Tratto da “Libertà
e cultura vanno di pari passo” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 21 di gennaio dell’anno
2017: La punibilità dei reati andrebbe misurata sul grado di formazione degli
individui. Dovrebbero ricordarselo anche educatori e insegnanti, recuperando la
ragione vera della propria professione. In occasione di un incontro a Cagliari
sul tema della libertà era parso opportuno abbandonare l'uso di questa parola,
molto affascinante quando viene impiegata nel suo isolamento, ma difficile da
reperire nei vari contesti storici e biografici in cui andrebbe opportunamente
inserita. In quell'occasione conobbi don Ettore Cannavera, che un giorno decise
di utilizzare un significativo appezzamento di terreno collinare, che suo padre
gli aveva lasciato in eredità, per costruire un luogo, ricco di attività
lavorative, produttive e ricreative, dove fosse possibile offrire un'ultima
chance educativa ad adolescenti che avessero commesso reati e perciò puniti con
la reclusione. Fu in quell'occasione che nacque un discorso sulla libertà, a
cui io personalmente non credo, ma la cosa non è importante, perché decisivo è
il fatto che esiste comunque l'idea di libertà. E questa idea ha fatto la
storia, perché da essa è nata l'idea di una responsabilità individuale e di
conseguenza anche di una punibilità per chi non si dovesse attenere alle regole
condivise. Va da sé che lo spazio della libertà è direttamente proporzionale al
livello culturale di cui dispone ciascun individuo, a partire da dove è nato e
cresciuto, dalla famiglia che ha avuto, dalle scuole che ha frequentato, dalle
opportunità che, a partire da queste premesse, si sono per lui dischiuse.
Ricordo il caso di una sentenza molto lieve emessa da un giudice tedesco a
proposito di un sardo, il quale, dopo avere abbandonato la sua vita da pastore
nella sua terra d'origine, si era trasferito in Germania a fare l'operaio in
un'industria automobilistica, dove aveva commesso il reato per cui veniva
giudicato. Il giudice tedesco disse che non era possibile applicare
meccanicamente la pena prevista per quel reato senza tener conto del grado di
libertà dell'imputato, che era da considerarsi proporzionale alle sue
condizioni di provenienza. Si parlava di un uomo cresciuto nella solitudine dei
monti, con uno scarso livello culturale, che da un giorno all'altro era venuto
a trovarsi in terra straniera, dai costumi radicalmente diversi da quelli in
cui era cresciuto. La sentenza fece discutere, e venne discussa anche dai sardi
che, giustamente per come era stata formulata, si sentirono offesi. In realtà
questa sentenza non faceva che applicare il principio aristotelico per il
quale: «Dal momento che la legge è una norma universale, quando la si applica
ai casi particolari va corretta con l'equità, che in molti casi è migliore
della giustizia, perché corregge la legge là dove essa fa un'omissione a causa
della sua universalità» (Etica a Nicomaco, 1137b). Se riusciamo a cogliere il
nesso tra libertà e il grado di formazione, allora anche la punibilità deve
misurarsi sul grado di formazione, che scopriamo essere alla base della
convivenza civile e delle regole che la governano.
È possibile che di questo nesso, oltre che la giustizia, si renda conto anche la scuola? E una buona volta capisca l'importanza dell'educazione la quale, a differenza dell'istruzione che si limita alla trasmissione di competenze, affina la percezione della differenza tra il bene e il male, amplia lo spazio della liberta intesa come possibilità di scelta, induce la responsabilità come capacità di rispondere delle proprie azioni, in quanto consapevolmente compiute. Su questa strada la giustizia ha già iniziato a incamminarsi da tempo, mentre la scuola ha abbandonato questa strada che per prima aveva aperto, per ridursi a mera valutazione di prove oggettive, dove la soggettività dello studente, non essendo oggettivamente valutabile, è del tutto trascurata, senza che molti insegnanti abbiano la più pallida consapevolezza di avere smarrito così la ragione vera della loro professione.
È possibile che di questo nesso, oltre che la giustizia, si renda conto anche la scuola? E una buona volta capisca l'importanza dell'educazione la quale, a differenza dell'istruzione che si limita alla trasmissione di competenze, affina la percezione della differenza tra il bene e il male, amplia lo spazio della liberta intesa come possibilità di scelta, induce la responsabilità come capacità di rispondere delle proprie azioni, in quanto consapevolmente compiute. Su questa strada la giustizia ha già iniziato a incamminarsi da tempo, mentre la scuola ha abbandonato questa strada che per prima aveva aperto, per ridursi a mera valutazione di prove oggettive, dove la soggettività dello studente, non essendo oggettivamente valutabile, è del tutto trascurata, senza che molti insegnanti abbiano la più pallida consapevolezza di avere smarrito così la ragione vera della loro professione.
Carissimo Aldo, ho apprezzato molto questo post che considero di straordinaria importanza per le interessantissime considerazioni che racchiude. Equità è sinonimo di giustizia ideale, poiché, se una norma è applicata rigidamente nel caso concreto, spesso non riesce più a corrispondere alla concezione ideale di giustizia. L'esercizio della giustizia, come l'educazione e la valutazione degli alunni da parte dei docenti, sono compiti molto delicati e difficili, perché le conseguenze di errori in questi due campi potrebbero anche essere gravi e irreperibili. Bisogna tutelare chi si trova in condizioni di inferiorità rispetto agli altri, per ragioni sociali, economiche, culturali. È ingiusto far parti uguali fra disuguali. Secondo me, i giudici, ma anche i docenti, devono possedere preparazione, maturità, equilibrio, ma anche e soprattutto una particolare sensibilità che consenta loro di immedesimarsi nella situazione reale di coloro che devono essere giudicati o valutati. Non è certamente un compito facile! Grazie e buona continuazione. Agnese A.
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