Tratto da “Ora
in Europa il populismo sta conquistando anche i governi", intervista di
Pascal Ceaux al filosofo Jürgen Habermas pubblicata il 2 di dicembre dell’anno 2014 sul quotidiano la Repubblica:
(...). Habermas,
sembra che ovunque l'euroscetticismo stia guadagnando terreno. Siamo in
presenza di una crisi dell'Unione europea? "Sì, l'euroscetticismo guadagna
terreno in tutti gli Stati dell'Unione, in particolare in seguito alla crisi in
atto da cinque o sei anni: che è bancaria e finanziaria, ma è al tempo stesso
una crisi del debito pubblico.
Se l'eurozona si rivela fragile, è soprattutto perché a Maastricht, al momento della fondazione dell'Unione monetaria europea, i politici in carica non trovarono il coraggio di trarre le conseguenze da quel passo, e di porre le premesse perché dall'unione monetaria potesse sorgere un'unione politica. Al momento le politiche fiscali, economiche e sociali rimangono prerogative degli Stati nazionali. Ma di fatto, solo un governo economico comune a quello che è il nocciolo duro europeo, impegnato a portare avanti una politica concertata, sarebbe in grado di appianare le non ottime condizioni che incontra l'Unione monetaria europea. Allo stato attuale non si fa abbastanza per evitare almeno che i divari tra le diverse economie nazionali continuino ad aumentare".
Se l'eurozona si rivela fragile, è soprattutto perché a Maastricht, al momento della fondazione dell'Unione monetaria europea, i politici in carica non trovarono il coraggio di trarre le conseguenze da quel passo, e di porre le premesse perché dall'unione monetaria potesse sorgere un'unione politica. Al momento le politiche fiscali, economiche e sociali rimangono prerogative degli Stati nazionali. Ma di fatto, solo un governo economico comune a quello che è il nocciolo duro europeo, impegnato a portare avanti una politica concertata, sarebbe in grado di appianare le non ottime condizioni che incontra l'Unione monetaria europea. Allo stato attuale non si fa abbastanza per evitare almeno che i divari tra le diverse economie nazionali continuino ad aumentare".
Non pensa che l'impasse politica finisca per
dar ragione ai liberisti, che auspicherebbero un semplice spazio di libero
scambio commerciale? "(…). Una scelta in questo senso comporterebbe non
solo l'abbandono del progetto di una democrazia sovranazionale, ma anche la
rinuncia al modello sociale che ancora diciamo di voler difendere. Stiamo
attenti a non invertire le cause e gli effetti. È in seguito alla
liberalizzazione mondiale dei mercati finanziari che i margini di manovra dei
governi nazionali si sono ristretti sempre più, e la pressione economica è
aumentata a tal punto che gli Stati non dispongono più di livelli di copertura
sufficienti per i sistemi di sicurezza sociale. Basterebbe questo a giustificare
un'accelerazione dell'integrazione europea. Se ancora esiste una sinistra non
rassegnata, il suo impegno andrebbe in questo senso". (…).
Non le sembra che oggi il ripiegamento degli
Stati-nazione su se stessi sia all'ordine del giorno? "Certamente. Nell'Ue
stiamo assistendo a un ritorno dei nazionalismi, che non coinvolge solo le
popolazioni ma anche i rispettivi governi. Certo, il senso di declassamento, la
paura del degrado non si trasformano automaticamente in pregiudizi anti-europei;
e non si può neppure dire che questi ultimi siano necessariamente associati a
pregiudizi nei confronti di altre nazioni. Questa sindrome, che possiamo
definire populismo di destra, nasce innanzitutto da una certa interpretazione
della crisi bancaria e del debito pubblico, che anche vari partiti di governo
leggono a modo loro. Secondo quest'interpretazione, il fatto che una nazione
sia collettivamente "colpevole" o meno del proprio indebitamento si
spiegherebbe con le differenze in materia di cultura economica nazionale.
Oltretutto, è un modo per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dal
"destino di classe" - che certo non conosce frontiere - di
coloro che in questa crisi sono i vincenti e i perdenti. A riprova di questo
ripiegamento sugli interessi nazionali basta osservare il clima sconfortante di
rissa del Consiglio europeo. Tutti contro tutti, sembra che il termine
solidarietà appartenga a un altro continente. Non c'è da stupirsi che da quel
Consiglio non provenga alcun impulso per il rilancio dell'unificazione
europea".
Il ritorno a una forma di egemonia impone
alla Germania una responsabilità particolare? "A causa della sua
preponderanza economica e demografica, in questi ultimi anni di crisi la
Germania ha assunto in Europa un ruolo di leadership che in parte le è stato
imposto. Un ruolo che dovrebbe incuterle timore. Certo, questa posizione -
anche se si tende a non dirlo
- è vantaggiosa dal punto di
vista dei suoi in- teressi nazionali. Così, a poco a poco, la Germania viene a
trovarsi nuovamente di fronte al dilemma di quella "posizione
semi-egemonica" in cui già era venuta a trovarsi a partire dal 1871, e che
riuscì a superare solo dopo due guerre mondiali, e grazie all'unificazione
europea. Ma proprio la Germania ha il massimo interesse a far uscire l'Unione
europea da questa fase del suo sviluppo, in cui le decisioni possono o devono
essere prese da un potenza dominante".
I tedeschi pensano che gli altri Paesi
debbano fare gli sforzi di austerità che loro hanno compiuto, i francesi
preferirebbero una politica di rilancio dell'economia... "Il fatto che
Germania e Francia siano oggi ai ferri corti, non è di buon auspicio per il
futuro dell'Ue. In nome dei propri interessi, il governo di Berlino rifiuta di
recuperare i ritardi in materia di solidarietà, e non sa decidersi a correggere
la propria ostinata politica di risparmio, mentre gli stessi economisti
tedeschi chiedono più investimenti. Il governo francese esige a buon diritto
questa solidarietà, ma lo fa nell'intento di coordinare tra loro le politiche
nazionali in senso tecnocratico. I capi di Stato e di governo dovrebbero
superare le schermaglie e mettersi d'accordo su alcuni punti: 50 miliardi di
risparmi da un lato contro 50 miliardi di investimenti dall'altro. Ma le due
posizioni si bloccano reciprocamente. Da un lato il diniego della solidarietà,
dall'altro il rifiuto di pagare il prezzo richiesto per un cambio di politica.
E dall'una come dall'altra parte ci si aggrappa a una sovranità dallo
Stato-nazione, svuotata di ogni significato". (…).
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