Tratto da “Cari
compagni il capitalismo è fatto di byte” di Maurizio Ferraris, pubblicato
sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di gennaio dell’anno 2019: (…). Nel
mondo sociale sta (…) sorgendo un nuovo macro-oggetto, quasi un nuovo mondo,
che potenzialmente conterrà tutti gli altri. Si tratta del capitale
documediale, un nuovo capitale più ricco di quello finanziario, e che avrà un
impatto senza precedenti sulla creazione del valore, sui rapporti sociali e
sull’organizzazione della vita delle persone. Sebbene ancora oggi più di un
essere umano su due non possieda un cellulare, è significativo osservare che il
numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la
popolazione mondiale.
Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2.5 quintilioni (2.5 x 1030) di byte. Questi documenti possono essere deboli, ossia registrazioni di fatti (il tale si trovava nel luogo tale all’ora tale: lo dice il suo telefonino), e forti, ossia registrazioni di atti: Tizio ha postato un commento su un social network, Caio ha comprato un biglietto, Sempronio ha navigato servendosi di un motore di ricerca. Documenti deboli e documenti forti costituiscono il vero capitale del XXI secolo, molto più potente del capitale industriale, che si limita a produrre merci, ora in gran parte fabbricate da macchine, o del capitale finanziario, che ci dà conto solo di ciò che il denaro ci può dare, ossia non molto e comunque non tutto. Nel caso del capitale documediale si ha accesso a informazioni ampie, sicure, e in molti casi capaci di spingersi sino al dettaglio dell’individuo, che non riguardano solo la ricchezza (che ci dice l’essenza delle cose con la stessa approssimazione con cui il prezzo ci informa della qualità del prodotto) ma i comportamenti, gli interessi, le credenze e le speranze degli esseri umani. Non stupisce allora che nel capitale documediale si assista a una transizione carica di conseguenze dalle merci ai documenti. Questa trasformazione va in due direzioni. Da una parte, le merci vengono prodotte come documenti, ossia con modalità che, come nella stampa 3D, fanno vacillare la distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale giacché l’interfaccia di cui si serve il lavoratore è la macchina universale, il computer. Ora, vale la pena di osservare che una delle caratteristiche infallibili della società comunista è per Marx il fatto che non ci sia più differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. E se era molto facile sostenere che chi lavorava a una catena di montaggio stava svolgendo un lavoro manuale, è molto più difficile sostenere che quello di chi produce con una stampante 3D è un lavoro manuale, a meno che non si consideri manuale anche il lavoro che sto facendo in questo preciso momento, ossia picchiare sui tasti. Vien meno dunque (e verrà meno sempre più) una delle caratteristiche distinzioni del mondo borghese, quella tra colletti blu e colletti bianchi. Ma questa è una circostanza sociologicamente non troppo rilevante, visto che il numero di chi lavora con stampanti 3D sarà comunque irrisorio rispetto ai lavoratori alla catena di montaggio. Molto più interessante è invece un altro aspetto, ossia la circostanza per cui non solo le merci vengono prodotte con gli strumenti che tradizionalmente si adoperavano per produrre i documenti, ma – questo il punto fondamentale – le merci più pregiate diventano i documenti, che sono ben più importanti di quella merce tradizionalmente pregiatissima che è il denaro. Come risultato: le merci tradizionali spesso sono offerte gratis o a prezzi bassissimi, purché in cambio chi compra (svolgendo in effetti il lavoro fondamentale, quello del consumo, che non può essere sostituito da agenti meccanici) lasci i suoi dati. Dati che valgono molto più del denaro perché ci parlano non di ciò che ha ma di ciò che è, delle sue credenze, delle sue debolezze, delle sue speranze. Questa circostanza, più che una contraddizione all’interno del Capitale, che rinuncia all’accumulo di denaro per dar valore alla conoscenza delle persone, è in effetti la rivelazione sia della natura del denaro (che è essenzialmente uno strumento di informazione, nella fattispecie circa la nostra solvibilità) sia – cosa importantissima per il comunismo realizzato – la rivelazione delle merci. In che senso? Semplicemente, quello che per Marx costituiva l’arcano delle merci, il fatto che fossero un rapporto tra persone che si solidifica e nasconde in un oggetto, è ora svelato, visto che il documento è un rapporto tra persone. E oggi ogni nostro movimento, poiché ha luogo sul web, lascia tracce e produce documenti (dunque valore e ricchezza, per chi li sa usare). Perciò, non c’è più alcun arcano: oggi è chiaro come il sole che l’archivio che familiarmente chiamiamo Web vale perché contiene dei documenti che sono infinitamente più ricchi della moneta perché tengono traccia di ogni atto dell’umanità, una Biblioteca di Babele che gli algoritmi trasformano in una fonte di predizione e di conoscenza del mondo sociale. Di qui una conseguenza meritevole di riflessione. Il neoliberismo ha sbagliato, ma il suo errore non è consistito nel considerare il capitale come imprescindibile (in effetti, lo è). Ma nel pensare che il capitale sia il capitale finanziario, finalizzato al profitto, quando è molto più di questo, proprio come aveva sbagliato il marxismo a pensare che il capitale fosse produzione di merci e lavoro, quando è molto più di questo. Il capitale è la forma essenziale della cultura umana, dunque della natura umana (non esiste una natura umana fuori della cultura), perché è la condizione di possibilità della tecnica e degli oggetti sociali: senza archivio, cioè senza capitale, non saremmo liberi dalla schiavitù del denaro, ma piuttosto (come nell’immagine della disgrazia secondo Omero) saremmo «senza famiglia, senza legge, senza focolare». La rivoluzione documediale ha dunque reso potenzialmente marginale quel documento informativamente povero che è il denaro: il denaro, che rappresentava in modo incompleto l’archivio, è stato sostituito dall’archivio in quanto tale. Il capitale documediale, così, si può rappresentare nella forma di una lavagna universale, in cui siano annotati tutti gli atti sociali in forma indelebile e accessibile alla intera umanità.
Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2.5 quintilioni (2.5 x 1030) di byte. Questi documenti possono essere deboli, ossia registrazioni di fatti (il tale si trovava nel luogo tale all’ora tale: lo dice il suo telefonino), e forti, ossia registrazioni di atti: Tizio ha postato un commento su un social network, Caio ha comprato un biglietto, Sempronio ha navigato servendosi di un motore di ricerca. Documenti deboli e documenti forti costituiscono il vero capitale del XXI secolo, molto più potente del capitale industriale, che si limita a produrre merci, ora in gran parte fabbricate da macchine, o del capitale finanziario, che ci dà conto solo di ciò che il denaro ci può dare, ossia non molto e comunque non tutto. Nel caso del capitale documediale si ha accesso a informazioni ampie, sicure, e in molti casi capaci di spingersi sino al dettaglio dell’individuo, che non riguardano solo la ricchezza (che ci dice l’essenza delle cose con la stessa approssimazione con cui il prezzo ci informa della qualità del prodotto) ma i comportamenti, gli interessi, le credenze e le speranze degli esseri umani. Non stupisce allora che nel capitale documediale si assista a una transizione carica di conseguenze dalle merci ai documenti. Questa trasformazione va in due direzioni. Da una parte, le merci vengono prodotte come documenti, ossia con modalità che, come nella stampa 3D, fanno vacillare la distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale giacché l’interfaccia di cui si serve il lavoratore è la macchina universale, il computer. Ora, vale la pena di osservare che una delle caratteristiche infallibili della società comunista è per Marx il fatto che non ci sia più differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. E se era molto facile sostenere che chi lavorava a una catena di montaggio stava svolgendo un lavoro manuale, è molto più difficile sostenere che quello di chi produce con una stampante 3D è un lavoro manuale, a meno che non si consideri manuale anche il lavoro che sto facendo in questo preciso momento, ossia picchiare sui tasti. Vien meno dunque (e verrà meno sempre più) una delle caratteristiche distinzioni del mondo borghese, quella tra colletti blu e colletti bianchi. Ma questa è una circostanza sociologicamente non troppo rilevante, visto che il numero di chi lavora con stampanti 3D sarà comunque irrisorio rispetto ai lavoratori alla catena di montaggio. Molto più interessante è invece un altro aspetto, ossia la circostanza per cui non solo le merci vengono prodotte con gli strumenti che tradizionalmente si adoperavano per produrre i documenti, ma – questo il punto fondamentale – le merci più pregiate diventano i documenti, che sono ben più importanti di quella merce tradizionalmente pregiatissima che è il denaro. Come risultato: le merci tradizionali spesso sono offerte gratis o a prezzi bassissimi, purché in cambio chi compra (svolgendo in effetti il lavoro fondamentale, quello del consumo, che non può essere sostituito da agenti meccanici) lasci i suoi dati. Dati che valgono molto più del denaro perché ci parlano non di ciò che ha ma di ciò che è, delle sue credenze, delle sue debolezze, delle sue speranze. Questa circostanza, più che una contraddizione all’interno del Capitale, che rinuncia all’accumulo di denaro per dar valore alla conoscenza delle persone, è in effetti la rivelazione sia della natura del denaro (che è essenzialmente uno strumento di informazione, nella fattispecie circa la nostra solvibilità) sia – cosa importantissima per il comunismo realizzato – la rivelazione delle merci. In che senso? Semplicemente, quello che per Marx costituiva l’arcano delle merci, il fatto che fossero un rapporto tra persone che si solidifica e nasconde in un oggetto, è ora svelato, visto che il documento è un rapporto tra persone. E oggi ogni nostro movimento, poiché ha luogo sul web, lascia tracce e produce documenti (dunque valore e ricchezza, per chi li sa usare). Perciò, non c’è più alcun arcano: oggi è chiaro come il sole che l’archivio che familiarmente chiamiamo Web vale perché contiene dei documenti che sono infinitamente più ricchi della moneta perché tengono traccia di ogni atto dell’umanità, una Biblioteca di Babele che gli algoritmi trasformano in una fonte di predizione e di conoscenza del mondo sociale. Di qui una conseguenza meritevole di riflessione. Il neoliberismo ha sbagliato, ma il suo errore non è consistito nel considerare il capitale come imprescindibile (in effetti, lo è). Ma nel pensare che il capitale sia il capitale finanziario, finalizzato al profitto, quando è molto più di questo, proprio come aveva sbagliato il marxismo a pensare che il capitale fosse produzione di merci e lavoro, quando è molto più di questo. Il capitale è la forma essenziale della cultura umana, dunque della natura umana (non esiste una natura umana fuori della cultura), perché è la condizione di possibilità della tecnica e degli oggetti sociali: senza archivio, cioè senza capitale, non saremmo liberi dalla schiavitù del denaro, ma piuttosto (come nell’immagine della disgrazia secondo Omero) saremmo «senza famiglia, senza legge, senza focolare». La rivoluzione documediale ha dunque reso potenzialmente marginale quel documento informativamente povero che è il denaro: il denaro, che rappresentava in modo incompleto l’archivio, è stato sostituito dall’archivio in quanto tale. Il capitale documediale, così, si può rappresentare nella forma di una lavagna universale, in cui siano annotati tutti gli atti sociali in forma indelebile e accessibile alla intera umanità.
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