“Le vite incomprese” è il titolo di una corrispondenza che Umberto
Galimberti ha pubblicato il primo di agosto dell’anno 2009 sul supplemento “D”
del quotidiano “la Repubblica”. Di seguito la trascrivo in parte. Penso che
possa essere come un amarissimo epilogo, laddove i fatti tragici dei giovani
che spengono le loro vite ci riportano alla insostenibilità dell’essere, alla
crudezza dei nostri giorni. Crudezza del vivere, oggigiorno a maggior ragione,
nella falsa leggenda della spensieratezza collettiva distribuita a piene mani
da un corpo sociale convenientemente mitridatizzato dall’effimero dilagante.
Nelle torride serate di questo agosto ultimo, nel luogo eletto a posto di
ristoro dalle fatiche di un anno da centinaia e centinaia di villeggianti
abbronzati, mi è capitato di osservare i giovanissimi ed i giovani trascinarsi
per le stradine, o nei luoghi di ritrovo, come sperduti nottambuli, occupare,
incuranti degli altri, i vicoli più oscuri del luogo, ove consumare le loro ore
di tedio con il soccorso ed il falso conforto di alcolici e/o quant’altro
potesse dare loro sollievo ed evasione. Al mattino, in quei vicoli, nelle
pubbliche aiuole, negli angoli più nascosti, negli spazi anche più in vista, la
rimozione dei “resti” di quei bivaccamenti veniva ad essere un impegno notevole
per gli operatori preposti. Assicuro di non avere scorto in quei giovani volti
la levità che dovrebbe essere propria della loro giovane età; al contrario, scorgevo
un indurimento dei loro volti come ad esprimere una scontentezza ed una
insoddisfazione profonda del loro vivere. E mi è capitato d’osservare come, in
quel tale luogo di villeggiatura, quei giovani sperduti nottambuli disertassero
le ore del mattino, le migliori per via di una calura ancora non inclemente,
lasciando il campo alle generazioni dei pargoli e dei più attempati, per
riapparire come d’incanto nelle tarde ore precedenti il pranzo, spostandosi con
una indolenza infinita come di persone a corto di energie, non certo fisiche,
ma interiori. Di vite spente, come per l’appunto di vite incomprese, di vite
però in linea con i dettami del tempo nell’abbigliarsi e nell’ostentare i nuovi
simboli irrinunciabili di appartenenza al gruppo, dalle lenti da sole
disinvoltamente posizionate sulla calotta cranica anche nelle ore più buie, all’immancabile
telefonino incessantemente esibito e smanettato compulsivamente a tutte le ore
ed in tutti i luoghi. Un “disturbo” profondo del vivere, ignorato o
collettivamente trascurato nell’incomprensibilità del vivere di questi tempi.
La corrispondenza dell’illustre Autore ha il pregio di una citazione dottissima
di uno scienziato e curatore della psiche a nome Freud.
“Mi guardo intorno e tutto ciò che riesco a vedere sono una scuola e un mondo che possono andare avanti anche senza di me. Sono venuta al mondo per caso. La mia morte, ne sono sicura, non tarderà. E non potete far finta di non vedere”. (Nota lasciata da una quindicenne suicida). (…). Invito i genitori che si accorgono di avere dei figli solo quando questi deragliano dalle loro attese, e i professori che pensano di aver davanti una classe e non tante facce diverse, da guardare davvero a una a una, senza nascondersi dietro la scusa che non si è psicologi, a riflettere su questa pagina che Freud scrisse nel 1909: - La scuola deve fare qualcosa di più che evitare di spingere i giovani al suicidio. Essa deve creare in loro il piacere di vivere, e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo a allentare i legami con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò, e che per molti aspetti rimanga al di sotto del proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e di suscitare l'interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo. Non è questa l'occasione di fare una critica della scuola nella sua attuale struttura. Mi sia tuttavia consentito di mettere l'accento su un singolo punto. La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita -. Non si travisi questa pagina di Freud come un invito alla nostra scuola a rinunciare alla disciplina e all'istruzione per privilegiare la cura psicologica dei nostri ragazzi. Ma il modo di disciplinare e istruire richiede quell'attenzione alle differenze individuali che già i medici, per esempio, adottano nell'applicare i loro protocolli, modificandoli a seconda della particolare condizione patologica del paziente. E se questo vale per i corpi, perché non deve valere per i percorsi delle esistenze giovanili, oggi così precarie, incerte, confuse, prive di riferimenti, al punto da prevedere anche la morte autoinflitta, in quella primavera della vita che dovrebbe far sbocciare fiori, invece di vederli reclinare nella demotivazione e nella depressione, fino a quel punto irreversibile dove la morte sembra preferibile a una vita incompresa, cui nessuno ha prestato davvero attenzione.
“Mi guardo intorno e tutto ciò che riesco a vedere sono una scuola e un mondo che possono andare avanti anche senza di me. Sono venuta al mondo per caso. La mia morte, ne sono sicura, non tarderà. E non potete far finta di non vedere”. (Nota lasciata da una quindicenne suicida). (…). Invito i genitori che si accorgono di avere dei figli solo quando questi deragliano dalle loro attese, e i professori che pensano di aver davanti una classe e non tante facce diverse, da guardare davvero a una a una, senza nascondersi dietro la scusa che non si è psicologi, a riflettere su questa pagina che Freud scrisse nel 1909: - La scuola deve fare qualcosa di più che evitare di spingere i giovani al suicidio. Essa deve creare in loro il piacere di vivere, e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo a allentare i legami con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò, e che per molti aspetti rimanga al di sotto del proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e di suscitare l'interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo. Non è questa l'occasione di fare una critica della scuola nella sua attuale struttura. Mi sia tuttavia consentito di mettere l'accento su un singolo punto. La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita -. Non si travisi questa pagina di Freud come un invito alla nostra scuola a rinunciare alla disciplina e all'istruzione per privilegiare la cura psicologica dei nostri ragazzi. Ma il modo di disciplinare e istruire richiede quell'attenzione alle differenze individuali che già i medici, per esempio, adottano nell'applicare i loro protocolli, modificandoli a seconda della particolare condizione patologica del paziente. E se questo vale per i corpi, perché non deve valere per i percorsi delle esistenze giovanili, oggi così precarie, incerte, confuse, prive di riferimenti, al punto da prevedere anche la morte autoinflitta, in quella primavera della vita che dovrebbe far sbocciare fiori, invece di vederli reclinare nella demotivazione e nella depressione, fino a quel punto irreversibile dove la morte sembra preferibile a una vita incompresa, cui nessuno ha prestato davvero attenzione.
Carissimo Aldo, è molto triste prendere coscienza del fatto che oggi,purtroppo, sono in aumento i segni di un malessere emozionale, soprattutto tra i giovani, nel cui comportamento si nota una crescita della violenza e una grave carenza di autocontrollo. Tutto questo suggerisce la necessità di insegnare alle nuove generazioni l'alfabeto emozionale, le capacità fondamentali del cuore che sono importanti come quelle intellettuali. "Mente e cuore hanno bisogno l'una dell'altro". Se presteremo maggiore attenzione all'intelligenza emotiva, potremo sperare in un futuro più sereno. Aristotele sosteneva nell'"Etica Nicomachea" che il fine a cui mira l'agire dell'uomo è la felicità, la quale non risiede nei piaceri sensibili o nelle ricchezze, ma nell'esercizio delle virtù, quelle che riguardano il rapporto dell'intelligenza con la sensibilità e gli affetti. Daniel Goleman, a distanza di tanti secoli, rivaluta il ruolo dell'emozione filtrata dalla mente e dalla consapevolezza, divenuta attività propria dello spirito. Per Goleman il concetto di intelligenza emotiva si riferisce alla "capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali". Mi piace concludere con un pensiero del Professore Galimberti:"Ai professori... un invito a riflettere su quanta educazione emotiva hanno distribuito, perché, a se stessi almeno, non possono nascondere che l'intelligenza e l'apprendimento non funzionano se non li alimenta il cuore"(L'ospite inquietante pag.48).Nel ringraziarti per questo post, che tocca un tasto tanto doloroso, ma immensamente importante,ti auguro buona continuazione. Agnese A.
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