thierry Vedel, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di gennaio 2020.
Tratto da “La
morte dei fatti: stimare il latitante non è obbligatorio” di Barbara
Spinelli, pubblicato su «il Fatto Quotidiano» del 24 di gennaio 2020: (…). Craxi
ridefinito esule certificherebbe la natura liberticida di uno Stato da cui il
leader socialista non poteva che emigrare, se voleva salvare la democrazia
costituzionale. Attesterebbe la presenza di una giustizia forcaiola,
l’invalidità generalizzata delle sue sentenze. Anche qualora il potere
giudiziario avesse commesso errori negli anni 90, e certamente ne commise, la
sua legittimità verrebbe devastata. A vent’anni dalla morte di Craxi ancora si
discute del suo status – latitante o rifugiato? – e la piena riabilitazione è
invocata dai molti che in questo lasso di tempo hanno imitato i suoi modi di
far politica: solitari, spesso brutali, martirologici quando si profilavano
indagini giudiziarie. Primum Vivere era il suo motto e voleva dire: la politica
è un’avventura di visibilità che deve sopravvivere a ogni costo, e la sua molla
è un vittimismo costante, clanico, pregiudizialmente ostile ai giudici. I fatti
evaporano, diventando opinioni e in quanto tali discutibili. Regna non
l’autonomia della politica, ma l’autonomia delle tavole rotonde tra
giornalisti. Evapora anche la sentenza della Corte europea dei diritti umani,
che nel 2002 ritenne il comportamento dei giudici conforme al diritto italiano.
(…). Quel che crea turbamento, nella beatificazione di Craxi, è qualcosa di più
profondo: è l’uso perverso che viene fatto, per fini politici contingenti, di
personalità che vengono fatte parlare post mortem, e fagocitate
cannibalescamente tramite riscrittura di particolari segmenti della loro
storia. Fagocitate indistintamente da familiari e non familiari, in una
confusione di ruoli che trasforma la giustizia in ordalia clanica tra
consanguinei. È un vizio che da noi assume proporzioni grottesche: del defunto
si fa subito un santino o parente stretto. (…). …Craxi: di lui si ricorda oggi
Sigonella, ma si dimentica che se fuggì fu perché sentiva venire condanne
definitive, alla fine della legislatura quando la sua immunità sarebbe venuta
meno. Non scandalizza che venga canonizzato da chi sempre lo sostenne: è segno
di coerenza. Non coerenti sono i politici e giornalisti che ieri s’indignarono
per la latitanza e oggi ammutoliscono imbarazzati. È come se fosse ormai un
dato acquisito che in Italia esiste una dittatura dei giudici, che Craxi non
poteva venire in Italia per curarsi e che non è cosa giusta difendersi nei
processi e scontare le pene. Altre spiegazioni sono difficili da trovare. Strano
e opaco è il rapporto dell’Italia con il proprio passato. Non vi è stato, da
noi, il lavoro sulla memoria storica avvenuto in Germania. Basti ricordare
l’abbraccio di Andreotti al maresciallo Graziani, responsabile delle stragi in
Etiopia e reduce di Salò, nel maggio del 1953. In Italia molto cattolicamente
non si espia, ma si assolve con qualche Ave Maria e processione. E a forza di
assolvere si crea appunto “memoria condivisa”: immenso malinteso di chi vuol
abolire i conflitti ineliminabili per meglio attizzare conflitti evitabili. In
un articolo sul sito Jacobin Italia, Luca Casarotti rievoca una frase
illuminante contenuta in una sentenza pronunciata nel 2004 dalla Cassazione, a
proposito del reato di diffamazione: “Non è obbligatorio stimare qualcuno”.
Invece sembra essere obbligatorio stimare o riabilitare, se si vuol far parte
della gente invitata in Tv per condividere memorie. (…). L’unica cosa che non
torna, in questa bulimica fagocitazione dei corpi, è l’ammirazione che continua
a circondare Enrico Berlinguer. Non si può beatificare al tempo stesso chi fu
condannato per corruzione, e chi negli anni 80 auspicava una società che non
fosse un “immondezzaio”.
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