"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 15 gennaio 2020

Lalinguabatte. 92 «Gadamer: “stare nel nostro pregiudizio nel modo giusto”».


Del “pre-giudizio”. Perché non parlarne? Del nostro “pre-giudizio”, così come ne ha scritto nel Suo pregevole pezzo il professor Umberto Galimberti. Titolo del pezzo: “Elogio del relativismo”, pubblicato il 20 di febbraio dell’anno 2010 sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”. Lo trascrivo di seguito. A me, meno dotto assai, dotato di poca scienza, viene di parlarne partendo da una banalissima esperienza personale. Si era assisi numerosi ad un desco molto ben imbandito.
I commensali, persone “soi-disant” istruite e compunte, tessevano lodi alla padrona di casa che con maestria ci aveva accolto con una straordinaria tavolata portandovi leccornie di pregevole fattura. Tra persone ben educate ci si manteneva, nel conversare, sulle generali. Bandita la politica, argomento che mal si concilia con la buona educazione e la creanza, a seguito di decenni e decenni di barbarie televisive, la gradevole conversazione durante il desinare aveva dissertato sui fatti personali o professionali dei commensali. Tenendo ciascuno a freno, e di questo ne sono più che convinto, la tentazione di introdurre spiacevoli argomenti  che turbassero, per l’appunto, la degustazione e potessero arrecare uno sgarbo alla cortese padrona di casa. Ci si avviava così tranquillamente alla fine del desinare ed alla inevitabile fase post-prandiale allorquando il conversare scivolò, inopinatamente ed inopportunamente, forse a causa della già iniziata ed avanzata digestione, che sottrae alle parti nobili degli umani il giusto afflusso di sangue da destinare alle viscere e connessi, il conversare dicevo scivolò sui migranti di oggi e sulle problematiche ad essi connesse. Il nuovo tema di conversazione avrebbe potuto mantenere ancora la rilassatezza e la pacatezza che aveva contraddistinto sinora il piacevole nostro conversare; niente di tutto ciò. I commensali, come scossi da un preciso segnale di appartenenza, un segnale tribale quasi, strinsero una inaspettata alleanza per sostenere, all’unisono, graniticamente, l’impraticabilità e l’inopportunità della accoglienza delle genti migranti definite, a loro modo di vedere, e tutte indistintamente, portatrici di “pre-giudizi”, disseminatrici di mortali contagi, propugnatrici di sovversioni ed instabilità sociali; tutti insomma, uomini e donne, bambine e bambini, vecchi e giovani, così diversi da rispedire alle loro terre natie. Neppure sfiorava loro l’idea, da prendere in seria considerazione, che tutti i migranti, buoni e meno buoni, luciferini o angelici, intenti quindi tutti a delinquere indistintamente secondo la loro vulgata, condividessero, con i miei commensali, almeno la condizione di essere degli “umani”. E sì che, nel corso della pantagruelica mangiata, si erano tutti dichiarati di appartenere e di praticare con zelo l’insegnamento della chiesa di Roma. Cattolici sì, cristiani non del tutto. O per niente. Ché se solo avessero appreso un poco della predicazione dell’uomo di Nazareth, con ben altre parole ed altri convincimenti avrebbero concluso il dolce conversare di quella indimenticabile giornata! Lascio alla dotta parola del professor Galimberti di discettare sull’importanza e sull’inevitabilità del superamento del “pre-giudizio” nel nostro misero mondo, in un mondo che va sempre più restringendosi fisicamente ed all’interno del quale le genti dovranno necessariamente convivere, fianco a fianco, se non altro per impedirne l’inevitabile implosione od esplosione demografica ed ambientale. Dimenticavo: tanti di quei commensali si erano dichiarati d’essere educatori. Ahimè! Ha scritto, da par Suo, Galimberti: Se non possiamo uscire dai nostri pregiudizi, stiamoci almeno nel modo giusto, come dice Gadamer. Sottesa (…) è la giusta persuasione secondo la quale ogni volta che descriviamo il mondo in realtà descriviamo solo la nostra visione del mondo, quindi la nostra storia, che dipende interamente dalla cultura in cui siamo nati, dall'educazione che abbiamo ricevuto, dagli insegnamenti che abbiamo assorbito, dalle esperienze che abbiamo fatto, e da tante altre cose che, opportunamente miscelate, costituiscono il nostro pre-giudizio, che è ad un tempo la condizione e insieme il limite di una più corretta visione del mondo . Infatti, se non prendiamo le mosse dal nostro pre-giudizio, in cui si radica la nostra identità e in cui si descrive la nostra storia, non avremmo alcuno strumento per la comprensione del mondo, ma al tempo stesso, se rimaniamo chiusi nel nostro pre-giudizio senza metterlo a confronto col pre-giudizio degli altri, poniamo le premesse per l'incomprensione del mondo altro dal nostro, e quindi i presupposti dell'intolleranza, quando non dell'odio e della guerra. Dal pre-giudizio non possiamo uscire, così come non possiamo uscire dalla nostra identità e dalla nostra storia, e allora l'unica soluzione, come dice Gadamer, è quella “di stare nel nostro pregiudizio nel modo giusto”. E quale è il modo giusto? Quello che rimane perennemente aperto al pre-giudizio degli altri, onde poter procedere a una continua correzione del proprio. Quindi relativismo come forma di educazione permanente che pone le premesse per la tolleranza, la quale non è sopportazione degli altri, ma quell'atteggiamento che suppone nel pre-giudizio dell'altro un gradiente di verità superiore al nostro. Solo assumendo questa disposizione mentale potremo accedere al multiculturalismo e alla multietnicità, a cui non possiamo sottrarci perché è il futuro della nostra storia ormai globalizzata. (…).

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