** è un uomo giovane. ** è un
uomo istruito. ** proviene da una famiglia abbiente. ** lavora. ** non fa
mistero dei suoi pensieri. Un suo pensiero è che i poveri non debbano
permanere, anche solo temporaneamente, nel suo paese. Il suo paese è in una della zone
più benestanti del bel paese. Il paese in cui abita ** ha condotto battaglia
per allontanare i poveri costretti all’accattonaggio. ** plaude alle iniziative
della amministrazione comunale per il pieno conseguimento del “repulisti”,
indifferente laddove il Salmo - 42, 2 - recita: “quare me repulisti?” (“perché
mi hai respinto?”). Sostiene ** che l’accattonaggio vada perseguito anzi, molto
meglio, inflessibilmente perseguitato. Perché ** non vuole che i poveri
accattoni sostino per le vie di ***. La loro vista disturba **. Sostiene sempre
** – cristianamente – che “sarebbe cosa buona e giusta” che i
poveri costretti all’accattonaggio si trasferissero in altri luoghi. Quali? **
non ha risposte. ** non è interessato al dove. Ovunque, purché non sostino nelle
vie e viuzze di ***. Tanto meno nell’isola pedonale di ***, che è meta dello
struscio serotino. I poveri costretti all’accattonaggio sono per ** come degli
avanzi, degli scarti. La loro sola presenza disturba **. Come quei residui che
all’occorrenza si trasferiscono lestamente con il piede sotto la coltre del
tappeto buono di casa. Si sa dell’esistenza di quei residui ben nascosti sotto
il tappeto di casa, ma non li si vede e pertanto non disturbano la vista. I
poveri come quei resti. Che stanno bene ovunque per **, tranne che nel suo
solatio paese. La povertà degli altri non sollecita in ** interrogativi e pensieri
di solidarietà o di fratellanza – miraggio quest’ultimo universalmente e
miseramente fallito dopo millenni di buoni proponimenti e di inutili prediche -.
Della povertà e dintorni ne ha scritto da par Suo Umberto Galimberti nella
corrispondenza “L'ipocrisia
dell'elemosina”, corrispondenza pubblicata
su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”: (…). …siamo di fronte alla
povertà che si manifesta sui sagrati delle chiese o agli angoli delle nostre
strade. Punte di un iceberg di quella povertà più diffusa e massiccia che però
tende a nascondersi perché ciò che espone è una condizione umiliante. Nessuno
va a cercare la povertà perché la sua vista inquieta. Al massimo un gesto senza
neppure guardare in faccia il destinatario. A volte persino una catena di gesti
che però non entrano in contatto con la povertà, ma solo con l'organizzazione
deputata a soccorrerla. Così la povertà non si vede se non in qualche flash
televisivo tra una forchettata e un'altra. Ciò che non si vede non esiste, o
esiste solo come sentito dire, come statistica, dove i numeri hanno il solo
compito di cancellare il volto di quei poveri a cui la miseria ha già tolto,
almeno da noi, se non il pane, certo quasi tutte le possibilità che il nostro
vivere concede ai suoi abitanti. Ben vengano allora in tutte le loro forme i
poveri che manifestano la loro povertà. Perché quella segreta complicità che
esiste tra il povero che si nasconde e il benestante che non lo va a cercare,
sottrae la povertà allo spettacolo quotidiano, la espelle dalla percezione, la
rimuove dalla vista, per farla vivere occasionalmente solo nel gesto distratto
di una mano che allunga qualcosa che non cambia di un grammo la nostra
esistenza. E così, non toccata, anche la nostra esistenza si rende immune dalla
presenza anche massiccia della povertà. Una povertà silenziosa, densa come la
nebbia, che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare
inosservata solo a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. Ma il
rimosso ritorna. E non ritorna come senso di colpa, da cui è facile sgravarsi
con un gesto di elemosina a chi ci appare dignitoso e non invadente. Ritorna
come atrofizzazione del nostro cuore che, per non percepire, non vedere, non
sentire quel che inevitabilmente ci tocca, deve procedere a tali colpi di
amputazione in ordine alla sua percezione del mondo da diventare alla fine un
povero cuore. E qui la povertà materiale di coloro che, talvolta visibili, ma
il più delle volte invisibili, si muovono nei bassifondi delle condizioni
impossibili d'esistenza, compie la sua vendetta mutilando il nostro cuore per
consentirgli di non percepire. Ma siccome la povertà esiste, non entrare in
contatto o entrarvi solo nei modi che decidiamo noi significa inventarsi un
mondo diverso da quello che è, e quindi prender dimora in uno spazio di
falsificazione. In questo spazio il nostro cuore, che per non vedere è costretto
a mutilare la sua sensibilità, ci rende insensibili a noi stessi e poveri di
autopercezione. E allora se i poveri non hanno pane, coloro che non li vogliono
vedere finiscono col non disporre più di sé. La condizione umana, infatti, è
comune. E il tentativo di chi vuol difendersi non solo dalla povertà, ma anche
dalla sua vista, è l'inganno di un giorno. E giorno dopo giorno l'inganno
diventa la falsificazione di una vita, soprattutto se evitiamo di pensare che
gran parte della povertà del mondo dipende dal nostro tenore di vita che forse
è al di là di ogni misura, senza che questa condizione abbia aumentato di un
grammo la nostra felicità.
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