Tratto da «La
libertà è come l'ossigeno», intervista di Wlodek Goldkorn ad Adam Michnik pubblicata
sul settimanale L’Espresso del 30 di maggio 2018: (…). Quando né la Polonia né lei
eravate liberi, lei si definiva un “libero cittadino” e lo diceva perfino
quando stava in carcere. Ma allora cosa è la libertà? «La libertà è la capacità
di riflettere autonomamente su se stessi, sul mondo e sul nostro ruolo nel
mondo. Sto dicendo una cosa elementare: posso mantenere la mia libertà anche in
prigione. I libri, i saggi, i miei interventi sui giornali, scritti in galera e
pubblicati clandestinamente in Polonia, erano testi di un uomo libero. Se
invece, da detenuto, mi fossi arreso alla narrazione, alla retorica, al
linguaggio dei miei carcerieri, avrei perso la mia libertà. Il grande poeta
russo Osip Mandel’stam, quando scriveva le sue poesie ai tempi di Stalin, era
un uomo libero. Voglio aggiungere un’altra cosa: la libertà è come l’ossigeno.
Finché viviamo in condizioni normali non ci accorgiamo quanto sia
indispensabile, ce ne rendiamo conto solo quando ci viene a mancare. La vita
quotidiana di un Paese democratico non suscita entusiasmo né stupore, però
quando comincia a mancare la libertà ci sentiamo soffocare. E soprattutto,
perdiamo la parola. La perdiamo perché senza la libertà non siamo in grado di
pensare e di immaginare un futuro».
Qual è il prezzo massimo che vale la pena di
pagare per la libertà? «Per me la libertà non ha prezzo».
Sarebbe disposto a pagare con la vita per la
libertà? Lo era quando stava in prigione? «Sì».
Ne è sicuro? «Senta, se lei rinnega se
stesso, se rinuncia alla propria libertà, la sua vita perde sapore, profumo,
senso. Non credo di dire una cosa sorprendente. Ci sono state, nella storia,
tantissime persone che hanno perso la vita pur di non rinunciare alla libertà».
Ma quasi sempre è esistita pure l’opzione di
compromesso; la rinuncia a un po’ di libertà, l’accettazione di un limite, per
poter operare alla luce del sole in regimi autoritari. Pensi a certe riviste di
cultura sotto il fascismo in Italia o ai tempi del comunismo nel suo Paese, la
Polonia. E c’erano persone, dentro le istituzioni, che aiutavano gli
antifascisti in Italia o gli anticomunisti in Polonia. «Ma non hanno rinunciato
alla facoltà di libero arbitrio. Hanno scelto il compromesso e lo stare dentro
le istituzioni come una tecnica di sopravvivenza».
Sta dicendo che il compromesso non intacca
il principio della libertà? «Direi di più: il compromesso è il pane e il vino
della democrazia. E la democrazia non è altro che la libertà nel quadro delle
leggi e della Costituzione».
Siamo cresciuti con le parole d’ordine Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Sono valori compatibili tra di loro, o occorre sceglierne uno o due a discapito degli altri? «Sono valori e parole irrinunciabili. Però, la libertà significa mancanza di limitazioni, mentre l’uguaglianza, se è assoluta, comporta limitazioni delle libertà. La fratellanza infine è figlia dell’epoca dei Lumi, della Rivoluzione francese ed è una delle più belle parole del nostro vocabolario. Il problema è che difficilmente può essere tradotta in un linguaggio delle istituzioni. Ecco, io da questo punto di vista, sono seguace del filosofo liberale Isaiah Berlin: la libertà va intesa come mancanza di vincoli e non come il diritto a qualcosa. In termini tecnici, la libertà è negativa, non positiva».
Marx obietterebbe: la sua libertà è la
libertà dei borghesi. Un povero, un proletario costretto a vendere il suo
tempo, il suo ingegno, e obbligato a compiere certe azioni pur di sopravvivere,
non è libero. «Risponderei a Marx dicendo che posso sempre rifiutare di fare
certe cose che mi chiede il datore di lavoro. La questione è il prezzo che
pagherò per quel rifiuto, ma non l’atto stesso di dire no. Vede, io posso
trovare ingiusta e abominevole la condizione della classe operaia in
Inghilterra, così magistralmente descritta da Engels nell’omonimo libro, ma
questo non significa che l’operaio non sia in grado di pensare e di giudicare
il mondo da uomo libero».
Torniamo allora alla triplice parola
d’ordine: Libertà Uguaglianza Fratellanza. «Il problema è che la vita è piena
di contraddizioni. Ci sono circostanze in cui la libertà è più importante
dell’uguaglianza e tempi in cui occorre invece stare più attenti al valore
dell’uguaglianza. Ma ci sono situazioni in cui non si può dare la precedenza a
un solo di quei valori. Se vivessi in Cina sarei per la libertà ma non
rinuncerei all’uguaglianza. Poi ci sono luoghi dove regna la menzogna propagata
dal potere e dove occorre difendere la verità perché la libertà richiede una
buona dose di verità. Nel mio Paese sento dire che i polacchi sono sempre stati
un popolo innocente, una nazione che non ha mai fatto male a nessuno».
Si riferisce alle leggi che puniscono chi,
secondo il potere, denigra la nazione polacca e che dovrebbero impedire una
libera discussione sull’antisemitismo, sui difficili rapporti con gli ucraini,
sui casi di polacchi che hanno consegnato ebrei ai nazisti? «Certo. Ma intendo
l’insieme della narrazione che evita di parlare dei lati oscuri della storia.
Lo dico per dare un esempio di cosa sia una menzogna istituzionalizzata. E per
spiegare che in quei casi io difendo la verità, mettendomi a guardia della
libertà di ricerca».
La libertà ha quindi qualcosa in comune con
la verità? «La libertà che sceglie la menzogna rinnega se stessa».
Nel secolo scorso la minaccia alla libertà
erano i totalitarismi: il fascismo e il comunismo, con tutte le differenze tra
i due. E oggi? «Oggi ci sono situazioni di golpe strisciante o di movimenti che
lentamente portano verso regimi autoritari. Talvolta le strutture democratiche
vengono usate per distruggerle dall’interno; e ci sono analogie evidenti con il
secolo scorso. Ma a mio avviso la minaccia principale sta nella convinzione che
ci sia una sola verità e siccome la verità è una sola, il potere ha il diritto
di imporla a tutti. Un simile modo di pensare esclude il pluralismo, tende a
mettere fuori gioco il dissenso. Si tratta di una “democrazia cannibale”; il
partito che vince le elezioni mangia il partito che perde. La vediamo in azione
in Russia, in Ungheria, in Polonia».
Situazioni che ricordano i totalitarismi? «No.
Situazioni che ricordano la strada verso il totalitarismo».
I totalitarismi non sono quindi un fenomeno
esclusivo del Novecento ma potrebbero tornare? «È una lezione che ho imparato
da Marek Edelman (il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di
Varsavia, ndr). Edelman diceva che la storia si ripete, intendeva lo sterminio
degli ebrei e i genocidi. Citava la Bosnia, il Rwanda. All’epoca prendevo
troppo alla leggera le sue parole, ma oggi ho capito che aveva ragione lui e io
torto. Per me vale come analogia con i totalitarismi».
Lei di formazione è storico. Ha vissuto
sotto il comunismo e lo ha combattuto. Vede le differenze tra il fascismo e il
comunismo? «Sì, e numerose. Il fascismo era più sincero. Diceva: noi siamo i
migliori e gli altri devono essere eliminati o esclusi o dominati. Il comunismo
sosteneva invece: chiunque voglia combattere assieme a noi è il benvenuto e
avrà tutti i diritti. Grazie alla sua retorica inclusiva il comunismo ha avuto
una grande forza di attrazione per gli oppressi e gli umiliati. C’era il
richiamo al più buono e il più bello. Ma poi, nella pratica quotidiana il
comunismo realizzava il peggio e il più brutto».
Forse il problema è ancora più complesso.
Oggi si tende a dimenticare che Churchill, non a caso, era alleato di Stalin e
non di Hitler. E anche che in Italia, Paese che lei conosce molto bene, i
comunisti hanno partecipato alla scrittura di una Costituzione democratica. «Churchill
era un conservatore, disprezzava il comunismo e ne aveva il timore, ma era un
realista. Capiva che negli anni Trenta, il regime più minaccioso, più cattivo,
più distruttivo per il mondo era quello di Hitler e non di Stalin. Ma posso
immaginarmi un’ipotetica alleanza tra Churchill e la destra radicale non
nazista tedesca contro Stalin. E per quanto riguarda i comunisti italiani. Il
comunismo ha avuto più volti. Uno, particolare, l’ha avuto in Italia. Il
comunismo italiano negli anni Trenta si era costituito nella lotta contro il
fascismo e quindi contro un regime totalitario. Ma potrei allargare il
discorso: nel ghetto di Varsavia i comunisti combatterono assieme ai socialisti
anti-stalinisti del Bund e ai sionisti. E nessuno se ne era stupito né si era
sentito a disagio».
Vogliamo parlare del rapporto tra libertà e
responsabilità, un tema caro agli esistenzialisti, a Sartre, a Camus? «Il
concetto è semplice: posso essere responsabile solo a patto di essere libero».
E tuttavia chi è oppresso e quindi non è
libero talvolta deve decidere per esempio se darsi alla lotta, pacifica o
armata, o invece cercare di salvare il salvabile. In altre parole, anche chi
non è libero deve porsi il problema della responsabilità. «In questo momento
siamo a Varsavia, a casa mia, non lontano dal ghetto. Mi permetta quindi di
fare un esempio estremo. Parliamo di Adam Czerniaków, il capo dello Judenrat,
il consiglio ebraico nominato dai tedeschi. Czerniaków si è suicidato quando ha
saputo che i nazisti stavano per deportare verso le camere a gas l’intera popolazione.
Edelman considerava questo suicidio una fuga dalla responsabilità e ha più
volte criticato non solo quella scelta, ma tutto l’atteggiamento di quest’uomo
che cercava appunto di salvare il salvabile. Edelman aveva tutto il diritto di
esprimere le sue critiche, ma non hanno lo stesso diritto i nazionalisti
polacchi che ora tentano di parlare del “collaborazionismo” degli ebrei».
Certamente, ma lei non è un nazionalista
polacco, è un eroe della lotta per la libertà ed era amico di Edelman. Quindi
le chiedo: lei che cosa ne pensa? «Czerniaków stava cercando di salvare il
salvabile, perché nel mondo normale il compromesso spesso è necessario e
talvolta paga. Quando però capì che quella regola non valeva nel mondo dei
nazisti, si suicidò. Tutta la mia simpatia va alla scelta di Edelman, ma credo
di capire Czerniaków. E del resto lo stesso Edelman diceva che occorreva più
eroismo per accompagnare un figlio in una camera a gas che non per combattere
con le armi in pugno».
Torniamo al nostro mondo banale. Dov’è il
limite della libertà? «Il limite è la libertà dell’Altro».
C’è però anche un concetto di libertà
collettiva. La libertà di una nazione di governare se stessa,
l’autodeterminazione. Come fare perché non si trasformi nella pratica di
pulizia etnica, dell’espulsione degli altri? «Tornare ai classici. Capire che
la dimensione individuale della libertà è la più importante. E poi, comprendere
che la vittoria dei nazionalismi porta al disastro, sempre».
Diceva Dostoevskij: se non c’è Dio tutto è
lecito... «Sta parlando del nichilismo. Bene, il linguaggio di Dostoevskij si
riferiva alla libertà come assenza di Dio. La libertà laica può portare al
nichilismo, ma non per forza e non come una diretta conseguenza. Non erano
nichilisti né Camus, né Sacharov, né Orwell, né Arendt, tutti uomini e donne
laici e liberi. Mi soffermo sul nichilismo: c’erano situazioni, come quella dei
terroristi russi dell’Ottocento, che nella lotta contro lo zarismo, hanno
superato i confini del lecito: ma lo hanno fatto perché per loro la lotta per
la libertà era più importante della stessa libertà. Simile era la situazione
dei comunisti, prima che arrivassero al potere».
Dai tempi di Marx, la sinistra sostiene una
sola verità, con la pretesa che si tratti di una verità scientifica. Di
conseguenza la sinistra ha sempre avuto problemi con il linguaggio della
libertà.... «Mi aspettavo invece una domanda sul futuro della sinistra. Sono di
sinistra Erdogan, Orbán, Kaczynski, politici che usano il linguaggio delle
rivendicazioni sociali? E dov’è la classe operaia di una volta? In Europa non
esiste più. E allora la sinistra per me è un progetto culturale; un certo
atteggiamento nei confronti degli stranieri, degli immigrati. Sinistra è
femminismo. La vera questione del futuro è la lotta tra coloro che vorranno uno
Stato e una società aperti e coloro che opteranno per la chiusura. Il futuro
della sinistra è la lotta per la libertà».
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