Ha scritto Federico
Rampini in “Diventare rinoceronti senza accorgersi”, pubblicato sul
settimanale “D” dell’8 di dicembre 2018: Chi di noi ricorda la prima volta che vide
per strada uno zombie umano camminare con gli occhi incollati allo schermo
dello smartphone? Impossibile ricordarlo. Probabilmente la scena ci colpì solo
per un attimo. (…). Chi ancora si ostina a camminare guardando gli altri negli
occhi è destinato all’estinzione? Ci rendiamo conto della metamorfosi di massa
cui ci hanno sottoposti i Padroni della Rete? Esperimenti da laboratorio su
miliardi di esseri viventi. Cavie già affette da una mutazione irreversibile,
temo: il sequestro dell’attenzione. Ha scritto Umberto Galimberti in “Così, tra un like e l’altro, siamo
rimasti soli” - pubblicato sul settimanale “D” del 22 di dicembre dell’anno
2016 -: In quest'era di social network e di spudoratezza ci siamo esposti
troppo. E abbiamo cominciato a dipendere dal giudizio degli altri. È questo
il quarto flagello che si aggiunge a quelli evidenziati da Ryszard Kapuscinski
(1932-2007) nel Suo volume “Imperium”
(Feltrinelli) - «Tre sono i flagelli che minacciano il mondo. Primo, la piaga del
nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la piaga del
fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo
stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente
irrazionalità. Impossibile penetrare in un mente contagiata da uno di questi
tre mali» -? Un “flagello” non “predicato” ma non
per questo meno temibile, anzi molto più subdolo e per questo sub-liminalmente pervasivo. Sostiene
nella Sua riflessione Umberto Galimberti: (…). Venendo al tema, diciamo subito che
"essere" è più complicato che "apparire", soprattutto in
una società dei consumi come la nostra, dove la pubblicità delle merci,
necessaria per farle conoscere, ha contagiato anche gli uomini, i quali,
degradandosi al livello di merce, hanno la sensazione di esistere solo se si
mettono in mostra, compensando l'individualità mancata con la pubblicità
dell'immagine. Siamo diventati tutti "es-posti", ossia "posti
fuori da noi" per cui la nostra identità più non ci appartiene, perché è
laggiù in ciò che si vede e si dice di noi. Per effetto di questa esposizione chi
non si mette in mostra - in un mondo che è diventato una "mostra" che
non è possibile non visitare, perché comunque ci siamo dentro - chi non è
irradiato dalla luce della pubblicità, non lo riconosciamo, anzi di lui neppure
ci accorgiamo, al limite non c'è. Di qui tutto quel darsi da fare per apparire,
perché più non riconosciamo un nostro essere e, per via di questo mancato
riconoscimento, la nostra identità è affidata agli altri. Siamo infatti nelle
mani degli altri, al punto che il nostro pensare e il nostro sentire, la nostra
gioia e la nostra malinconia non dipendono più dai moti della nostra anima che
abbiamo perso e probabilmente mai conosciuto, ma dal "mi piace" o
"non mi piace" espresso dagli altri, a cui ci siamo consegnati con la
nostra immagine, che, per non aver mai conosciuto noi stessi, è l'unica cosa
che possediamo e che vive solo nelle mani degli altri. Ci siamo espropriati e
alienati nel modo più radicale, perdendo ogni traccia di noi. Pur di sentirci
al mondo, abbiamo perso il nostro mondo, quello intimo, quello per cui siamo
quello che siamo. E col nostro mondo abbiamo perso il pudore, che non è una
faccenda di vesti o sottovesti, ma la custodia della nostra interiorità, che
certe trasmissioni televisive pubblicamente, e i social network privatamente,
ci invitano a consegnare agli altri con intime confessioni, emozioni in
diretta, trivellazioni della nostra vita privata, storie d'amore che perdono il
loro segreto, in quelle forme sguaiate di "spudoratezza" che vengono
apprezzate e fatte passare come espressioni di "sincerità". Una volta
che la spudoratezza è diventata una virtù, non abbiamo più vergogna. E siccome
"vergogna" significa: "Temo la gogna, la mia pubblica
esposizione", non ci si vergogna più della colpa, ma della sua pubblicizzazione,
che il nostro pudore, ormai corrotto, avverte più disdicevole della colpa. Di
intimo c'è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà, che ciascuno cerca
di nascondere per non essere isolato dagli altri. E così abbiamo reso
inespressive tutte quelle figure dell'esistenza che avrebbero bisogno del
massimo di comunicazione, per trovare quel sollievo che deriva dal non essere
inabissati nella nostra solitudine, resa inespressiva per impossibilità di
comunicarla. Infatti non si pubblicizza il dolore, la malattia, la povertà,
perché gli altri non ne vogliono sapere e noi, che abbiamo dimenticato noi
stessi quando ci dedicavamo alla nostra sfrenata esposizione, ci troviamo senza
risorse per reggere da soli il buio della nostra notte.
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