Tratto da “Non
siamo la sinistra del no, no, no” di Tomaso Montanari, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 10 di dicembre dell’anno 2016: (…). Per
molti italiani di sinistra, tra cui chi scrive, le cose (…) stanno così. Abbiamo
votato sul merito della riforma, e abbiamo votato No perché essa proponeva
(sono parole di un pacato costituzionalista, tutt’altro che antirenziano, come
Ugo De Siervo) «una riduzione della democrazia». Matteo Renzi (primo firmatario
della legge di riforma) ha proposto uno scambio tra diminuzione della
rappresentanza e della partecipazione e (presunto) aumento della possibilità di
decidere: ha risposto Sì chi sentiva di poter rinunciare ad essere rappresentato
perché già sufficientemente garantito sul piano economico e sociale. Ha detto
No chi non ha altra difesa che il voto. Basterebbe questo a suggerire che il No
abbia qualcosa a che fare con l’orizzonte della Sinistra. Ma c’è una ragione
più profonda. La Brexit, la vittoria di Trump e ora quella del No in Italia
hanno indotto molti osservatori e protagonisti (tra questi Giorgio Napolitano)
ad additare i rischi del suffragio universale: la democrazia comincia ad essere
avvertita come un pericolo, perché la maggioranza può votare per sovvertire il
sistema. Perché siamo arrivati a questo? Perché la diseguaglianza interna agli
stati occidentali ha raggiunto un tale livello che la maggioranza dei cittadini
è disposta a tutto pur di cambiare lo stato delle cose. È qua la radice della
riforma: oltre un certo limite la diseguaglianza è incompatibile con la
democrazia. E allora o si riduce la prima, o si riduce la seconda. E questa
riforma ha scelto la seconda opzione: che a me pare il contrario di ciò che
dovrebbe fare una qualunque Sinistra. D’altra parte questa scelta è stata
coerente con la linea del governo Renzi: cosa c’è di sinistra nei voucher, e
nel Jobs Act che riduce i lavoratori a merce, introducendo il principio che
pagando si può licenziare? Cosa c’è di sinistra nel procedere per bonus una
tantum che non provano nemmeno a cambiare le diseguaglianze strutturali, ma le
leniscono con qualcosa che ricorda una compassionevole beneficenza di Stato?
Cosa c’è di sinistra nel “battere i pugni sul tavolo” con l’Unione Europea,
invece di costruire un asse capace di chiedere la ricontrattazione dei trattati
(a partire da Maastricht) imperniati sulle regole di bilancio e sulla libera
circolazione delle merci, e non sul lavoro e i diritti dei cittadini? Cosa c’è
di sinistra nel puntare tutto su una nuova stagione di cementificazione,
attraverso lo smontaggio delle regole (lo Sblocca Italia)? Cosa c’è di sinistra
in una Buona Scuola orientata a «formare persone altamente qualificate come il
mercato richiede, svincolandola dai limiti che possono derivare da
un’impostazione classica e troppo teorica» (così la ministra Giannini)? Cosa
c’è di Sinistra nello smantellare la tutela pubblica del patrimonio storico e
artistico, condannando a morte archivi e biblioteche, e mercificando in modo
parossistico i grandi musei, detti ormai “grandi attrattori” di investimenti?
Il punto, in sintesi, è questo: mentre oggi Destra e Sinistra concordano nel ritenere senza alternative un’economia di mercato, la Sinistra non crede che dobbiamo essere anche una società di mercato. E mentre la prima ripete Tina (there is no alternative), la seconda lavora per costruire un’alternativa praticabile allo stato delle cose. Se il Partito democratico ha fatto di Tina il proprio motto non è certo colpa di Matteo Renzi: ma questi è stato il più brillante portavoce di questa mutazione. Se la politica di una società di mercato non può che essere marketing, il modo di pensare, parlare, governare di Renzi è stato paradigmatico. Allora la questione è: ha senso costruire - come propone Pisapia - una nuova forza di sinistra che nasca con incorporato il dogma del Tina? La vera sfida è costruire una forza che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una forza persuasa che «guasto è il mondo, preda / di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula / e gli uomini vanno in rovina » (Oliver Goldsmith, The Deserted Village): e che sia venuto il momento di ripararlo, non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi.
Il punto, in sintesi, è questo: mentre oggi Destra e Sinistra concordano nel ritenere senza alternative un’economia di mercato, la Sinistra non crede che dobbiamo essere anche una società di mercato. E mentre la prima ripete Tina (there is no alternative), la seconda lavora per costruire un’alternativa praticabile allo stato delle cose. Se il Partito democratico ha fatto di Tina il proprio motto non è certo colpa di Matteo Renzi: ma questi è stato il più brillante portavoce di questa mutazione. Se la politica di una società di mercato non può che essere marketing, il modo di pensare, parlare, governare di Renzi è stato paradigmatico. Allora la questione è: ha senso costruire - come propone Pisapia - una nuova forza di sinistra che nasca con incorporato il dogma del Tina? La vera sfida è costruire una forza che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una forza persuasa che «guasto è il mondo, preda / di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula / e gli uomini vanno in rovina » (Oliver Goldsmith, The Deserted Village): e che sia venuto il momento di ripararlo, non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi.
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